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Enzo Scandurra – Gli Angeli non abitano più qui

locandina angeli non abitano piu qui periferie maggio 2015Periferie, relazione introduttiva

di Enzo Scandurra

leggi anche: Periferie, se la politica delega le archistar di  Enzo Scandurra, 5.1.2015 (in calce)

Il senso del convegno

Il senso di questo convegno è quello di tentare di ridefinire, alla luce dei grandi cambiamenti che investono gli anni che vanno dal Cinquanta ad oggi, il concetto stesso di periferia e, dunque, di conseguenza quello di città. Per dirla in sintesi, tutti avvertiamo che tra quei paesaggi desolati (ma carichi di attese e speranza) degli anni appena successivi al dopoguerra che circondavano le grandi città, e le sterminate “periferie” di oggi, c’è solo qualche pallida analogia essendo mutate le composizioni sociali dei loro abitanti e perfino i caratteri antropologici, oltreché le condizioni politiche, urbanistiche, e le caratteristiche del modello economico. Per questo abbiamo scelto come titolo del convegno, un verso di Pasolini ribaltato di senso.

Ma per capire quali siano questi cambiamenti che rendono perfino astratto o privo di senso l’accostamento delle vecchie periferie a quelle odierne, occorre fissare una data dopo la quale prende avvio questo cambiamento.

Le periferie storiche

Sulle periferie degli anni Cinquanta e Sessanta c’è una vasta letteratura che va dai romanzi alle opere cinematografiche. La prima fase, tra il 1943 e il 1955, è quella dei film neorealisti di Visconti, Germi, De Sica, De Santis. Ci descrivono una Roma post-bellica, una città provinciale che coincideva con la sua parte storica ancora non colonizzata dai turisti. Qualche anno dopo, tra il 1950 e il 1960, il genio profetico di Pasolini è riuscito a rappresentare la grande trasformazione di quegli anni: la fine di un mondo contadino e il dramma del sottoproletariato urbano, entrambi in via di cancellazione dalla storia con l’avvento delle prime manifestazioni di modernità (che per Pasolini, significava soprattutto consumismo). La letteratura sociologica e antropologica poneva intanto la sua attenzione su quello straordinario mondo di immigrati dal sud e contadini inurbati che si accampava a ridosso delle mura e che dava vita a inedite tipologie urbanistiche: borgate, borghetti, baraccamenti. Sono da ricordare le analisi di Ferrarotti e Macioti[1], le foto di Pinna[2], le testimonianze di vita come quella di don Sardelli all’Acquedotto Felice[3], le descrizioni dei grandi scrittori romani “d’origine” come Moravia o Elsa Morante, quella degli scrittori d’adozione come Caproni, Gadda, Gatto, Penna, Bertolucci. La città, per la prima volta, si estendeva oltre le sue storiche mura, invadeva l’agro, la campagna romana; nascevano le (nuove) periferie che accoglievano il nuovo ceto impiegatizio, soprattutto coloro che, in città, riuscivano a trovare lavoro nelle aziende municipalizzate o nelle ferrovie. Da allora narrazioni importanti come quelle sopra citate non ce ne sono più state.

Quelle periferie, allora lontane, quasi sconosciute, una volta evocate sono entrate a far parte della storia moderna di Roma, le si sono – potremmo dire – “appiccicate addosso” come una pelle: non c’è una Roma antica e una Roma moderna – diceva Pasolini – ma solo una, antica e moderna contemporaneamente. Nelle periferie storiche l’emarginazione, le disuguaglianze venivano elaborate – ricorda Walter Tocci – tramite un altrove temporale, un’utopia di buona società, da raggiungere attraverso l’emancipazione. In sostanza, le periferie storiche non erano soltanto luoghi di disperazione, di solitudine, di disincanto; piuttosto luoghi carichi di speranza, dell’attesa di un riscatto. In esse trovava consenso e faceva proseliti il “vecchio” Partito Comunista che tra i suoi obiettivi politici comprendeva il progetto del riscatto di questo popolo contro il potere e il dominio delle grandi famiglie di proprietari di terreni e immobiliari poi[4]. Questo atteggiamento di solidarietà si traduceva nel sostegno del PCI alla realizzazione di servizi, fogne, scuole. Ma ben presto le pessimistiche profezie di Pasolini trovarono conferma: negli anni Ottanta, avendo ormai ottenuto la sanatoria, i “borgatari” cominciarono a ragionare come proprietari immobiliari, trovando nella destra risposte più adeguate, fino allo smantellamento, verso la fine di quegli anni, delle tradizionali “roccaforti rosse” delle borgate abusive, diventate rapidamente egemonia della destra[5]

Da quegli anni in poi, con l’avvento del “mondo moderno”, studi e ricerche sulle periferie romane hanno subito un arresto o, nel migliore dei casi, hanno descritto frammentariamente episodi, spezzoni di realtà, via via che le periferie si allontanavano da quelle immagini stereotipe trasformandosi in qualcosa di profondamente diverso e, come sostiene Ferrarotti: “accontentandosi di ricerche frammentarie, tanto tecnicamente raffinate quanto sostanzialmente prive di significato[6]. Oggi sono oggetto di attenzione per gli episodi di cronaca nera e di esplosioni di rabbia sociale.

La grande mutazione delle periferie

L’episodio che ha fatto uscire dal torpore le amministrazioni di sinistra sulle trasformazioni avvenute in questi territori, è stato, a Roma, l’esito straordinario delle votazioni cittadine sullo scontro elettorale tra l’ex Sindaco Rutelli e il suo rivale Alemanno, nel 2008, al termine di un quindicennio di ininterrotto governo del centro sinistra e appena due anni dopo che lo stesso Veltroni alle comunali del 2006 aveva raccolto il 62% dei voti. Le analisi dei risultati del voto dimostrarono come a sconfiggere la sinistra erano stati proprio i voti delle periferie romane un tempo serbatoi privilegiati, “cinture rosse” contro il voto delle aree centrali della città tradizionalmente di destra e ora “inspiegabilmente” diventate sostenitrici dell’esperimento riformista delle amministrazioni di sinistra. Si parlò, a quel tempo, di risentimento e di rancore nei riguardi di una sinistra che aveva abbandonato alla destra il presidio di quei territori, volgendo le spalle agli abitanti delle periferie[7]. Il libro di Siti, Il contagio, seppure in forma di romanzo, costituisce una svolta dell’immagine tradizionale e stereotipata delle vecchie periferie. Le borgate romane descritte da Siti vanno trasformandosi in una poltiglia indistinta ammaliata dai nuovi valori borghesi del consumismo abbandonando ogni speranza di rigenerarsi, ogni illusoria attesa di un mitico riscatto sociale, rompendo i vecchi legami solidali e arcaici che tanto avevano affascinato Pasolini, innescando una diffidenza di ciascuno contro ogni altro, abbandonandosi nella disperazione degli “ultimi” condannati a rimanere tali per sempre[8].

Un sintomo oggettivo di questa trasformazione delle periferie è costituito dal fatto che a fronte di un allargamento del benessere dagli anni Cinquanta- Sessanta ad oggi, “il mondo periferico non si restringe, non indietreggia. Anzi il mondo periferico avanza”[9]. Oggi possiamo ben dire, fuori da metafora, che la città, Roma in particolare, è una gigantesca periferia, essendo il suo centro un luogo residuale di vita, spesso un vero e proprio museo ad uso e consumo del turismo predatorio. Quello di periferia è diventato pertanto un concetto estendibile a gran parte del mondo moderno fuori dall’Occidente così come interno ad esso, spesso presente e osservabile nel cuore stesso della città.

Il mondo si periferizza

Questo perché quello che chiamiamo benessere è una assolutamente squilibrata distribuzione delle ricchezze, portatrice di più accentuate disuguaglianze che non eliminano le periferie ma ne estendono l’area d’influenza sulle città secondo lo slogan “siamo il 99%”: “Chi appartiene all’1% se ne sta andando con i soldi, ma nel frattempo non ha procurato se non angoscia e insicurezza al restante 99%. La maggioranza degli americani semplicemente non ha tratto alcun vantaggio dalla crescita del paese[10]. E quello che Stiglitz afferma per il popolo americano ha indubbio valore per ogni altro popolo occidentale. “Per anni” sostiene Stiglitz “è esistito un patto tra chi stava in alto e il resto della società e il patto era più o meno questo: noi vi daremo lavoro e prosperità mentre voi ci lascerete liberi di portarci a casa i nostri bonus. In altre parole: voi avrete la vostra parte, anche se noi ne avremo una più grande”. Oggi quel tacito accordo (welfare, dico io) tra i ricchi e il resto degli americani, che era comunque fragile, è andato in pezzi”[11]. Se il welfare, conquista di classi lavoratrici in lotta con il capitale per conquistare il diritto alla città, è diventato un “lusso” ormai insostenibile producendo un progressivo del 99% della popolazione, si è venuta al tempo stesso “a creare una nuovo e crescente disuguaglianza tra le generazioni e le categorie sociali che hanno potuto ammortizzare almeno in parte gli effetti della crisi e tutte quelle che non sono state in condizioni di farlo”[12]. Così che, aggiunge Cassano, “Questa circostanza ha dislocato il rapporto tra la sinistra e la società, logorando sempre più la sua capacità di rappresentare gli ultimi e consumando la coesione del suo popolo”.

Queste poche righe sembrano già sufficienti a spiegare la condizione di miseria e di disperazione che affligge le nostre periferie sempre più estese. Al tempo stesso tale condizione si trasforma da “temporanea” a “permanente”, cronica perché la disuguaglianza iniziale tende a moltiplicarsi ad ogni giro moltiplicandosi esponenzialmente. Questo processo può giustificare lo scetticismo di quanti sostengono che ogni tentativo di rigenerazione delle periferie, ogni tentativo di “rammendo”[13] è, in questa condizione generale, destinato all’insuccesso, ancorché lodevole nelle sue intenzioni di ridistribuire il benessere prodotto.

La lotta di tutti contro tutti

Accanto ai conflitti derivanti da queste condizioni, ci sono, secondo Franco Cassano, altri conflitti che nascono proprio dall’espansione generale dei diritti. Per esempio, egli sostiene che: “il sacrosanto diritto all’accoglienza degli immigrati può entrare in conflitto con la percezione della sicurezza in quegli strati popolari che avvertono i nuovi arrivati come un pericolo per i propri diritti acquisiti, da quello del lavoro a quello della sicurezza”[14]. Il tema della convivenza rischia dunque di ridursi a un generico appello di stampo moralista se non si rimuovono le cause che producono le insicurezze.

Così come la caduta del mito della soluzione individualistica con la sua prospettiva di ascesa sociale (La società non esiste, esistono solo gli individui, affermava la Thatcher), che è stato un formidabile complice dell’egemonia esercitata dal neoliberalismo, tende ora, nelle nostre periferie, a trasformarsi in un sentimento di rivolta contro tutti. Tra queste promesse tradite, Cassano annovera anche il mito del merito che, in queste condizioni, rappresenta “quella dinamica che risucchia nelle aree più forti i più coraggiosi e capaci aumentando in modo esponenziale il divario preesistente e rendendo sempre più ineguali i punti di partenza”.

Da quanto sia pur approssimativamente descritto, appare già facilmente osservabile come le “vecchie” periferie siano sideralmente distanti da quelle che continuiamo a chiamare “nuove” periferie che costituiscono le condizioni generali di vita del 99% delle persone che rappresentano la città contemporanea nella quale “c’è chi naviga ad alta velocità, chi nuota e chi affoga senza pietà[15]”.

Il “che fare?”

La sfida, o la scelta, che ci si pone di fronte è tra la disperazione (there is not alternative, o come dice Siti: resistere non serve a niente) e la speranza, dove questa non deve trarre la sua forza da una prospettiva di un mitico e futuro altrove, ma dai tentativi di dare ora risposte nuove che non siano più quelle delle vecchie nomenclature politiche.

Non ci si deve meravigliare che nelle ormai sconfinate ed estreme periferie romane, là dove il legame sociale si è indebolito, dove non trova più spazio alcuna rappresentanza, dove ogni istituzione intermedia tra amministrazione e cittadini è saltata, ebbene in questi luoghi cresce la sfiducia nei confronti della politica. In tal senso le periferie perdono potere e ritornano brevemente alla ribalta solo in occasioni di esplosioni di rabbia popolare o episodi di cronaca nera. Secondo Tocci: “Per restituire potere alla periferia occorre, invece, aiutare la dimensione orizzontale della partecipazione, sia rilanciando l’attività dei circoli – secondo nuove modalità tutte da inventare – sia ripensando i municipi come istituzioni non burocratiche che danno voce ai territori”. Ma ormai neppure questo può bastare a restituire dignità, identità e fiducia al popolo delle periferie. Occorre reinventare una pratica progettuale, aprire le finestre di un futuro diverso, rimettere in moto la discussione politica.

I tentativi del quindicennio rosso di Rutelli e Veltroni sul versante urbanistico hanno prodotto un PRG che già in fase di approvazione risultava invecchiato, perché ha tentato di creare delle “nuove centralità” nelle periferie che altro non sono che “grumi di palazzine addossate ai grandi centri commerciali, sconnesse dalla città e accessibili solo con l’automobile”[16]. In questo periodo “quasi tutte le nuove edificazioni sono state collocate a ridosso del Gra, realizzando tanti quartieri isolati tra loro e sempre più lontani dal centro, in un territorio già devastato dall’abusivismo e privo di robuste strutture urbane. Ciò ha appesantito la vita quotidiana dei cittadini, sia di quelli che già vi abitavano sia dei nuovi venuti, e ha aumentato il pendolarismo tra una periferia sempre più lontana e i luoghi centrali di lavoro, fino a produrre l’ingorgo permanente sulle consolari. Di tutto ciò, come si è detto, si è pagato anche un prezzo politico con lo spostamento a destra dell’elettorato della periferia anulare”[17].

Potremmo dire che il centro della città si sposta progressivamente verso le periferie, si va anch’esso periferizzandosi. Eppure è nelle pieghe di questa contraddizione, tra marginalità e abbandono, da una parte, e riconquista e trasformazione dei luoghi dove si svolge la vita quotidiana che possono svilupparsi pratiche sociali e di vita comunitaria antagoniste alla vecchia centralizzazione verticistica. “Sono solo esempi di processi latenti dotati di una chimica endogena che può portare ad esiti diversi, sia di inevitabile degrado sia di possibile riforma. Sfuggono alle semplificazioni della politica mediatizzata, che infatti non li vede oppure li spiana con strumenti normativi ed emergenziali. Per trarne gli aspetti positivi ci vuole un governo di prossimità che faccia da catalizzatore delle energie più innovative”[18].

 

 

[1] Cfr. di Franco Ferrarotti (1970), Roma da capitale a periferia, Laterza, Bari, e il successivo Vite di baraccati (1973), ricco di una cinquantina di fotografie di vie, baracche e borgatari; seguirà, di F. Ferrarotti e altri (1980) , Vite di periferia, Mondadori, Milano; e più recentemente, di F. Ferrarotti e Maria I. Macioti (2009), Periferie da problema a risorsa, Sandro Teti Editore, Roma.

[2] Franco Pinna, che ha lavorato con i più noti antropologi del suo tempo, ha lasciato un importante archivio; da ricordare le pubblicazioni di sue importanti foto ne L’isola del rimorso. Fotografie in Sardegna, 1953-1967, di Giuseppe Pinna; Con gli occhi della memoria. La Lucania nelle fotografie di Franco Pinna, 1952-’59, di Giuseppe Pinna ( Ed. Il ramo d’oro, Trieste 2002); Fotografie 1944-1977 (Milano 1996). Pinna è stato un giovane militante del PCI, partito in cui è rimasto fino ai fatti dell’Ungheria. Ha lavorato con Giovanni Berlinguer nelle sue ricerche sulle borgate romane. Importante la sua collaborazione con Ernesto De Martino, con Franco Cagnetta, il noto autore di Banditi a Orgosolo. Le sue foto sono una importante testimonianza visiva della storia italiana.

[3] Don Roberto Sardelli negli anni ’60 a Roma ha aperto all’Acquedotto Felice una scuola, detta scuola 725, per i bambini e i ragazzi che vivevano in borgata, seguendo un po’ le orme di don Lorenzo Milani . Tra i suoi scritti più conosciuti, v. Non tacere, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1970; In borgata, ed. Nuova Guaraldi, Firenze 1980; su don Sardelli v. altresì la tesi di laurea di Antonella Macellaro, Don Roberto Sardelli e la scuola 725. Un’esperienza di riscatto sociale e di lotta alla dispersione scolastica, Sapienza Università di Roma, Facoltà di filosofia, a.a. 2009/2010, relatore il prof. Guido Benvenutoe il successivo testo di Katia Scannavini e Maria Immacolata Macioti, Il valore del sapere. L’esperienza della Scuola 725, studio voluto dalla Provincia di Roma, Assessorato alle Politiche Culturali, contenente un dvd La scuola 725, con interviste ai protagonisti di allora, a cura di Enzo Pompeo e Luca Ricciardi.

[4] Cfr. Enzo Scandurra (2014), Quo Vadis Roma?, articolo su «Il Manifesto» 27 marzo 2015

[5] In proposito si legga l’ampio saggio di W. Tocci: Non si piange su una città coloniale. Note sulla politica romana, dattiloscritto non pubblicato

[6] F:Ferrarotti (2008), Considerazioni intorno alla periferia romana, in AA.VV., Capitale di cultura. Quindici anni di cultura a Roma, Donzelli, Roma.

[7] Il libro di W. Siti, Il contagio, (Mondadori) uscito nel 2008, rappresenta, più di tante analisi, la testimonianza diretta delle trasformazioni in atto nelle borgate romane. Spesso viene citata, a proposito, l’espressione che Siti pronuncia in merito all’atteggiamento del popolo delle periferie nei confronti dell’esperimento riformista di Rutelli-Veltroni: “mai visto un borgataro riformista”.

[8] Nel saggio di W. Tocci, citato precedentemente si fa un’interessante distinzione tra periferia storica e periferia anulare: Molto diverso, quindi, fu il contributo del Pci nella periferia anulare e in quella storica. Negli insediamenti abusivi portò a compimento una rivendicazione di infrastrutture primarie senza influenzare il senso comune della gente che infatti passò a destra dopo la sanatoria. Nella seconda, invece, svolse una funzione di educazione alla politica che influì sulle corde profonde del sentimento popolare, tanto da mantenere un orientamento a sinistra ancora ai giorni nostri, pur in condizioni sociali e culturali radicalmente diverse. La politica di oggi, così abituata alla battuta di giornata, fatica a capire quanto il consenso sia condizionato da processi di lunga durata”.

[9] F. Ferrarotti, op. cit., p.230

[10] Joseph E. Stiglitz (2013), Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Torino, Einaudi, p. XVIII

[11] Op.cit., p. XVIII

[12] F. Cassano (2014), Senza il vento della storia. La sinistra all’epoca del cambiamento, Roma-Bari, Laterza, p.62.

[13] Con esplicito riferimento a quella operazione organizzata da Renzo Piano che va sotto il nome di “Rammendo delle periferie”.

[14] F. Cassano, op. cit., p.65

[15] F. Cassano, op. cit., p. 77

[16] W. Tocci, dattiloscritto, op. cit.

[17] W. Tocci, op. cit.

[18] W. Tocci, op. cit.

 

Periferie, se la politica delega le archistar

 Enzo Scandurra, 5.1.2015

Urbanistica . Il “progetto di rammendo” di Renzo Piano, pur originale e privo di sensazionalismi, non basta a risolvere la questione sociale. Dimenticate da tutti, perfino da urbanisti e sociologi, le diseguaglianze sono il vero motore delle rivolte

Ces­sato l’allarme, la “que­stione peri­fe­rie” torna nel cono d’ombra dei media come fosse stata un feno­meno iso­lato e pas­seg­gero, un capric­cio di una parte della città delusa e abban­do­nata. Ora c’è il “pro­getto di ram­mendo” affi­dato a Renzo Piano e al suo gruppo di lavoro G124, e così la poli­tica passa volen­tieri la mano (meglio sarebbe dire la palla) all’architettura e all’urbanistica, rinun­ciando al suo ruolo guida.

È invece utile non sot­to­va­lu­tare quanto è suc­cesso nelle nostre peri­fe­rie (e quello che potrebbe ancora acca­dere) ricor­dando le parole di una lunga inter­vi­sta a Fou­cault («spa­zio, sapere e potere») a chi gli chie­deva quale fosse il ruolo dell’urbanistica e dell’architettura nella società moderna: «All’inizio del XVII secolo si smette di con­ce­pire la città come un luogo pri­vi­le­giato, come un’eccezione all’interno di un ter­ri­to­rio costi­tuito da campi, fore­ste e strade. D’ora in poi le città, con i pro­blemi che sol­le­vano e le con­fi­gu­ra­zioni par­ti­co­lari che assu­mono, ser­vono da modelli per una razio­na­lità di governo che verrà appli­cata all’insieme del territorio».

E del resto lo stesso Renzo Piano con­ferma come «il grande pro­getto del nostro Paese sia quello delle peri­fe­rie: la città del futuro, la città che sarà, quella che lasce­remo in ere­dità ai nostri figli. Sono ric­che di uma­nità, qui si trova l’energia e qui abi­tano i gio­vani cari­chi di spe­ranze e voglia di cam­biare». Tut­ta­via incal­zato dai suoi allievi che gli chie­dono se certi pro­getti archi­tet­to­nici pos­sono rap­pre­sen­tare delle forze di libe­ra­zione o, al con­tra­rio, delle forze di resi­stenza, Fou­cault risponde: «La libertà è una pra­tica. Dun­que può sem­pre esi­stere in effetti un certo numero di pro­getti che ten­dono a modi­fi­care deter­mi­nate costri­zioni, ad ammor­bi­dirle, o anche ad infran­gerle, ma nes­suno di tali pro­getti, sem­pli­ce­mente per pro­pria natura, può garan­tire che la gente sarà auto­ma­ti­ca­mente più libera». Il con­tri­buto di Renzo Piano al pro­blema delle peri­fe­rie, sia pure mosso da buoni pro­po­siti, ha il punto debole (non impu­ta­bile a lui) nell’affrontare la que­stione solo nella dire­zione dell’architettura e dell’urbanistica: «Si deve inten­si­fi­care la città, costruire sul costruito, sanare le ferite aperte. Di certo non biso­gna costruire nuove peri­fe­rie oltre a quelle esi­stenti: devono diven­tare città ma senza espan­dersi a mac­chia d’olio, vanno ricu­cite e fer­ti­liz­zate con strut­ture pubbliche.È neces­sa­rio met­tere un limite a que­sto tipo di cre­scita, non pos­siamo più per­met­terci altre peri­fe­rie remote, anche per ragioni eco­no­mi­che». Su que­sta que­stione, nel pro­ce­dere dell’intervista, Fou­cault si esprime con molta deter­mi­na­zione: «Penso che l’architettura (e l’urbanistica, ndr) possa pro­durre, e pro­duca, degli effetti posi­tivi quando le inten­zioni libe­ra­to­rie dell’architetto coin­ci­dono con la pra­tica reale delle per­sone nell’esercizio delle loro libertà».

Ora biso­gna rico­no­scere che Renzo Piano è uno dei più bravi archi­tetti ita­liani per cul­tura, serietà e pro­fes­sio­na­lità, ma ha ragione Ema­nuele Picardo ad affer­mare su que­sto stesso gior­nale (il mani­fe­sto del 30/12/2014) che: «Affron­tare la peri­fe­ria solo con lo sguardo dell’architetto è un pec­cato ori­gi­nale che ne impe­di­sce una let­tura com­plessa e arti­co­lata». E qui è neces­sa­rio resti­tuire di nuovo la parola a Fou­cault: «L’esercizio della libertà non è del tutto insen­si­bile alla distri­bu­zione degli spazi, ma esso può fun­zio­nare sol­tanto dove si dà una certa con­ver­genza; se vi è diver­genza o distor­sione l’effetto pro­dotto è imme­dia­ta­mente con­tra­rio a quello ricer­cato». Que­sto è quello che è acca­duto al pro­getto rutel­liano delle «cento piazze». Alcune di esse, come a San Basi­lio hanno avuto un certo suc­cesso; altre, come al Quar­tic­ciolo, stanno per essere sman­tel­late per­ché gli abi­tanti le sen­tono estra­nee e vogliono ritor­nare alla piazza che c’era negli anni ’50.

Dun­que un pro­getto architettonico-urbanistico o viene con­ce­pito e rea­liz­zato diret­ta­mente (e auto­ri­ta­ria­mente) dal Prin­cipe, oppure, in epoca moderna, non può che sca­tu­rire (sia pure con l’autonomia neces­sa­ria) all’interno di una cor­nice poli­tica che detta una pro­pria visione della società, una poli­tica intesa come media­zione di inte­ressi in gioco, inter­pre­ta­zione dei biso­gni, espli­citi o meno, degli abi­tanti che quei luo­ghi li abi­tano e li attra­ver­sano quo­ti­dia­na­mente. Se la poli­tica delega in toto la solu­zione dei pro­blemi sociali all’architettura e all’urbanistica, il pro­getto che ne con­se­gue risulta monco, affi­dato al libero arbi­trio (ed estro) del suo Pro­get­ti­sta che viene gra­vato di un com­pito impro­prio e improbo, ovvero quello di risol­vere que­stioni sociali che non gli com­pe­tono diret­ta­mente, il che facil­mente dege­nera in opere auto­ce­le­bra­tive che a Roma, per fare un esem­pio, si chia­mano la “Nuvola” o lo “Sta­dio del nuoto” (e rimane solo da spe­rare che tra di esse non com­paia infine anche il nuovo sta­dio della Roma a Tor di Valle).

È vero che il “pro­getto di ram­mendo” di Piano ha una sen­si­bi­lità diversa e si rivolge ai quar­tieri peri­fe­rici senza cer­care effetti sor­pren­denti né sen­sa­zio­na­li­smi e uti­liz­zando poche risorse (poco più dello sti­pen­dio di sena­tore a vita messo a dispo­si­zione da Piano), ma è la cor­nice poli­tica che manca, ciò che a suo tempo dava senso alle geniali ini­zia­tive di Nico­lini nello sce­na­rio poli­tico impo­stato da Petro­selli. Per­ché a fronte di tante dema­go­gie popu­li­ste biso­gna pur affer­mare e difen­dere l’autonomia delle scelte pro­get­tuali — archi­tet­to­ni­che o urba­ni­sti­che — che mai deb­bono essere pie­gate al volere dei poteri domi­nanti quale che siano, come avve­niva già nel Rinascimento.

Una delle prin­ci­pali con­di­zioni che distin­gue le attuali peri­fe­rie da quelle degli anni ’50 e ’60 è la cre­scita pro­gres­siva delle disu­gua­glianze sociali. Anche nelle prime peri­fe­rie urbane, la causa del degrado nasceva dalle con­di­zioni di povertà ma, all’epoca, c’era l’attesa e la quasi cer­tezza che lo svi­luppo e il benes­sere prima o poi, avrebbe rag­giunto tutti gli strati sociali. Que­ste con­di­zioni di povertà sono diven­tate ora strut­tu­rali, cro­ni­che, fisi­che, esi­sten­ziali, tra­sfor­mate in con­di­zioni di mise­ria, senza che si abbia più la per­ce­zione che esse pos­sano miglio­rare, in un qua­dro sociale imbar­ba­rito dove pre­vale il morbo indi­vi­dua­li­sta del «spe­riamo che io me la cavo».

E al tempo stesso la que­stione sociale al cen­tro di tante e famose opere let­te­ra­rie dell’800 e della prima metà del ’900, da Zola a Stein­beck, da Bal­zac ad Hugo, come affer­mava qual­che giorno fa Alberto Asor Rosa su La Repub­blica, «non vive più nelle coscienze delle per­sone. La per­ce­zione e la con­danna delle disu­gua­glianze sociali è stata respinta ai mar­gini, non inte­ressa». La stessa sorte capita agli urba­ni­sti, ai socio­logi, agli antro­po­logi per i quali la que­stione delle disu­gua­glianze in quanto sud­di­vi­sione della società tra chi pos­siede molto e chi non pos­siede niente, si con­suma e si dis­solve nella ricerca di impro­po­ni­bili solu­zioni specialistiche.

Per­fino i gio­vani ricer­ca­tori la aggi­rano: anche loro inda­gano casi par­ti­co­lari, seg­men­ta­zioni sociali, quasi che que­sti fos­sero iso­la­bili dal con­te­sto sociale più gene­rale. Ci si occupa di rifu­giati, pro­fu­ghi, Rom, bar­boni, occu­panti di case, sto­rie iso­late di vicende per­so­nali. È come se que­sta società si fosse fatta distratta, avesse rimosso il tema del con­flitto sociale e non tenesse più in conto di quello che Sti­glitz chiama il prezzo della disu­gua­glianza, il vero motore delle rivolte. Se il mondo diventa sem­pre più duale e la peri­fe­ria rap­pre­senta quel 99% di chi non pos­siede niente che asse­dia le comu­nità blin­date di quel l’1% che pos­siede tutto, la solu­zione può essere solo quella di cam­biare dire­zione, e politica.