Guardiamo alla salute del pianeta, ma pure a quella di chi lo abita, sembra dire Carlo Petrini, un una singolare sintonia con papa Francesco. Solo se si guarda al problema da questa prospettiva si potrà avere uno sguardo più ampio che consenta di connettere questioni che nell’agenda politica sono rigorosamente separate: i cambiamenti climatici, la produzione alimentare e le migrazioni, ad esempio.
L’ideatore di Slow Food è convinto che non si può affrontare la febbre che rischia di portare la Terra al capolinea pensando solo di alleviarne i sintomi. A suo parere è necessario affrontare il malessere alla radice, combattendo «il folle sistema economico» che lo produce e proponendo un «cambio di paradigma» radicale. Socialista e umanitario, verrebbe da dire.
La sua ricetta teorica per salvare il pianeta si compone di due ingredienti fondamentali: la decolonizzazione del pensiero e la creazione di un nuovo modello socio-economico. Quella pratica si risolve nella proposta di un Piano Marshall per i paesi più poveri. «Due giorni fa il nostro primo ministro Paolo Gentiloni ha detto che bisogna aumentare gli aiuti ai paesi di partenza dei migranti per creare lavoro a casa loro. Giusto, però la verità è che l’Ue non fa nulla. Se volesse intervenire davvero, dovrebbe inventarsi una sorta di Piano Marshall, ma ancora più forte», dice.
Vorrebbe dire abbandonare l’austerity, proprio quello che l’Unione europea non vuole.
«Sarebbero tanti soldi, certo. In ogni caso, se non si fa nulla quei costi li pagheremo ugualmente, perché non ci saranno muri che terranno di fronte all’ondata migratoria. È questa la battaglia politica più importante oggi in Europa, l’unico modo per far fronte all’avanzata dei Salvini e delle Le Pen».
Oggi si celebra la Giornata mondiale della terra, ma a nessuno è venuto in mente di legarla alle migrazioni come fa lei.
«Se non vediamo la connessione tra distruzione degli ecosistemi e migrazioni non capiamo nulla di quello che sta accadendo. La maggior parte delle persone non fugge per le guerre, ma perché le loro prospettive di vita sono nulle. I giovani africani si vedono negato il diritto alla terra, che un tempo era consuetudinario, perché i nuovi colonizzatori arrivano ad acquistarla legalmente, accaparrandosela a prezzi ridicoli grazie ai governi-canaglia figli della decolonizzazione».
Chi intende per nuovi colonizzatori?
«Penso ai cinesi e agli indiani, che comprano milioni di ettari di terreni in Africa per produrre cibo che non finisce agli africani, o ai fondi sovrani che fanno lo stesso per produrre biocarburanti. Questo causa la perdita di biodiversità e di fertilità dei terreni, e provoca le migrazioni di massa.
Poi ci sono i vecchi colonizzatori. Molti investimenti europei in Africa sono legati alla sostenibilità ambientale.
«Anche questo è un terreno minato. Le faccio un esempio: in Uganda il governo locale ha messo a disposizione della Norvegia una grande superficie di terreno per la riforestazione. Di per sé sarebbe una cosa positiva, se non fosse che 10 mila pastori sono rimasti senza lavoro. Bisogna imparare a decodificare le nuove forme di colonialismo che si nascondono dietro questi progetti, che possono essere sostenibili dal punto di vista ambientale ma non da quello sociale. Soprattutto in Africa, è necessario un processo di decolonizzazione del pensiero, anche perché la storia comincia a presentarci il conto. Dopo lo schiavismo, il colonialismo becero e quello mascherato degli accordi con i governi post-coloniali, ora le popolazioni cominciano a ribellarsi. Intere aree si stanno desertificando a causa dei cambiamenti climatici, masse di diseredati non possono più vivere su quelle terre. Questa situazione non regge.
Lo sfruttamento delle risorse però non si ferma.
«Il comportamento dell’umanità negli ultimi cinquant’anni è stato senza dubbio irresponsabile. Basta pensare a quello che è stato fatto con le deforestazioni e con le estrazioni minerarie e petrolifere, dove le maggiori penalizzate sono state le comunità locali. Se adottiamo questo punto di vista, avere un’attenzione per i più deboli ci porta a pensare a una visione di ecologia integrale simile a quella prospettata da papa Francesco nell’enciclica Laudato sii: è necessario pensare non solo alla terra ma pure a chi la abita. Ci sono forme di egoismo e di insensibilità che la comunità internazionale tollera da troppo tempo, quasi che le risorse siano infinite. La sofferenza degli ecosistemi si somma a quella delle comunità».
La sua è una critica radicale al neoliberismo.
«Bisogna risalire alla fonte di questi comportamenti irresponsabili. Io credo che la ragione principale sia una logica economica perversa che mette di fronte a tutto il profitto e non guarda in faccia a nessuno. Si tratta di un iperliberismo sfrenato che sta distruggendo il pianeta a beneficio di pochi. Per questo è necessario un cambio di paradigma. Se non si pensa alla costruzione di un’economia di comunità, che guardi ai bisogni a livello locale, non ne usciremo.
Poi c’è la questione del cibo, che è stato tra i primi a sollevare con Slow Food e Terra Madre.
«La questione alimentare è uno dei punti chiave, ma la comunità internazionale non l’ha mai messa in evidenza. Si parla di cambiamenti climatici e della perdita di fertilità dei suoli e non si mette in discussione la pratica più invasiva, che è la produzione di cibo. Si parla delle tonnellate di plastica in mare, ma si tace sulla pesca a strascico per la produzione di mangimi animali, che depreda la biodiversità. O i governi cominciano a riflettere su queste cose o andiamo verso il disastro. Purtroppo, le cose non stanno andando in questa direzione: Trump non dimostra quella sensibilità che dovrebbe avere una delle potenze mondiali che hanno più responsabilità nel disastro ecologico. Siamo a un crocevia decisivo