Nel suo libro L’ordine complicato (Quodlibet, 2008), sembra esserci la chiave per capire come questo architetto novantaquattrenne, ebreo ungherese, professore in diverse università americane, concepisca il mestiere.
Un mestiere fatto di poche realizzazioni, molta creatività e molte riflessioni che hanno fatto di lui un guru. E molte sono le sue espressioni diventate celebri, come la “mobile architecture” o quelle consegnate ad altri suoi libri, da L’architettura della sopravvivenza (Bollati Boringhieri) all’ultimo, Tetti, che uscirà in Italia a luglio (Quodlibet). In Tetti, Friedman si misura con il tema a lui più caro: i modi per coinvolgere nell’architettura le persone che devono usufruirne e per rendere concreta la partecipazione, parola altrimenti avvolta in una cortina retorica.
A lui è dedicata una mostra che si apre il 23 giugno al Maxxi di Roma intitolata “Mobile Architecture, People’s Architecture” (a cura di Gong Yan ed Elena Motisi). Nella mostra, che si inaugura insieme a quelle sull’Italia di Zaha Hadid e sul Teatrino scientifico di Franco Purini e Laura Thermes, si ragionerà di questioni centrali nel lavoro di Friedman, il quale espone un adattamento della sua Ville Spatiale, una costruzione aerea che risale alla fine degli anni Cinquanta composta di abitazioni, strade e altre strutture progettate, appunto, da chi dovrebbe viverle. La mostra comprende bozzetti, installazioni, video e anche una sezione dedicata alla sua casa di Boulevard Garibaldi.
Friedman che cos’è l’architettura della sopravvivenza?
«L’idea nasce dalla ricerca del modo migliore per ridurre l’impatto negativo sull’ambiente di una costruzione, salvaguardando però un buon livello tecnologico e mantenendo i costi il più possibile bassi. È indispensabile riscoprire pratiche compatibili con un modo di vita più sobrio».
Lei ha raccontato di aver maturato quest’idea dalle esperienze della guerra, quando era partigiano in Ungheria, e del dopoguerra.
«Ho visto cosa sono la miseria, le coabitazioni forzate e l’importanza dell’aiuto reciproco. Ma la povertà è la condizione in cui vive oggi la maggior parte della popolazione mondiale. Negli anni Settanta ho visitato l’India e sono rimasto impressionato dalle tecniche di sopravvivenza negli insediamenti poveri della città. Ho imparato che il problema dell’abitare non è relativo alla casa ma ai mezzi di sussistenza. Il cibo e il tetto, insomma. Ho provato a sviluppare questa idea nei libri destinati ai giovani architetti occidentali».
Ma l’architettura contemporanea è orientata a incontrare i bisogni delle persone o solo di pochi privilegiati?
«La nostra attenzione deve essere destinata ai bisogni delle persone, in particolare di quelle più povere. Questo, almeno, è evidente per me, ed è evidente che questi bisogni non sono diversi in Europa come in Asia o in Africa».
Lei insiste per la partecipazione delle persone ai processi di costruzione. Ma concretamente questo come può avvenire?
«Il coinvolgimento degli abitanti sta in primo luogo nel lasciar decidere a loro quali problemi sono importanti. In secondo luogo, devono poter decidere quali tecniche sperimentare. E quindi occorre lasciarli fare e consigliare quando necessario. Ma la maggior parte degli architetti è gelosa del proprio ruolo e vuole mantenere lontano dalla progettazione chi abiterà l’edificio».
Come ha concepito l’idea della “Ville Spatiale”?
«Ho immaginato una situazione in cui le persone potessero progettare liberamente edifici a più piani senza imporre vincoli. Un modo per vedere come un’architettura pensata da chi deve abitarla alimenti l’improvvisazione».
E dove nasce la “mobile architecture”?
«È la base teorica della “Ville Spatiale” perché le scelte degli abitanti possono cambiare periodicamente. E dunque l’architettura deve essere flessibile, assecondando i bisogni che via via mutano».
Molti suoi colleghi vanno alla ricerca di effetti spettacolari. Cosa pensa delle “archistar”?
«Il termine “archistar” è esattamente l’opposto del mio mondo concettuale. Potremmo non escludere che gli architetti diventino artisti, ma l’architetto-artista è un equivoco. Io non penso che l’architettura come arte voglia dire realizzare su larga scala mediocri sculture. Gli architetti-artisti dovrebbero essere “scultori del vuoto”, perché l’architettura differisce dalla scultura in quanto la osservi dall’interno. E gli interni sono più importanti dell’esterno, perché è l’interno ad essere usato. L’esterno è solo il segno dello status sociale del proprietario».