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Equivoci sul verde in città

Pubblichiamo un’interessante riflessione di Michela Barzi sul verde urbano da Millennio urbano

Equivoci sul verde in città

Una filosofia del verde urbano è questione seria ed essa ha innanzitutto bisogno di un glossario per inverarsi sia nella sua declinazione amministrativa che nella percezione collettiva della parte non edificata delle città. Vale la pena tornare quindi sulla polemica delle palme messe a dimora nelle aiuole di piazza del Duomo a Milano e farlo a partire da alcuni concetti sulla cui confusione spesso indugiano gli amministratori.

Partiamo quindi dalla nozione di giardino pubblico, al quale appartiene l’aiuola che di esso è una versione spazialmente limitata e preclusa alla pubblica fruizione. Sorvoliamo qui sulla storia dell’apparizione dei giardini pubblici nello spazio urbano per concentrarci solo un attimo sui loro aspetti progettuali e sulle relazioni di questi ultimi con gli elementi naturali. Rispetto allo scandalo delle palme a Milano ciò che qui interessa sottolineare è che i giardini, in ogni loro forma e manifestazione aiuole comprese, sono un consolidato esempio di globalizzazione botanica e l’arte della composizione delle differenti specie vegetali ha storicamente cercato di essere qualcosa di distinto dalla rappresentazione della natura circostante. Segno di questo scostamento dalla imitazione della natura può essere colto da ciò che scriveva nel 1838 lo scozzese John Claudius Loudon in The Suburban Garden. Piantare alberi e arbusti non autoctoni era l’unico modo per fondare un’arte del giardinaggio altrimenti impossibile, dato che la semplice imitazione della natura non ha di per sé qualità artistiche. A partire dalla metà del XIX secolo il principio dello stile gardenesque, che ha influenzato tanto i giardini privati quanto quelli pubblici, si è andato via via consolidando come un vasto repertorio di piante esotiche.

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Foto C. Fissardi

Di esse fanno parte le palme cinesi (Trachycarpus fortunei) piantate nell’aiuola tripartita di piazza del Duomo che hanno stupidamente fatto gridare all’africanizzazione di Milano. A ragione il progettista del recente allestimento sponsorizzato da Sturbucks ha affermato che non c’è da meravigliarsi dell’uso delle palme e dei banani, perché soprattutto le prime, nella versione cinese climaticamente più adattabile, sono presenti da oltre un secolo anche nei giardini lombardi. L’esotismo della composizione vegetale, che sta per essere completata di fronte al monumento che di Milano è il simbolo, non ha quindi di per sé nulla di scandaloso ed è una solenne stupidaggine rivendicare il primato delle piante autoctone negli allestimenti delle aiuole.

Eppure nel precedente allestimento della piccola area verde di piazza del Duomo, realizzato grazie ad un differente sponsor nel 2014, un insieme di alberi, arbusti e piante erbacee “autoctone della pianura Padana” aveva sostituito i “fiorellini laccati e cavolfiori ornamentali nel luogo simbolo di Milano”. “ La natura entra in città. E lo fa dalla porta principale”, era la perentoria affermazione che accompagnava la descrizione giornalistica della nuova filosofia milanese del verde urbano, che “non asseconda il gusto del momento con fiori che durano una stagione, ma preferisce specie perenni, nella loro forma spontanea, che rappresentano il territorio”. Qui sta lo scandalo, almeno nel significato etimologico di inciampo: solo tre anni  fa l’obiettivo era la rinaturalizzazione delle aree verdi, con conseguente risparmio sui costi di gestione, e ora si dà via libera ad una interpretazione decisamente artificiale dell’aiuola che fa parte della pavimentazione della piazza simbolo di Milano. Quanta confusione, quindi, tra i carpini del 2014 e le palme del 2017, riguardo la funzione ecosistemica e simbolica del verde urbano

Le palme dello scandalo, al di là del dibattito sul valore estetico del nuovo allestimento dell’aiuola, potrebbero fornirci l’occasione per interrogarci sulla funzione di quel fazzoletto di verde non fruibile a chiusura di una piazza che è ormai anche uno dei centri nevralgici dei flussi turistici globali. Rispetto poi al fatto che non vi è dubbio che un’aiuola abbia eminentemente una funzione ornamentale c’è però da chiedersi cosa significhi questa infinitamente piccola mimesi della estremamente grande diversità botanica del pianeta modificata ogni tre anni per iniziativa dello sponsor di turno con l’alternanza di flora locale e globale. Quali forme e funzioni alternative a quelle puramente decorative possono invece essere immaginate per le aree verdi che fanno parte dello spazio pubblico e come esse possono adattarsi ai bisogni e alle diverse modalità di fruizione della città?

A questo riguardo una riflessione può essere fatta a partire dalla foto del 1943 che fa da testata a questo articolo. Durante l’ultima guerra la necessità di trovare spazi per la produzione di cibo in una città ridotta alla fame non aveva risparmiato l’aiuola di piazza del Duomo, dove al posto delle piante ornamentali fu seminato il grano. In anni più recenti Renzo Piano e Claudio Abbado avevano pensato a quell’area  per mettere a dimora una piccola parte dei 90.000 alberi che avrebbero dovuto costituire il rimedio principale ai mali ambientali di Milano secondo la provocatoria proposta del grande direttore d’orchestra. Essa aveva sicuramente il pregio di considerare il verde urbano molto al di là della funzione decorativa da mero compendio vegetale delle composizioni architettoniche tipico della tradizione Beaux-Art. Tra la decorazione vegetale, la produzione di cibo e la valenza ecosistemica si snoda tutta l’indeterminatezza del concetto di verde urbano, che include una certa quantità di usi diversi del suolo: dalle aiuole spartitraffico alle aree agricole e boschive interne alla città, passando per i parchi pubblici, le aree cani, i giardini privati e persino le terrazze e i balconi.

Il passaggio dalla gestione pubblica a quella sponsorizzata di quella porzione di verde urbano rappresentata dall’aiuola di piazza del Duomo dovrebbe quindi farci riflettere su quanto sia fondato continuare a considerarla tale. Tanto le piante autoctone quanto quelle esotiche vengono temporaneamente messe a dimora in una scenografia di elementi vegetali che diventa un episodio del paesaggio urbano. Se la sua funzione è simile a quella che hanno le fioriere sui balconi degli edifici, essa avrà necessariamente poco a che fare con il concetto di “area verde” inteso come spazio non edificato e non impermeabilizzato. Se è così lo scandalo delle palme non deve sorprendere, ma invece deve meravigliare la confusione che regna sul concetto di verde urbano. Esso viene continuamente sbandierato come elemento cruciale di concetti quali la sostenibilità, la resilienza e l’equità sociale delle città, finendo così per far parte della ulteriore confusione che attorno ad essi gravita. Spesso utilizzato per operazioni di creazione preventiva del consenso delle politiche pubbliche, esso viene infine assimilato all’idea di bene comune che piace tanto agli amministratori in virtù della sua genericità.

Se si vuole affrontare seriamente una nuova filosofia del verde urbano che lo sottragga innanzi tutto alla mera funzione decorativa, diventata economicamente insostenibile per le casse pubbliche, si deve prioritariamente far uscire il concetto dalla vaghezza con il quale lo si evoca quando di mezzo ci sono questioni importanti come il rapporto tra pubblico e privato nella gestione delle città.

Riferimenti

L. De Vito,Orti perenni e prati fioriti la nuova filosofia del verde inizia da piazza Duomo, La Repubblica, 4 luglio 2014.

La foto di testata è tratta dal sito del Corriere della Sera.

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