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Bevilacqua: L’immigrazione da minaccia a progetto sociale

(da Osservatorio del Sud, 24 marzo 2018, tramite Eddyburg)

immigrazione da osservatoriodelsudL’immigrazione da minaccia a progetto socialedi Piero Bevilacqua

Osservatorio del Sud, 24 marzo 2018. Una visione, un progetto politico, un piano di riconversione demografica, economica e ambientale, che parte dal territorio e dal suo uso agricolo. (m.p.r.)

Dal mercato al progetto

Il flusso di immigrati provenienti da vari Paesi del Sud e dell’Est del mondo si iscrive in un vasto processo di destrutturazione demografica, ma anche di mobilità sociale, che ha dimensioni grandiose e di lunga data. Solo di recente è esploso in forme caotiche e drammatiche a causa delle guerre recenti in Oriente e in Africa. L’Human Development Report 2009, dedicato dalle Nazioni Unite a Human mobility and development, ricordava che «Ogni anno, più di 5 milioni di persone attraversano i confini internazionali per andare a vivere in un paese sviluppato». E i maggiori centri di attrazione erano e sono gli USA, l’Europa e l’Australia. Una migrazione immane che dalla metà del secolo scorso ha spostato circa 1 miliardo di persone fuori dai luoghi in cui erano nate.

Com’è noto, i flussi disordinati e continui di popolazione in fuga da scenari di guerra, dall’Afganistan, dalla Libia e soprattutto oggi dalla Siria, hanno mostrato la drammatica inettitudine, impreparazione, divisione politica degli stati Europei e delle autorità di Bruxelles. Un coacervo di risposte contraddittorie e improvvisate, che ovviamente non sorprende. In tutti gli stati del mondo la politica vive alla giornata, senza alcuno sforzo di progettazione strategica che non sia quella della conquista di eventuali mercati, e che bada a incassare consensi immediati e immediatamente spendibili. Comprensibilmente, il ceto politico europeo, di fronte ai problemi organizzativi, ai disagi, ai costi economici che l’arrivo di migliaia di rifugiati e migranti comporta nell’immediato, non riesce a valutare i vantaggi di lungo periodo che esso può invece determinare. Vantaggi demografici, economici, culturali, non dissimili a quelli sperimentati dagli Stati Uniti negli anni Novanta in virtù dell’arrivo di milioni di latinos negli Stati americani.

In questo quadro europeo confuso e generatore di sentimenti xenofobi, la sinistra ha, in Italia, la possibilità di indicare una soluzione non contingente e transitoria al problema. Una via difficile, ma affatto utopica, che potrebbe addirittura fare da modello anche per altri paesi del continente. Noi possiamo indicare agli italiani e agli europei, contro la politica della paura e dell’odio, una prospettiva che non è solo di solidarietà e di umano e temporaneo soccorso a chi fugge da guerre e miseria. Con le donne, gli uomini e i bambini che arrivano sulle nostre terre noi abbiamo l’opportunità di costruire un inserimento stabile e cooperativo, relazioni umane durevoli, fondate su nuove economie che gioverebbero all’intero Paese.

Naturalmente, la soluzione non consiste in una trovata, affidabile a qualche slogan pubblicitario in cui oggi sembra esaurirsi tutta la creatività di leader e uomini di governo. Si tratta, nientemeno che di realizzare un progetto, un grande piano di riconversione demografica, economica e ambientale. Un progetto, un disegno realistico, non una bella favola utopica, un percorso realizzabile in una prospettiva di medio lungo periodo, ma da avviare subito. Per avviarlo occorre rovesciare l’ottica che negli ultimi 30 anni ha annichilito la progettualità politica: la convinzione esplicita, o accettata passivamente, che i fenomeni economici e sociali si realizzano soltanto se mossi dall’energia del mercato. Quasi che gli uomini fossero d’improvviso incapaci di costruire alcunché senza affidarsi alla regole della domanda e dell’offerta. Per questo, la risposta alla gigantesca questione dell’immigrazione richiede preliminarmente una bonifica mentale: la cancellazione del paradigma neoliberista.

Un grave squilibrio territoriale.

Occorre partire da una considerazione d’insieme relativa alle condizioni dell’Italia dei nostri giorni.

Il nostro paese soffre di un grave squilibrio nella distribuzione territoriale della sua popolazione. Poco meno del 70% di essa vive insediata lungo le fasce costiere e le colline litoranee della Penisola, mentre le aree interne e l’osso dell’Appennino, soprattutto al Sud, sono in abbandono. Secondo indagini del Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione dell’omonimo Ministero, le aree interne rappresentano circa i 3/5 del territorio nazionale e accolgono poco meno di ¼ della popolazione.

Com’è noto, da tempo le popolazioni contadine, hanno lasciato le loro terre e solo in poche aree sono subentrate nuove economie. Sempre meno popolazione, in queste zone, fa manutenzione del territorio, controlla i fenomeni erosivi, sicché nessun filtro e protezione – come è accaduto per secoli – si oppone alle alluvioni che di tanto in tanto precipitano con violenza nelle valli e nelle pianure. Oggi nessuno ricorda più ciò che era noto ai tecnici e anche, in parte, agli uomini politici, ancora agli inizi del secolo passato: vale a dire la speciale dinamica che in Italia collega montagna e pianura e dunque il ruolo di regolatore di tutti gli equilibri peninsulari che gioca l’Appennino. Scriveva nel 1919 Meuccio Ruini – esperto di lavori pubblici, che sarà ministro e presidente del Senato nell’Italia repubblicana – «contorno e rilievo, clima, abitabilità e comunicazioni, relazioni storiche, ogni cosa insomma della Italia peninsulare è signoreggiata dall’Appennino e ne riceve l’impronta».
Dunque, mancano oggi nelle aree tra la dorsale appenninica e le coste, quelle figure sociali che per secoli hanno mantenuto il territorio nazionale in un difficile e quotidiano equilibrio. Sicché, nella fase storica in cui i fenomeni atmosferici appaiono sempre più estremi – tra questi, i i casi di piovosità intense e distruttive – e mentre la cementificazione senza sosta impermeabilizza i suoli le aree litoranee e le valli appaiono sempre più indifese. E occorre a questo punto rammentare l’ovvio: non è solo la gran parte della popolazione, ma la ricchezza nazionale (città e abitati, aziende, infrastrutture viarie e ferroviarie, edifici pubblici, ecc) che sono sempre più prive, a monte, di difese e presidi. Ma non dobbiamo soltanto fronteggiare tale minaccia.
Lo spopolamento, l’invecchiamento di popolazione, la denatalità delle aree interne costituisce, in sé, una perdita incalcolabile di ricchezza. Vengono abbandonate terre fertili che erano state sedi di agricolture, i boschi si inselvatichiscono e non vengono più sfruttati, gli allevamenti di un tempo scompaiono. Al tempo stesso borghi e paesi decadono, perdono i presidi sanitari, le scuole, i trasporti. E in tale progressivo abbandono degradano case, palazzi edifici di pregio, monumenti, piazze: in una parola un immenso patrimonio di edificato rischia di andare in rovina insieme ai territori rurali.

Ebbene, queste aree non hanno bisogno che di popolazione, di nuove energie, di voglia di vivere, di lavoro umano.Queste terre possono rinascere, ricreare le economie scomparse o in declino con nuove forme di agricoltura che valorizzino l’incomparabile ricchezza di biodiversità dell’agricoltura italiana.

Un’agricoltura della ricchezza bioagricola

A che cosa ci riferiamo allorché parliamo di agricoltura per ridare vita e nuovi presidi territoriali alle aree interne? Si tratta di uno dei tanti slogan di propaganda politica “movimentista” ? Oppure di un’utopia che non ha alcun fondamento economico, né dunque alcuna possibilità di riuscita? All’obiezione si deve innanzi tutto rispondere con una considerazione storica. Non si tratta, infatti, di una progettazione o addirittura di una aspirazione a vuoto di volenterosi militanti. Per secoli l’agricoltura italiana è stata una pratica economica delle “aree interne”, vale a dire dei territori collinari e montuosi, gli ambiti orografici dominanti nella Penisola.

Certo, c’era anche – e talora fiorente – l’agricoltura delle pianure, concentrata nella Pianura padana e nelle valli subappenniniche. Ma gran parte di queste aree sono state conquistate con secolari e talora imponenti lavori di bonifica che arrivano fin dentro il XX secolo. L’imperversare millenario della malaria – questa avversità ambientale caratteristica del nostro paese – ha tenuto a lungo lontano le popolazioni agricole dalle terre potenzialmente più fertili ed economicamente vantaggiose delle pianure. Dunque, dal punto di vista storico, fare agricoltura nelle aree interne non è una novità. Tanto è vero che essa continua a sopravvivere in tante zone collinari e montane in forme più o meno degradate e marginali.

La seconda obiezione, relativa all’economicità di una agricoltura in queste aree è che occorre intendersi su che cosa si intende per economicità. Per far questo occorre liberarsi di una idea riduzionistica di agricoltura che ha dominato per tutto il secolo passato. In queste aree non si può pensare alla pratica agricola come una impresa industriale che deve strappare margini crescenti di profitto, generare accumulazione di capitale, con sovrana indifferenza per ciò che accade alla fertilità del suolo, alla distruzione della biodiversità, all’inquinamento delle acque, alla salute degli animali, dei lavoratori e più in generale dei cittadini.

L’agricoltura non è qui – e non dovrebbe esserlo mai – quello che è stata per tutta la seconda metà del Novecento: un’industria come un’altra. D’altra parte, rappresenta una conquista della cultura europea degli ultimi decenni la visione e la pratica di una agricoltura come attività multifunzionale. Una brutta parola per indicare che essa non è più una semplice pratica economica, ma costituisce il centro di erogazione di una molteplicità di servizi. E al tempo stesso incarna una esperienza sociale che intrattiene un rapporto complesso e avanzato con la natura, ispira nuovi stili e condotte di vita. Infatti, l’agricoltura non è chiamata semplicemente a produrre merci da piazzare sul mercato, quanto anche a proteggere il suolo dai processi di erosione, ad attivare la biodiversità sia agricola che quella naturale circostante, a conservare il paesaggio agrario, tenere vivi i saperi locali legati ai mestieri e alle manipolazione delle piante e del cibo, a custodire la salubrità dell’aria e delle acque, a organizzare un turismo ecocompatibile, a organizzare forme nuove di socialità, ecc.

Ma che tipo di agricoltura si può oggi praticare su terre lontane (ma non lontanissime, l’Appennino dista sempre relativamente poco dal mare) dai grandi snodi viari e commerciali? La dove non è possibile, né utile, né consigliabile organizzare produzioni di larga scala? Qui si può praticare soprattutto frutticultura e orticoltura di qualità. E sottolineo questo aspetto di novità storica della agricoltura di collina rispetto al passato. Si tratta di una agricoltura di qualità perché essa utilizza con nuova consapevolezza culturale un’attività produttiva fondata sulla valorizzazione di un dato storico eminente della nostra millenaria tradizione produttiva: l’incomparabile ricchezza della nostra biodiversità agricola.

L’uso del termine millenario non svolge qui un compito di mera retorica. Serve innanzi tutto a marcare l’irriducibile diversità dell’agricoltura rispetto a tutte le altre forme di economia. Questa pratica finalizzata all’alimentazione umana, infatti, continua a esercitarsi su materie naturali che provengono da un lontanissimo passato, originano dalle selezioni genetiche massali delle popolazioni pre-italiche, si sono arricchite con la grande “globalizzazione agricola” dell’Impero romano (documentata da Columella) e ha ricevuto gli apporti di biodiversità e di saperi dal mondo arabo nel medioevo e dalle piante provenienti dalle Americhe dopo il 1492. Questa gigantesca accumulazione di varietà e di culture ha trovato nella Penisola le condizioni ambientali per insediarsi in maniera stabile e diversificata sin quasi ai giorni nostri.

Tale straordinaria biodiversità agricola – frutto dell’originalità della nostra storia e della varietà dei climi e degli habitat che, dalle Alpi alla Sicilia, si ritrovano nella Penisola, – ha espresso la sua vitalità nell’agricoltura promiscua preindustriale. Campi nei quali coesistevano alberi da frutto di diverse varietà, ulivi, viti insieme spesso ai cereali, agli orti. Oggi questa agricoltura ritrova ragioni economiche per rifiorire, innanzi tutto perché è in grado di offrire prodotti che hanno qualità intrinseche superiori, sia di carattere organolettico che nutrizionale, rispetto a quelli industriali di massa. In tanti vivai, Istituti di ricerca – e nelle coltivazioni degli amatori – si conservano ancora in Italia centinaia di varietà di meli, peri, susini, mandorli, peschi, viti a doppia attitudine, insieme a un vasto patrimonio di germoplasma, ecc.

Si tratta di sapori scomparsi dall’esperienza sensoriale della maggioranza degli italiani e dal mercato corrente. Quest’ultimo offre oggi al consumatore poche varietà, quelle industrialmente più confacenti, per aspetto, conservazione e trasportabilità, alla distribuzione di massa. Ormai guida e domina il consumo, non la qualità intrinseca del bene (freschezza, sapore, sanità), ma le sue caratteristiche esteriori di merce, la sua durabilità, la sua novità stagionale, il suo basso prezzo.

E invece l’organizzazione di una distribuzione alternativa (tramite i gas, i gruppi del commercio eco-solidale, a km 0, ecc) può cambiare la natura stessa del prodotto finale. La diversità e varietà dei sapori, la salubrità e ricchezza vitaminica e minerale del frutto, la sua freschezza e assenza di conservanti e residui chimici, ne fanno un bene che acquista anche sotto il profilo culturale un nuovo valore. E naturalmente il rapporto diretto fra produttore e consumatore tende a rendere bassi e accessibili i prezzi. Dunque, non si propone il ripristino dell’ ”agricoltura della nonna”, ma una nuova economia rispondente a una elaborazione culturale più avanzata e ricca del nostro rapporto col cibo, che incorpora anche una superiore visione della pratica agricola come parte di un ecosistema da conservare.

Questa agricoltura può far ricorso a molti elementi di economicità e di riduzione dei costi, di norma esclusi nelle pratiche industriali. Intanto la varietà delle colture – anche nelle coltivazioni orticole, grazie alla sapienza consolidata della pratica degli avvicendamenti e delle alternanze, ma anche alle nove tecniche come l’agricoltura sinergica – costituisce un antidoto importante contro l’infestazione dei parassiti. E’ nelle monoculture, infatti, che questi possono produrre grandi danni, e debbono essere controllati – anche se con decrescente efficacia – tramite costosi e ripetuti trattamenti chimici.

La conservazione di un habitat ricco di biodiversità naturale – grazie alle siepi, all’inerbimento del campo, ecc e al bando dei pesticidi chimici – costituisce essa stessa un sistema di protezione contro i parassiti, perché ospita gli insetti utili, predatori degli infestanti. Un esempio di come la salubrità e varietà biologica dei siti non è solo utile alla salute umana, ma anche economicamente vantaggiosa. A questo proposito, un aspetto da ricordare sono le microeconomie che si possono ottenere dalle siepi o dalla macchia selvatica.
Un tempo avevano una larga circolazione stagionale, nei mercati contadini, i prodotti selvatici del bosco e della macchia mediterranea: sorbe, corbezzoli, giuggiole, cornioli, melograne, nespoli germanici, azzeruoli, ecc. Oggi sono rari e costosi prodotti di nicchia destinati al consumo di pochi intenditori. E invece potrebbero rientrare a pieno titolo nei circuiti economici della nuova agricoltura. Tanto più che alcune di queste bacche, come la melagrana – ma la riflessione dovrebbe coinvolgere sia i cosiddetti “piccoli frutti” (lamponi, mirtilli, ribes, uva spina, ecc) che le cosiddette piante officinali – conoscono oggi un crescente utilizzo sia nella “cosmesi senza chimica”, che nella ricerca e nella produzione farmaceutica.
Tali considerazioni dovrebbero anche investire un problema oggi rilevante in alcune aree – come ad es. la Toscana – dove la macchia selvatica rappresenta una forma di rinaturalizzazione spontanea e disordinata, che consuma sia il bosco di pregio, sia le aree agricole e pastorali, fornendo ai cinghiali, sempre più numerosi, la possibilità di danneggiare gravemente le colture delle aree collinari. E’ evidente che qui occorre un intervento pianificato, che punti a una selvicoltura di qualità sia per il legno che per i prodotti del bosco e del sottobosco. E’ attraverso il ripristino rinnovato di economie antiche (fra queste spicca il castagneto), che si può avviare anche una difesa territoriale delle aree agricole secondo meccanismi di coordinamento e cooperazione fra diverse aree ed ambiti produttivi che in queste aree sono stati in funzione per secoli.

Altre economie

Nei frutteti si può molto utilmente praticare l’allevamento dei volatili ( polli, oche, faraone,ecc).Tale pratica già nota ai primi del ‘900 in alcuni paesi europei ( ad esempio nei meleti della Normandia)8 e oggi sperimentata da alcune aziende ad agricoltura biologica, combina un insieme sorprendente di vantaggi. I volatili, infatti, ripuliscono il terreno dalle erbe infestanti e lo concimano costantemente con i loro escrementi, facendo risparmiare all’azienda il lavoro e i costi del taglio delle erbe e quello della fertilizzazione del suolo. Ma aggiungono all’economia aziendale uno straordinario apporto produttivo: le uova, i pulcini e la carne di pregio commerciabili tutto l’anno.

Sempre sul piano del contenimento dei costi è utile rammentare che qualunque azienda agricola produce una quantità significativa di biomassa. Sia sotto forma di rifiuti organici domestici, che quale residuo dei tagli, potature, controllo delle siepi, ecc. Ebbene, questo materiale – tramite il metodo del cumulo – si può trasformare in utilissimo compost per fertilizzare il suolo, senza ricorrere ai fertilizzanti chimici, e risparmiando su tale voce di spesa che grava invece in maniera crescente sull’agricoltura industriale. Il costo dei concimi, è noto, dipende dal prezzo del petrolio. Un grande agronomo biodinamico, Eherfried Pfeiffer, sosteneva che un buon terriccio di cumulo può avere una capacità fertilizzante due volte superiore a quella del letame bovino: il più completo fra i fertilizzanti organici. Di questo terriccio si potrebbe fare commercio, come si fa commercio del fertilizzante ottenuto dalla decomposizione di sostanza organica da parte dei lombrichi. Nel Lazio, ad es., esiste qualche azienda che vende humus, un terriccio ricavato dalla “digestione” di letame bovino ad opera dei lombrichi.

Sempre sul piano del risparmio dei costi – senza qui considerare la buona pratica di impiantare pannelli solari sugli edifici, case, stalle, uffici, ecc, per rendere l’azienda autonoma sotto il profilo energetico – una riflessione a parte meriterebbe l’uso dell’acqua. La presenza di questo elemento è ovviamente preziosa e spesso indispensabile nelle agricolture delle aree interne. Ad essa si attinge normalmente con i pozzi azionati da motori elettrici. Se l’elettricità è generata da pannelli fotovoltaici il costo è ovviamente contenuto. Ma spesso non è così. E ad ogni modo, in tante aree interne, l’acqua potrebbe essere attinta in estate senza costi se durante l’inverno venissero utilizzati sistemi di raccolta delle acque piovane.

Si tratta, ovviamente, di riprendere un sistema antico – in molte aree, come nella Sicilia agrumicola, ancora attivo – che utilizzi cisterne, vasche di raccolta, ecc. Questa cura dell’acqua comporterebbe una nuova visione del territorio e delle risorse circostanti alle singole aziende. E’ evidente che una nuova agricoltura nelle aree interne, dovrebbe far parte di un progetto collettivo di rimodellamento dell ‘habitat locale, che comporta il controllo delle acque alte, il loro incanalamento ottimale, ma anche il loro utilizzo in punti di raccolta (tramite acquacoltura, pesca, ecc), capace di combinare conservazione dell’assetto idrogeologico del suolo e pratica economica produttiva. L’agricoltura e le economie connesse che progettiamo, dunque, comportano un dialogo nuovo e più organico con la ricchezza delle risorse naturali, col mondo delle piante e degli animali, e insieme un presidio umano culturalmente più avanzato e complesso sul nostro territorio.

Infine due questioni rilevanti: il reperimento dei suoli dove esercitare le nuove economie e i protagonisti primi del progetto, vale a dire gli imprenditori, gli uomini e le donne che accettano la sfida. Per quanto riguarda la terra, la sua disponibilità e i suoi prezzi variano molto nelle stesse aree interne. In Toscana il valore fondiario può essere proibitivo, ma in tante aree appenniniche esso ha scarso valore. Senza dire che esiste un po’ in tutte le regioni d’Italia una superficie non trascurabile di terreni demaniali, soggetti a usi civici, o appartenenti ai comuni. Ma sia per questi ultimi che per quelli di proprietà privata si rendono oggi necessarie forme di regolazione e di facilitazione – laddove non esistono già – di accesso alla terra a costi contenuti.

Altro rilevante problema è quello degli imprenditori. E’ evidente che non si può lasciare l’iniziativa imprenditiva alla spontaneità e alla capacità attrattiva di un progetto. Sarà necessaria un’azione concordata con le varie forze territoriali in campo (amministrazioni, Coldiretti, sindacati, comitati locali, associazioni, cooperative, ecc.) che devono svolgere una funzione iniziale di promozione e coordinamento, oltre che di conoscenza e informazione: disponibilità della terra, presenza di boschi e macchie, ecc. Ma è evidente che la ricostruzione di un nuovo ceto di agricoltori per le aree interne passa oggi attraverso una nuova politica dell’immigrazione. Ebbene in che modo, con che mezzi, con quali forze si può perseguire un così ambizioso progetto?

Risulta necessario, in via preliminare, cancellare la legge Bossi-Fini e cambiare atteggiamento di legalità di fronte a chi arriva. Occorre dare agli immigrati che vogliono restare la possibilità di trovare un lavoro in agricoltura, nell’edilizia, nella selvicoltura, nei servizi connessi a tali settori, nel piccolo artigianato. Non si capisce perché i giovani del Senegal o dell’Eritrea debbano finire schiavi come raccoglitori stagionali di arance o di pomodori e non possano diventare coltivatori o allevatori in cooperative, costruttori e restauratori delle case che abiteranno, dei laboratori artigiani in cui si insedieranno altri loro compagni. Ricordiamo che gli indiani hanno salvato di fatto l’allevamento bovino nel Nord d’Italia. Ricordo che tra gli immigrati sono presenti attitudini e saperi agricoli che potrebbero avere ben altra destinazione.

Quanti giovani africani o dell’Est europeo potrebbero essere attratti dalla possibilità di condurre una piccola azienda agricola, insieme a connazionali o a giovani italiani? E’ facile immaginare che non si può chiedere al singolo immigrato di recarsi sulla terra per tornare a zappare. Perché è molto probabile che egli sia fuggito da un condizione nella quale l’agricoltura del suo villaggio coincideva con una realtà di miseria. Per questo occorre affidare la forza di attrazione di questi giovani, ma anche degli italiani, alla ricchezza e complessità del progetto. L’ampiezza della visione che lo ispira è fondamentale per motivare tutti. Non si chiama il singolo a diventare contadino o boscaiolo ma gli si chiede di far parte di una organizzazione cooperativa non limitata a produrre beni agricoli o boschivi, ma impegnata in un vasto disegno di riequilibrio demografico e territoriale, di salvaguardia, ambientale e naturale, dell’intero paese. E’ una rete di attività e al tempo stesso un mondo di relazioni umane.

Certo, il motore politico-istituzionale per avviare l’operazione dovrebbe essere un vasto movimento di sindaci. Su tale fronte, la strada è già stata aperta alcuni anni fa non senza risultati. Mimmo Lucano e Ilario Ammendola, sindaci di Riace e Caulonia, in Calabria, hanno mostrato come possano rinascere i paesi con il concorso degli immigrati, se ben organizzati e aiutati con un minimo di soccorso pubblico. I sindaci dovrebbero fare una rapida ricognizione dei terreni disponibili nel territorio comunale: patrimoniali, demaniali, privati in abbandono e fittabili, ecc. E analoga operazione dovrebbero condurre per il patrimonio edilizio e abitativo. A queste stesse figure spetterebbe il compito di istituire dei tavoli di progettazione insieme alle forze sindacali, alla Coldiretti, alle associazioni e ai volontari presenti sul luogo. Se i dirigenti delle Cooperative si ricordassero delle loro origini solidaristiche potrebbero dare un contributo rilevantissimo a tutto il progetto. Sappiamo che a questo punto si leva subito la domanda: con quali soldi? E’ la risposta più facile da dare. Soldi ce ne vogliono pochi, soprattutto rispetto alle grandi opere o alle altre attività in cui tanti imprenditori italiani e gruppi politici sono campioni di spreco. I fondi strutturali europei 2016-2020 costituiscono un patrimonio finanziario rilevante a cui attingere. E per le Regioni del Sud costituirebbero un’occasione per mettere a frutto tante risorse spesso inutilizzate.

E qui le forze della sinistra dovrebbero fare le prove di un modo antico e nuovo di fare politica, mettendo a disposizione del movimento i loro saperi e sforzi organizzativi, le relazioni nazionali di cui dispongono, il contatto coi media. Esse possono smontare pezzo a pezzo l’edificio fasullo della paura su cui una destra inetta e senza idee cerca di lucrare le proprie fortune elettorali. L’immigrazione può essere trasformata da minaccia in speranza, da disagio temporaneo in progetto per il futuro. Così cessa la propaganda e rinasce la politica in tutta la sua ricchezza progettuale. In questo disegno la sinistra potrebbe gettare le fondamenta di un consenso ideale ampio e duraturo.

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