Anna Maria Bianchi Loretta Mussi, medico, impegnata da tempo nei Comitati NO AD. Quali possono essere le conseguenze se si incomincia suddividere la sanità, ancora più di come è già oggi, Regione per Regione?
Loretta Mussi La sanità è stata già in parte trasferita alle Regioni con la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001, quindi nel corso di vent’anni le Regioni si sono di fatto appropriate di molte competenze che le hanno rese molto autonome, anche perché lo Stato non ha esercitato su di esse alcun controllo. Con l’autonomia differenziata, il quadro si aggraverà, voglio ricordare solo due aspetti. Come prima cosa si avrà la cessazione del Servizio Sanitario Nazionale, unico per tutti i cittadini, ma esisteranno dei Servizi, anzi, dei sistemi sanitari regionali, cui saranno devolute competenze importanti come la fissazione dei limiti e parametri di salute e di funzionamento dei servizi, che non saranno più stabiliti da un’unica autorità. La frammentazione del Servio Sanitario si rifletterà anche sui contratti degli operatori, che non saranno più nazionali, ma regionali, provocando divisioni tra i lavoratori, contratti diversi da un capo all’altro del paese, trasferimenti di operatori dalle regioni più povere a quelle più ricche. Già solo questi due aspetti saranno devastanti per i Servizi sanitari e quindi per la salute.
Negli ultimi mesi abbiamo sentito molto parlare dei LEP, cioè i Livelli Essenziali delle Prestazioni concernenti diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale, che, benché non facciano parte della sanità, sono fondamentali per il benessere di una comunità, in quanto molte delle cause delle malattie e della mancanza di salute dipendono dalla assenza di questi diritti nelle varie Regioni italiane, soprattutto al sud. Si è fatto un gran parlare di questi LEP e se ne è scritto moltissimo sui giornali, ma di fatto sarà molto difficile la loro corretta individuazione e, soprattutto, il loro finanziamento, quindi resteranno inapplicati. Al di là dei ben noti limiti di bilancio è lo stesso Disegno di Legge Calderoli che non prevede assolutamente che siano messe a disposizione nuove risorse umane, strumentali e finanziarie per mantenerne almeno i principi e i parametri che ci sono adesso. Quindi la situazione della sanità peggiorerà sicuramente, tranne che nelle tre Regioni capofila, che hanno già siglato le pre intese, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, che hanno già cominciato a sviluppare in una certa direzione i propri servizi sanitari regionali e che potranno trattenere gran parte delle proprie tasse al fine di finanziare le diverse competenze, comprese quelle nuove ottenute con la autonomia differenziata. Mentre questo non succederà nelle regioni del Sud, che non potranno contare sul residuo fiscale e quindi, in mancanza di un finanziamento da parte dello Stato, non saranno certo in grado di migliorare né di applicare i LEP e i LEA, come del resto succede già adesso.
I LEA sono Livelli Essenziali di Assistenza, cioè i livelli propri della sanità, quelli sui quali si struttura l’attività dei servizi sanitari. Ora, prima che i LEA fossero individuati e applicati, già nel 2001, quindi con grande anticipo sul LEP, esistevano parametri e livelli su cui la sanità era strutturata. I LEA sono stati introdotti probabilmente per fornire delle guide che contenessero e delimitassero l’autonomia legislativa ed organizzativa delle regioni in seguito al passaggio delle competenze, al fine di evitare una eccessiva differenziazione. Di fatto i LEA sono serviti a ben poco, perché, se si confrontano le tabelle che riportano i dati circa l’applicazione degli stessi con le diverse realtà, tali dati non corrispondono alle reali condizioni di erogazione delle prestazioni nelle varie Regioni. Le Regioni del sud sono tra quelle che li hanno applicati poco, però anche quelle che hanno applicato i LEA, hanno delle grosse falle: lo si è visto in occasione della pandemia da Covid allorché è apparso evidente che i LEA che riguardavano il territorio e la prevenzione non c’erano proprio, non erano stati applicati. Tant’è vero che in Lombardia, soprattutto in Lombardia, la sanità territoriale non è stata in grado di muoversi. Nel sud l’impatto è stato minore, anche se probabilmente sarebbe successa la stessa cosa qualora il Covid avesse picchiato forte come al nord, ma intanto la Regione più avanzata d’Italia ha dimostrato il proprio fallimento nell’organizzazione territoriale e nella capacità di affrontare la questione del Covid.
Anna Maria Bianchi Ci sono molti esempi di disparità territoriali già oggi, come le differenze nelle aspettative di vita e le attese per le prestazioni sanitarie…i posti letto…
Loretta Mussi. I dati disponibili (non sempre lo sono) ci danno alcune indicazioni circa l’aspettativa di vita, la speranza di vita, la multicronicità, i tempi di attesa…
L’aspettativa di vita presenta una media nazionale di 82,6 anni, però c’è un gap molto forte tra il nord e il sud perché, per esempio, a Trento è di 84,2 anni mentre in Campania è di 81 anni. Se si considera poi l’aspettativa di vita “in buona salute”, la differenza è ancora più grande, perché ci sono vent’anni di differenza tra il vivere in buona salute al Nord e vivere in buona salute al Sud.
Le differenze sono ancora più marcate per la Speranza di vita (che la pandemia ha ridotto di circa un anno a livello nazionale, quasi due anni in Lombardia). La speranza di vita senza limitazioni nelle attività a 65 anni, pari, a livello nazionale a 10 anni, scende a 8,3 nel Mezzogiorno e a 7,8 nelle Isole, mentre nel Nord sale a 11,0 anni. Particolarmente critica è la situazione della Regione Campania dove si osserva una elevata multi-cronicità con limitazioni gravi tra le persone di oltre 75 anni che risulta essere pari al 66,5% mentre la media nazionale è del 49%. In generale, la situazione di multi-cronicità grave risulta in media di 12 punti superiore nel Mezzogiorno rispetto alle Regioni del Nord e 8-10 punti superiore a quelle del Centro.
Le Regioni del sud, nelle statistiche della salute, sono tutte al di sotto della media nazionale, e questo è dovuto alla bassa qualità dei servizi sanitari, ma anche la difficoltà di accesso ai servizi sanitari e alla scarsa diffusione della prevenzione.
Rispetto ai tempi di attesa, che sappiamo essere enormi, i dati forniti da Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) sul rispetto dei tempi di attesa dei ricoveri programmati “urgenti” e sulle prestazioni ambulatoriali, indicano che continuano ad essere lunghi e che non sono migliorati rispetto alla situazione pre-Covid del 2019.
Vi sono poi servizi, su cui la Legge 833 del 1978 aveva molto puntato, come l’Assistenza Domiciliare Integrata (ADI), che non è stata mai davvero sviluppata. Si tratta di un’assistenza che si presta a domicilio, comprende trattamenti medici, infermieristici e di riabilitazione, e si integra con servizi socio-assistenziali (igiene personale, aiuto per i pasti etc). Già adesso al Sud è completamente inadeguata, ma anche al Nord non è molto diffusa. Questo significa che in certi territoricentinaia di migliaia di pazienti sono privi di assistenza domiciliare.
A questo proposito, vorrei ricordare ancora la pandemia da Covid, che ha reso evidente che non c’era nessuna organizzazione sanitaria per soccorrere in urgenza le persone nei territori, dove avrebbero dovuto restare anziché andare in ospedale, diffondendo ulteriormente l’infezione.
Mentre le regioni non dotavano i territori dell’assistenza domiciliare per i pazienti non richiedenti ricovero, sono comunque diminuiti i letti d’ospedale che sono scesi a 3.1 ogni mille abitanti (al Sud sotto sono scesi sotto 3), che sono tra i più bassi d’Europa e assolutamente insufficienti per coprire la domanda.
E basta guardare anche la cosiddetta “mobilità sanitaria”, gli spostamenti delle persone per ricevere cure fuori dalle loro Regioni di residenza. Le Regioni del sud, tutte insieme, in dieci anni hanno accumulato un saldo negativo di oltre tredici miliardi, e solo nel 2021 oltre 4 miliardi, soldi che sono andati a finire proprio nelle tre Regioni capofila della autonomia differenziata, cioè Emilia Romagna, Lombardia e Veneto, che hanno avuto di converso un saldo positivo, che tra l’altro le ha aiutate anche a sistemare i bilanci, mentre il saldo negativo, che è oltre il 70%, ce l’hanno tutte le Regioni del sud, compreso il Lazio e l’Abruzzo, che sono al centro.
Un altro aspetto importante, per la sanità, ma anche per le ricadute dell’autonomia è la prevenzione primaria, che aveva avuto grandissimo impulso dalla legge 833/1978, la prima legge di riforma sanitaria che aveva stabilito i principi fondamentali per la tutela della salute e per il servizio sanitario nazionale, e che prevedeva l’organizzazione da parte delle regioni dei servizi per la prevenzione primaria e per la tutela della salute sui luoghi di lavoro.
La 833 è stata poi seguita da altre leggi che non hanno fatto altro che ridimensionare – far dimenticare – i principi molto importanti per la prevenzione primaria che erano contenuti nella legge. Quando si parla di prevenzione si pensa allo screening, all’educazione alimentare, all’educazione sanitaria, che fanno parte però della “prevenzione secondaria”, e che in parte funzionano. Ma la prevenzione primaria è quella che agisce direttamente laddove ci sono le sorgenti della malattia, quindi l’ambiente, l’ecosistema, le fabbriche, il settore alimentare, l’agricoltura, l’edilizia, l’urbanistica e il settore dei rifiuti, i trasporti, l’energia. Sono tutti settori dove se venissero realizzati i principi della prevenzione primaria, con la prevenzione e l’eliminazione dei fattori nocivi, probabilmente avremmo un crollo delle malattie tra la popolazione, anche malattie infettive ma soprattutto croniche. Ma questo non avviene anche perché ha ricadute economiche, intacca il profitto.
Molto vicina alla prevenzione primaria è la sicurezza del lavoro che fino ad alcuni decenni fa era assicurata dai Servizi per la tutela della salute sui luoghi di lavoro, istituiti con legge regionale. Oggi sono decisamente ridimensionati, quando non, di fatto, eliminati.
Anna Maria Bianchi Quindi stiamo parlando di una situazione sanitaria che già attualmente è molto carente con la gestione nazionale… Ma che motivazioni hanno le Regioni nel richiedere l’esclusiva potestà della sanità, che in gran parte già gestiscono? Quali ulteriori competenze che oggi sono nazionali vorrebbero ottenere? E rispetto alle performances che hanno avuto in questi anni, non solo dal punto di vista economico, forse questa richiesta di passaggio di ulteriori competenze non è molto giustificata. E forse che più che di competenze si tratta anche di ottenere dei poteri…
Loretta MussiSi potrebbe rispondereche il vero motivo che spinge le regioni ad accaparrarsi la sanità sono soprattutto i soldi e il potere – si tenga presente che quasi l’80% del bilancio delle regioni è della Sanità. Poi vi è la volontà di procedere nella privatizzazione dei servizi sanitari, dove operano ormai vere e proprie multinazionali.
Vogliono pure avere il controllo del personale sanitario, ne abbiamo parlato all’inizio. Le tre Regioni che hanno firmato le preintese ad esempio chiedono che venga abolito il tetto per il personale (una delle cause del peggioramento dei servizi sanitari), ma, soprattutto, vogliono che come conseguenza della regionalizzazione si sostituisca alla contrattazione nazionale quella regionale.
Le cose sono peggiorate anche perché lo Stato è venuto meno. Nel momento in cui già col titolo V si sono dismesse alcune competenze sulla sanità che sono state trasferite alle Regioni, lo Stato è come se si fosse seduto, come se si fosse “liberato” di queste competenze che prima erano proprie e questo ha fatto sì che ci fosse una caduta enorme, nella capacità di analisi e di interpretazione della realtà delle proprie materie da parte del Ministero della Sanità. Ed è venuta meno anche la capacità di controllo, che sparirà completamente con l’autonomia.
Anna Maria Bianchi Ma tra le conseguenze del passaggio all’esclusiva potestà delle Regioni della tutela della salute, è possibile che sia ulteriormente incentivata la “privatizzazione” del servizio sanitario nazionale? In passato è intervenuta in un nostro webinar una ginecologa di Brescia che ci ha raccontato di consultori che vengono affidati a enti religiosi che di fatto comprimono poi il diritto all’aborto, come già avviene in molte zone del Paese, compreso il nord. Il rischio è quello di una ulteriore privatizzazione del servizio nazionale, che in molti casi può rispondere a criteri che sono più al servizio del profitto che dell’interesse pubblico
Loretta Mussi Sì, i criteri sono esclusivamente legati al profitto, con l’autonomia differenziata sicuramente ci sarà un aumento del passaggio della sanità dal pubblico al privato, che è già in essere in questo momento. In questi ultimi anni c’è stato un progressivo passaggio anche perché mano a mano che il servizio sanitario nazionale non funzionava bene, perché mancavano le risorse, e non solo quelle del personale, si faceva avanti il privato, che adesso non è più la clinica della famiglia, si tratta di multinazionali che lavorano in Italia e lavorano anche in Europa e extra Europa. Quindi si tratta di corpi potentissimi che sono in grado di imporre quelle che sono le proprie politiche. Adesso in Italia abbiamo in generale una copertura del pubblico ancora sul 70%- 74% delle strutture sanitarie, ma se andiamo a vedere il Lazio e la Lombardia, pur con diverse gestioni politiche, dobbiamo constatare che il privato ormai copre oltre il 50%.
I cittadini italiani ormai sono arrivati a spendere quaranta miliardi, soldi che escono direttamente dalle loro tasche. Da anni le visite specialistiche e le procedure diagnostiche sono per un terzo appannaggio del privato. La riabilitazione domiciliare, la riabilitazione di terzo livello, che è importantissima per gli acuti, i pazienti con una lesione del midollo spinale, o un danno cerebrale a seguito di un incidente o a seguito di un tumore, non viene realizzata tranne che in pochissimi centri. Si tratta di forme di riabilitazione che richiedono l’ospedalizzazione e una tecnologia altissima, molto poco diffuse in Italia.
Per quanto riguarda la riabilitazione che devi fare a casa o che devi fare in ambulatorio, sia a seguito di un incidente o per gli anziani, ormai è praticamente tutto in mano al privato. Oltre il 60% della popolazione con problemi funzionali gravi, non viene trattato nel pubblico, ma solo dal privato.
Anna Maria Bianchi C’è poi l’ “effetto arlecchino”, perché ci saranno delle Regioni che chiederanno la potestà esclusiva per la tutela della salute e altre che continueranno a fare riferimento al Servizio Sanitario Nazionale e alle normative di livello nazionale. E potrà anche succedere, come molti ipotizzano, che le Regioni del nord potranno procedere a una sorta di confederazione tra loro e allora fare anche una specie di mega servizio “multiregionale” in alternativa a quello attuale nazionale.
Loretta Mussi Ci sarà certamente un effetto arlecchino, con alcune Regioni autonome e altre che continuano a dipendere dallo Stato, uno Stato a questo punto sarà però impoverito, perché non avrà più le entrate delle Regioni più ricche o ne avrà comunque meno. Le Regioni più industrializzate, più ricche hanno lavorato da anni sull’idea di costituire una macro regione che si aggancia all’Europa – ma diventerà il “sud” dell’Europa- una macro regione italiana fatta da Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, forse un pezzo di Toscana, Veneto, non sarà sicuramente alla pari con le regioni dell’Europa centrale, perché le regioni che la compongono non sono più quelle di una volta, le Regioni ricche di una volta hanno perso parecchi punti. E quindi queste si assumeranno il compito ben remunerato di offrire prestazioni e servizi per gli abitanti delle Regioni meno fortunate che non potranno avere delle entrate sufficienti per sviluppare dei propri servizi.
Per concludere, le regioni in questi anni non hanno dimostrato di voler veramente costruire dei servizi sanitari regionali che andassero incontro alle richieste della popolazione, tenendo conto dell’ambiente particolare in cui la popolazione viveva. Da loro non sono mai venute proposte che andassero incontro a reali e particolari esigenze della popolazione e dei territori. L’unico interesse manifestato è stato quello di trattenere i propri soldi, di non spartirli con altre regioni e di accrescere il proprio potere.
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