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Eddyburg: “cambiare verso” alla distruzione del territorio a alla crescita del disagio urbano

vignetta di Sergio Staino

vignetta di Sergio Staino

Eddytoriale 168 di Eddyburg   11 Dicembre 2015

È ferma in Parlamento la proposta di legge sul consumo di suolo. Non ne siamo affatto dispiaciuti. Prima si mette una pietra su quel documento meglio è. Abbiamo apprezzato a suo tempo l’impegno dell’allora ministro per l’Agricoltura Mario Catania ad affrontare il tema con la volontà di risolverlo, sebbene ne avessimo criticato fin da allora l’impostazione. Abbiamo seguito e criticato via via le modifiche apportate e i cospicui peggioramenti del testo iniziale, e abbiamo assistito infine al suo completo stravolgimento: così evidente che il suo originario promotore ne ha preso recentemente le distanze.

Quindici anni dopo

Come è noto ai frequentatori di eddyburg siamo stati i primi a sollevare, nell’ormai lontano 2005, il problema del carattere, delle dimensioni, della dinamica del consumo di suolo nel nostro paese e a indicare l’urgenza di affrontare energicamente il fenomeno per arrestarlo.

Nella società, e in alcune, pochissime, amministrazioni locali qualcosa si è mosso. “Stop al consumo di suolo” è diventato uno slogan diffuso e ha prodotto la nascita di interessanti e positive iniziative di massa, quali l’associazione e il forum promossi dal sindaco di Cassinetta di Lugagnano, Domenico Finiguerra, di cui siamo stati partecipi. La maggior parte dei comitati e dei gruppi di cittadinanza attiva impegnati nella difesa del territorio, l’ambiente, il paesaggio hanno assunto il contrasto al consumo di suolo tra i propri obiettivi.

Ma sul terreno della politique polticienne e delle istituzioni nulla si è mosso. Nessun provvedimento serio è stato preso a livello nazionale. A livello regionale una sola regione, la Toscana, ha prodotto una legge esemplare, dovuta alla sapiente determinazione dell’assessore Anna Marson e all’appoggio che per un lungo periodo le ha dato il presidente Enrico Rossi. L’espressione “consumo di suolo” ha continuato a girare nelle rotonde parole della politica e della cultura, (sebbene si sia passati dallo sbrigativo “stop al consumo di suolo” al più morbido e ragionevole “contenimento del consumo di suolo”). Ma si è subito accompagnato a un’altra espressione, “rigenerazione urbana”. Espressione di per sé non disdicevole ma, come tutte le parole, suscettibile di interpretazioni diverse, e anzi opposte. Oggi, nel contesto dell’attuale discorso sul “contenimento del consumo di suolo”, è diventata la parola il cui significato concreto, è “la nuova forma della speculazione immobiliare”. Vogliamo annotare subito il poderoso contributo che a questo rovesciamento di senso hanno dato l’accademia e la cultura urbanistica “ufficiale” rappresentata dall’INU, da tempo diventato il facilitatore delle fortune dei poteri immobiliari.

A che punto stanno le cose oggi?

Esiste (ancora) la proposta ferma al Parlamento nazionale. Abbiamo già detto che la sua definitiva sepoltura è del tutto auspicabile, poiché è una legge che, ove fosse approvata, non darebbe nessun risultato positivo per quanto riguarda la riduzione del consumo di suolo per le ragioni che sono state puntualmente indicate su queste pagine negli articoli di Vezio De Lucia*, di Cristina Gibelli*, di Ilaria Agostini*. In una parola, essa prevede lo svolgersi di una tale successione di atti e di una tale concatenazione di interventi delle diverse figure istituzionali da richiedere tempi misurabili in anni se non in decenni e, soprattutto, da consentire innumerevoli interruzioni del percorso stabilito. Essa inoltre aprirebbe la strada a quella “rigenerazione urbana” speculativa cui abbiamo accennato, e su cui torneremo. Ci confortano nella nostra posizione le parole che ha recentemente espresso l’on. Mario Catania: «poi è entrata la parte della rigenerazione urbana» ha detto l’ex ministro, «e se fosse approvato sarebbe inefficace» (la Stampa, 5 dicembre2015).

La buona legge

Esiste, come abbiamo ricordato, una legge della regione Toscana, pienamente vigente. Essa ha superato un passaggio al vaglio della Corte costituzionale, che l’ha ripulita di due discutibili norme inserite nell’iter su richiesta dell’Anci, e per nulla incidenti sulla struttura della legge. È una legge di cui abbiamo ampiamente illustrato la positività, che brevemente riassumiamo. Sulla base di una precisa definizione dei termini impiegati (in particolare la distinzione tra territori urbanizzati e territori rurali) la legge prescrive che i piani comunali delineino nettamente il confine che separa il territorio oggi urbanizzato da quello rurale. Ogni nuovo intervento di nuova edificazione o di trasformazione urbanistica deve essere collocato all’interno del territorio urbanizzato. Nel territorio rurale non sono mai consentite nuove edificazioni residenziali; sono invece possibili limitate trasformazioni di nuovo impianto per altre destinazioni, solo se autorizzate dalla conferenza di pianificazione di area vasta (alla quale partecipa la Regione, con diritto di veto) cui spetta di verificare che non sussistano (anche nei comuni limitrofi) alternative di riuso o riorganizzazione di insediamenti e infrastrutture esistenti.

Naturalmente la legge definisce con precisione ciò che i comuni possono autorizzare o non autorizzare fino all’approvazione di nuovi piani conformi alle nuove prescrizioni regionali, nonché le regole da seguire nelle trasformazioni delle aree già urbanizzate per evitarne il degrado ambientale o sociale, per rispettare il rapporto tra aree edificate e aree libere, tra volumi e spazi aperti, tra abitanti e spazi pubblici e usi pubblici e così via. Una legge, insomma, che costituisce un piccolo manuale della buona urbanistica; essa dovrebbe costituire un testo da studiare in tutte le sedi universitarie che si occupino di trasformazioni del territorio, e siano davvero orientate alla formazione di tecnici impegnati nella progettazione e realizzazione di un corretto uso del suolo, rurale ed urbanizzato, e non nella corruzione del mestiere di urbanista in quello di facilitatore delle attività immobiliari.

“Rigenerazione urbana” alla veneta

Esiste poi un progetto di legge della regione Veneto, che illustra splendidamente che cosa si intenda in quella regione (e in tutto il mondo politico e culturale che a quell’esempio si ispira) per “rigenerazione urbana” e su cui vogliamo per questo soffermarci. E il progetto di legge n. 390 «Disposizioni per il contenimento del consumo di suolo, la rigenerazione urbana e il miglioramento della qualità insediativa*», ed è firmata dal presidente della Regione Zaia e da un plotone di suoi seguaci.

Cominciamo col dire che il contenimento del consumo non c’è (come del resto non c’è il miglioramento della qualità urbana). Si dichiara, è vero, di assumere l’obiettivo di «evitare il consumo di suolo non urbanizzato» e quello di «invertire il processo di urbanizzazione del territorio», ma si esenta da questo “vincolo” una serie di tipologie di aree, pubbliche o private, «finalizzate all’attuazione di opere pubbliche o d’interesse pubblico».

Ne elenchiamo alcune: «edilizia residenziale pubblica o sociale», «aree pubbliche trasferite o da trasferirsi in attuazione del piano di alienazioni del patrimonio immobiliare», «aree individuate da accordi pubblico-privati» già in essere, «aree destinate a interventi di rilievo sovracomunale, previa autorizzazione della giunta regionale».

Non solo, ma nell’attesa di un successivo provvedimento regionale che stabilisca «i limiti del consumo di suolo per finalità urbanistico-edilizio» si consente comunque ai comuni di «individuare nei “piani degli interventi” vigenti fino al 50% delle superfici corrispondenti al carico insediativo aggiuntivo previsto dai “piani di assetto territoriale”», conservandone la capacità edificatoria. Si tenga conto che secondo stime autorevoli, i “piani di assetto territoriale” hanno generalmente convalidato le previsioni contenute nei PRG vigenti, i quali consentirebbero un aumento pari al 40% dell’attuale urbanizzato (vedi: Legambiente Veneto, Osservazioni al progetto di legge della Giuntaregionale del Veneto n. 390). Un parere molto critico lo ha formulato anche il Dipartimento di Progettazione e Pianificazione in Ambienti Complessi.

Nulla, quindi, per il contenimento del consumo di suolo, ma tranquilla prosecuzione del trend che ha fatto del Veneto, come gli stessi presentatori ammettono nell’accattivante relazione, una delle regioni peggiori d’Italia. Ma vediamo in che consiste quello che è il vero obiettivo della legge: la cosiddetta ”rigenerazione urbana” .

Per cominciare si dichiara che «sono da considerarsi d’interesse pubblico anche ai fini dell’eventuale rilascio di permessi da costruire in deroga» una serie di interventi di demolizione (manufatti privi di vincoli di protezione, o ricadenti in aree soggette a rischio idraulico o geologico, manufatti degradati, o che comunque dequalificano il tessuto urbano circostante). Si prosegue dichiarando che «è consentita la riutilizzazione propria dei manufatti demoliti con destinazioni d’uso anche diverse da quelle attuali, in loco o in altra area compresa nel tessuto urbano già consolidato».

Che cosa questo c’entri con una “rigenerazione edilizia” correttamente intesa non si comprende proprio. Basta però andare al comma successivo il quale chiarisce che: «per promuovere la rigenerazione edilizia i comuni possono prevedere «anche in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, un incremento premiale della volumetria o della superficie utile fino al 15%», incrementabile fino al 30% se la Giunta regionale è d’accordo.

L’esame, e l’implicita denuncia, potrebbero continuare. Ma limitiamoci a tirar fuori il succo dalle disposizioni. Rigenerazione edilizia “alla veneta” significherebbe aumento indiscriminato dei volumi edificati in ogni parte del territorio già totalmente o parzialmente edificato (comprese le aeree di completamento, cioè d’espansione, previste dai piani vigenti). Significherebbe riduzione del rapporto tra aree edificate e aree libere, tra aree e volumi di proprietà e uso privato e aree e volumi di uso pubblico (e naturalmente nessuna probabilità che all’aumentato numero di abitanti corrisponda un aumento delle dotazioni pubbliche. Nessuna garanzia di mantenimento in loco degli abitanti già insediati e anzi promozione di un’espulsione delle famiglie e delle attività più povere. Nessuna possibilità di attuare una pianificazione finalizzata ad avere un minimo di razionalità dell’equilibrio tra le diverse funzioni sul territorio) abitazioni, commercio, attività lavorative, servizi pubblici, e quindi mobilità. Il caos primigenio, qualcosa di simile agli slums e alle favelas ma con volumi eccezionalmente maggiori e assoluta irreversibilità della trasformazione

Una proposta di eddyburg

Esiste infine una proposta di legge nazionale di un gruppo di amici di eddyburg, basata sulla possibilità costituzionalmente legittima di un intervento diretto dello Stato che costituisca un vincolo insuperabile per le regioni che volessero resistere.

Già nel 2006 un gruppo di amici di eddyburg aveva presentato una proposta di legge che fu fatta propria dai gruppi parlamentari della sinistra. La XV legislatura si concluse con un nulla di fatto. Poi le varie vicende che hanno condotto alla proposta Catania e al suo progressivo indebolimento. Ci eravamo via via convinti che era illusorio basarsi su procedure che assegnassero un ruolo determinante alle Regioni. Se una sola di loro aveva positivamente reagito e il suo esempio non era stato seguito da nessuna delle altre (e platealmente ignorato o contrastato dalla cultura urbanistica ufficiale) occorreva aggiustare il tiro.

Fino ad allora ci si era riferiti alla materia “governo del territorio” di cui all’art. 117*, comma 3, della Costituzione, (una disposizione che affida la potestà legislativa alla Regioni, riservando allo Stato la sola determinazione dei principi fondamentali: un percorso – si afferma – inadatto a raggiungere risultati soddisfacenti in tempi ragionevoli).

Nella nuova proposta di legge di eddyburg si suggerisce invece di riferirsi al comma 2, lettera s) dello stesso articolo*, che elenca le materie in cui la potestà legislativa è di competenza esclusiva dello Stato. In effetti, come si afferma nella proposta, la salvaguardia del territorio non urbanizzato, in considerazione della sua valenza ambientale e della sua diretta connessione con la qualità di vita dei singoli e delle collettività, costituisce parte integrante della tutela dell’ambiente e del paesaggio.

Questo cambio di prospettiva, che si traduce in una significativa compressione delle competenze legislative delle Regioni, è giustificato dal valore collettivo che tali porzioni di territorio hanno assunto non solo per i singoli e le collettività di oggi ma, in una logica di solidarietà intergenerazionale.

Per concludere: due modesti obiettivi

Non nutriamo nessuna speranza che l’attuale Parlamento, dominato e di fatto sostituito dall’attuale governo, possa esprimere la volontà di affrontare l’argomento nell’unico modo che ci sembra suscettibile di un risultato positivo. E ci rendiamo anche conto che non basta contenere il consumo di suolo per risolvere tutti i problemi che una effettiva riutilizzazione delle aree giù urbanizzate pone per essere diversa da quella oggi dominante. Cosa, quest’ultima, molto facile se si torna ai principi e alle pratiche della buona urbanistica

Ci proponiamo unicamente di raggiungere due obiettivi.

Il primo è denunciare il ruolo della cultura urbanistica ufficiale. Abbiamo sentito pochissime voci opporsi all’ignobile progetto Zaia (soltanto, in sede locale, quelle di Legambiente Veneto e dell’Università IUAV di Venezia). Ne registreremo volentieri altre se ci perverranno.

Ma soprattutto riconosciamo in quel progetto di legge molti dei gravi cedimenti della corretta urbanistica (un’urbanistica al servizio di tutti gli abitanti, a cominciare dai più deboli, e non al servizio degli interessi immobiliari): i premi di cubatura, le deroghe, la perversa invenzione dei “diritti eduficatori”, la possibilità di modificare ad libitum le destinazioni d’uso, i crediti edilizi collocabili al di fuori di qualunque contesto pianificatorio, la scomparsa degli standard urbanistici pubblici, la tranquilla liquidazione dei patrimoni immobiliari pubblici. Ma potremmo continuare il nostro elenco.

Il secondo obiettivo è quello di richiamare l’attenzione delle forze sociali e politiche che intendono “cambiare verso” alla distruzione del territorio a alla crescita del disagio urbano, e sollecitarle ad affrontare il tema con maggiore attenzione e maggior rigore di quello finora dimostrato. Abbiamo l’impressione che – vogliamo dirlo schiettamente – la cultura urbanistica, nel senso di una vigile comprensione del modo in cui il sistema normativo si traduce in concrete decisioni incidenti sulla qualità della vita dei cittadini attuali e futuri sia del tutto assente dalla cassetta degli attrezzi dei decisori.
Comprendiamo che i tempi sono cambiati da quelli in cui campeggiavano nell’arengo politico e amministrativo personaggi come Fiorentino Sullo o Camillo Ripamonti o Aldo Natoli o Giacomo Mancini o Piero Bucalossi, ma qualcosa di più di quello che il panorama attuale presenta si potrebbe pretenderlo. Non ci riferiamo tanto alla “destra” (per i cui esponenti il “verso” attuale è più che soddisfacente e le assicurazioni tecniche della cultura urbanistica ufficiale sono largamente sufficienti per affinità ideologica) ma soprattutto a “sinistra” o dove comunque ci si ponga l’obiettivo di rendere città e territorio più idonei a soddisfare le esigenze attuali e future dei loro abitanti.

*i link sono nostri

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