Un libro smilzo, ma denso e prezioso – l’ultimo di Giancarlo Consonni, Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà (Solfanelli, 2016) -, che raccoglie tre saggi, diversi per contenuto, apparentati dal malessere per il declino della condizione urbana nel nostro Paese. “Urbanità” e “bellezza” definiscono l’oggetto della ricerca, due valori complementari: la bellezza “vista come componente primaria della cultura delle città e come fatto inscindibile dall’urbanità che – scrive l’autore – di quella cultura è il condensato, un punto di forza irrinunciabile dell’incivilimento”.
All’inizio Consonni affronta questioni irrisolte, e forse irrisolvibili, di definizione. Città-regione, area metropolitana, città metropolitana, e poi città diffusa, città contemporanea, città infinita, urbanizzazione, conurbazione e via di seguito. Contesta subito la legge che prende il nome dall’attuale ministro delle infrastrutture Graziano Delrio, “precipitosamente” istitutiva delle Città metropolitane destinate a sostituire le Province di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli e Reggio Calabria. Una legge affetta da ambiguità terminologiche e incertezze programmatiche, con ipotesi alternative e improbabili per i modelli di governo, i cui amministratori sono scelti – aggiungo io – con elezioni di secondo grado, al riparo dal coinvolgimento dei cittadini. Poi dicono il populismo.
Nella città metropolitana – sostiene Consonni – si fa uso improprio del termine città. Città e metropoli sono realtà in conflitto, la differenza non sta solo nella dimensione ma nei caratteri costitutivi. La città non è più tale quando perde suoi attributi comunitari, quando non sta più “dentro a una misura e a relazioni vitali” e non le rende manifeste. Pare scritto per Roma, dove negli ultimi quarant’anni, più o meno con lo stesso numero di abitanti, si è quadruplicata la superficie urbanizzata e non è più riconoscibile alcuna appartenenza comunitaria. Roma non è più una città, ma non è neanche una metropoli, non essendo quel “campo di forze in cui le relazioni a distanza assumono una rilevanza (economica, ma non solo) decisamente superiore alle relazioni di prossimità”.
Il secondo saggio tratta di diritto prendendo le mosse dal libro di Paolo Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani (Donzelli, 2014), in particolare dalla contestazione di Maddalena a Carl Schmitt sull’origine degli istituti giuridici che regolano lo spazio urbano. Lo studioso tedesco vede nell’occupazione della terra “l’origine di ogni ulteriore ordinamento concreto e di ogni ulteriore diritto”. Maddalena a “occupazione” propone di sostituire “stanziarsi” o “insediarsi”, evitando in tal modo che l’atto fondativo degli insediamenti sia registrato “sotto il segno della violenza e del dominio”. Il che negherebbe l’affermazione del “popolo” e del “territorio” come parti costitutive della civitas. È evidente che non si discute di espressioni terminologiche più o meno politicamente corrette, ma dei connotati del diritto di proprietà che si conforma a partire dalla originaria proprietà della terra. Questione da sempre oggetto delle riflessioni disciplinari di Maddalena che insiste sul fatto che il diritto di proprietà, secondo gli articoli 41 e 42 della Costituzione italiana, debba pienamente rispondere a principi di “utilità sociale” e, quindi, svolgere una “funzione sociale”.
Il libro di Consonni sarebbe solo un’indagine storica e un’astratta e amara rassegna di concetti se non planasse su circostanziate pagine di denuncia delle recenti trasformazioni di Milano. Prende infatti in esame l’area Garibaldi-Repubblica e piazza Gae Aulenti dove “ogni organismo edilizio è chiuso in una totale solitudine, incapace com’è di istituire un legame con gli altri edifici e con l’intorno, verso cui si proietta disperatamente in un’esibizione narcisistica”. È la stessa lingua usata da Antonio Cederna all’inizio degli anni Cinquanta quando raccontava di una Milano che stava facendo tabula rasa del suo centro storico. Un modo di fare che incombe come un sinistro modello anche sulla prossima stagione urbanistica, quella del riuso dei sette scali ferroviari che, come una corona di spine, cingono il centro di Milano. FS Sistemi urbani, d’accordo con l’amministrazione Sala, stanno procedendo senza regole, a cominciare dalla nomina di progettisti di fiducia. L’eterno rito ambrosiano che neutralizza la cultura urbanistica.
Concludo ritornando a “urbanità” e “bellezza”. Amministratori, urbanisti, architetti hanno rinunciato a interrogarsi e a discutere di questi concetti. La città, “o meglio la non città, la fanno gli operatori privati. La Pubblica amministrazione in Italia – sostiene Consonni – si limita a svolgere il compito di guardiana di regole che poco o nulla hanno a che vedere con i problemi della convivenza civile e con l’urbanità: l’urbanistica per gli Enti locali si va sempre più riducendo a un capitolo della fiscalità generale”. C’è addirittura dell’ottimismo nel riconoscere il ruolo di “guardiana di regole” alla Pubblica amministrazione. Soprattutto dalla mia latitudine capitolina