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Forum disuguaglianze: L’aumento della disuguaglianza provoca ingiustizia e tradisce la libertà sostanziale

sito forum disuguaglianze

Pubblichiamo due interessanti contributi al dibattito sulle disuguaglianze e un intervento del  Forumdisuguaglianze  del 14 maggio  su  “L’aumento della disuguaglianza provoca ingiustizia e tradisce la libertà sostanziale “segnalando   che  nell’ambito del Festival dello Sviluppo Sostenibile 2018 il 22 maggio 2018, presso la Sala Perin del Vaga dell’Istituto Sturzo a Roma, si terrà il Seminario “I numeri e i luoghi delle disuguaglianze”, organizzato dal Forum Disuguaglianze Diversità in collaborazione con ASviS (> Vai al programma)   Il 4 giugno  un secondo appuntamento “Le disuguaglianze tra i mondi e nei mondi” presso la Camera di commercio Piazza di Pietra (> Vai al programma)

La disuguaglianza non è un dato, ma il principale problema con cui dobbiamo misurarci

E’ un must, e non un optional, definire quali disuguaglianze sono moralmente e socialmente accettabili o giustificabili. In questo senso la disuguaglianza non è un dato ma un problema. Se manteniamo lealtà a un nucleo elementare di valori che è incorporato nei fondamentali della convivenza democratica.

Nella discussione pubblica degli ultimi anni la questione della disuguaglianza economica e sociale, entro le società e fra le società, ha assunto un rilievo crescente. E in un mondo attraversato, al tempo stesso, da processi di interdipendenza e da linee di conflitto che rendono porosi i confini, il rilievo crescente della questione ha assunto inevitabilmente un carattere globale. Se si considera il semplice fatto che le disuguaglianze di reddito e ricchezza sono state insieme una delle cause e uno degli effetti della grande crisi sistemica in cui siamo stati intrappolati almeno negli ultimi dieci anni, è naturale che la teoria economica abbia rimesso al centro dell’analisi e delle prognosi il tema della distribuzione di reddito e ricchezza e degli effetti che le crescenti disuguaglianze hanno sia sul piano della crescita economica sia sul piano delle istituzioni politiche e delle pratiche sociali.

Basta pensare, in proposito, ai contributi di Paul Krugman, Amartya Sen, Jean-Paul Fitoussi, Thomas Piketty, Joseph Stiglitz o Anthony Atkinson. Si tratta di esiti di ricerche che in vario modo si basano sul rifiuto del dogma centrale della teoria mainstream, coincidente con il principio di autoregolazione dei mercati come criterio sia positivo sia normativo per l’analisi del funzionamento dei sistemi e per le raccomandazioni di politiche economiche. Ciò che emerge dalle ricerche economiche eterodosse sulla dinamica delle disuguaglianze è spesso una domanda che riguarda le ragioni per cui dovremmo impegnarci nella loro riduzione.

Nella prefazione all’edizione italiana di Inequality di Atkinson, Chiara Saraceno richiama un passo eloquente del sociologo Goran Therborn che all’inizio del suo The Killing Fields of Inequality asserisce: “La disuguaglianza è una violazione della dignità umana; è la negazione della possibilità che ciascuno possa sviluppare le proprie capacità. Prende molte forme e ha molte conseguenze: morte prematura, salute cattiva, umiliazione, subordinazione, discriminazione, esclusione dalla conoscenza e/o da dove si svolge prevalentemente la vita sociale, povertà, impotenza, mancanza di fiducia in se stessi e di opportunità e possibilità della vita. Non è quindi solo questione delle dimensioni del proprio portafoglio. E’ un ordinamento socio-culturale che riduce le capacità, il rispetto e il senso di sé, così come le risorse per partecipare pienamente alla vita sociale”.

Quello di Therborn è una sorta di catalogo degli effetti che un’ampia classe di disuguaglianze genera entro la struttura sociale. Si tratta di effetti che coinvolgono la qualità di vita di persone e che riguardano congiuntamente i loro modi di vivere le proprie vite e i loro modi di convivere con altre persone, entro una qualche società. In questa prospettiva, di nuovo, la teoria sociale mira a individuare le ragioni a favore della riduzione delle disuguaglianze.

Una classe di ragioni distinte, anche se non indipendenti, che militano a favore del contrasto alle disuguaglianze crescenti, emerge dagli studi di scienza politica e, in particolare, da quelle ricerche che hanno come tema le trasformazioni e i mutamenti delle democrazie contemporanee. A proposito degli effetti politici, osservo che noi abbiamo ragioni fondamentali contro lo spettro che ritorna e si aggira, entro le nostre democrazie costituzionali, dell’ancien régime di una società castale e cetuale. Una società dominata dal privilegio di qualcuno e non dall’interesse di chiunque, caratterizzata dalla crescente forbice delle disuguaglianze economiche e sociali e dal blocco della mobilità sociale, che erodono e rendono ipocrita la solenne promessa costituzionale della pari dignità delle persone, in quanto cittadine e cittadini, in quanto partner di eguale dignità della polis. (E’ naturale, dalle nostre parti, all’art. 3 della Costituzione.)

Per questo, ho richiamato l’attenzione sulle politiche dell’uguale rispetto, dipendenti dal riconoscimento dell’uguale importanza delle vite delle persone, come sostiene Amartya Sen, politiche che devono rispondere tanto ai funzionamenti delle persone, ai loro deficit, quanto alle capacità delle persone. Alle capacità delle persone di scegliere il loro progetto di vita, di scegliere chi essere. Le politiche dell’uguale rispetto mirano a ridurre le circostanze dell’umiliazione e della degradazione delle persone, le circostanze della coercizione arbitraria e tirannica, le circostanze dello sfruttamento e dell’uso di persone come arnesi, da parte di altre persone e in virtù dell’esercizio dispotico di poteri sociali, le circostanze in cui si erodono le basi sociali del rispetto di sé per le persone. In una parola, le circostanze dell’umiliazione e della dignità ferita, di cui ci parla Therborn nel suo passo eloquente. Le politiche dell’uguale rispetto dipendono strettamente dall’ideale difficile e ineludibile dell’equa eguaglianza delle opportunità e delle capacità dei cittadini e delle cittadine di essere, per quanto possibile, padrone della proprie vite, e non suddite o schiave di altre persone e di poteri arbitrari e dispotici.

Il vertiginoso aumento delle disuguaglianze di condizioni economiche e di status sociale ha generato una sorta di ancien régime postmoderno. Il compianto Luciano Gallino ha messo a fuoco in modo esemplare la duplice natura delle disuguaglianze crescenti come causa ed effetto, al tempo stesso, della grande crisi innescata dalla finanziarizzazione dell’economia capitalistica in un limpido saggio, Globalizzazione e diseguaglianze, che è il vero e proprio terminus a quo della sua appassionata e occhiuta ricerca sul finanzcapitalismo e sulla democrazia sotto attacco. Noi siamo il 99%, ci hanno ricordato le donne e gli uomini di Occupy Wall Street. E i fuochi di indignazione, che ciclicamente si accendono qua e là per il mondo, inverno arabo, primavera europea, autunno americano come si diceva qualche anno fa, si accendono quando la percezione delle ineguaglianze è patente nelle volte di crisi, e i costi sociali e morali si scaricano su ampie frazioni di popolazione senza voce e senza più diritti. O senza ancora diritti. Per questo, ogni volta che le ondate contestative si infrangono e l’ordine torna duramente a regnare nelle piazze e gli equilibri di potere sfidati si ricostituiscono, si avverte come una sensazione di spreco e dissipazione di una ricchezza umana possibile. Si avverte, ai tempi dell’ancien régime che ci è contemporaneo, lo scippo di speranza per le persone. Ed è per questo che l’ombra del futuro si contrae, lasciando spazio alla dittatura del presente. A questo punto, l’espressione ancien régime è appropriata, e non è un semplice slogan emotivo. Perché uno degli effetti sociali più vistosi e dirompenti delle disuguaglianze è il fatto radicale dell’ingiustizia: nessuno sceglie di nascere, da una parte o dall’altra, in una famiglia o in nessuna famiglia, in un sesso o in un altro, con un colore della pelle piuttosto che un altro. Ma quando il tuo destino di vita, il tuo progetto di vita è plasmato e dominato dall’arbitrarietà morale della tua nascita, qualsiasi idea di eguale considerazione e rispetto per le persone è cancellata dalla lavagna. E l’idea, che ne deriva, dell’eguaglianza delle opportunità per chiunque è violata e derisa.

Ha scritto in proposito il più grande teorico della giustizia sociale del secolo scorso, John Rawls: “la distribuzione naturale non è né giusta né ingiusta; né è ingiusto che gli esseri umani nascano in alcune posizioni particolari entro la società. Questi sono semplicemente fatti naturali. Ciò che è giusto o ingiusto è il modo in cui le istituzioni sociali trattano questi fatti. Le società aristocratiche o castali sono ingiuste perché fanno di questi fatti contingenti la base ascrittiva su cui assegnare l’appartenenza ad una classe sociale più o meno chiusa e privilegiata. La struttura fondamentale di queste società incorpora l’arbitrarietà che troviamo in natura. Ma non è necessario che gli esseri umani si rassegnino a subire questi fatti contingenti. Il sistema sociale non è un ordinamento immutabile al di là del controllo umano, ma è invece un modello di azione umana. Secondo la giustizia come equità, gli esseri umani accettano di condividere i propri destini”.

Ma vi è almeno un altro effetto sociale dirompente, su cui ho a più riprese richiamato l’attenzione: la lesione e la rottura del vincolo o del legame sociale nelle società della sfiducia. La distruzione del sociale, per dirla con Alain Touraine. La società divisa di Stiglitz. Il processo di erosione dei legami che Karl Polanyi aveva messo a fuoco nelle circostanze dell’insorgenza del capitalismo, conosce oggi una vistosa accelerazione. Viene meno la consapevolezza civile che siamo sulla stessa barca e che ciascuno di noi deve qualcosa a ciascun altro. La società come unione di unioni sociali si lacera e, come per sporulazione, lo spazio sociale si frammenta in cerchie o clan o tribù o compagnie di ventura o ghetti di segregazione. Per il resto, condanne alla sorte della solitudine involontaria. Così, il patto sociale è infranto e torna sulla scena il contratto iniquo fra chi ha e chi non ha, che Jean-Jacques Rousseau tratteggiò nel diciottesimo secolo nel suo fondamentale Discorso sui fondamenti e l’origine della disuguaglianza fra gli uomini. In una democrazia decente è naturale riconoscere, quale che sia la nostra interpretazione politica dell’interesse pubblico, che il sistema delle libertà fondamentali di cittadinanza deve essere eguale per chiunque. E che libertà per qualcuno o per pochi è semplicemente privilegio. Abbiamo, se l’abbiamo, come dovremmo averla, libertà eguale, ma – fortunatamente o sfortunatamente – abbiamo redditi e ricchezza, capitale sociale diseguali. La mia libertà è uguale alla tua, ma il suo valore può essere enormemente disuguale per te o per me. Se crediamo che la libertà uguale per le persone sia il valore prioritario, abbiamo ragioni fondamentali per chiederci quanto e se sia accettabile la disuguaglianza del suo valore per le persone. Per i cittadini e le cittadine, cui spettano uguale considerazione e rispetto.

Non è difficile riconoscere che tutto ciò è nel cuore della questione sociale, vecchia e nuova. La diagnosi di Karl Marx resta, in proposito, insuperata. Nella prima metà dell’Ottocento, all’indomani delle grandi Dichiarazioni dei diritti e sullo sfondo del capitalismo manchesteriano, Marx metteva a fuoco la tensione e la contraddizione fra l’uguaglianza nel cielo del citoyen e la disuguaglianza sulla terra del bourgeois. La disuguaglianza economica e sociale può trasformare la comunità democratica di cittadinanza in una comunità “illusoria”.

E’ proprio per mantenere la promessa fondamentale dell’uguale libertà che una politica democratica ha il dovere di ridurre –per quanto è possibile- le vistose disuguaglianze del suo valore per cittadini che spesso e volentieri sono riconvertiti nello status di sudditi, quando non nella condizione servile d’ancien régime, anche nella parte ricca o meno povera del mondo.

Nella narrazione impressionistica a proposito della disuguaglianza e dei suoi molteplici effetti ho fatto riferimento a una varietà di ragioni secondo cui la disuguaglianza è un male sociale e la sua riduzione è un obiettivo di valore degno di lode. Analiticamente possiamo definire i) una classe di ragioni come ragioni politiche che investono centralmente il deficit delle risorse di legittimità dei sistemi e dei processi democratici; ii) una classe di ragioni sociali che mettono a fuoco il deficit di coesione e di inclusione delle persone entro una qualche società; iii) una classe di ragioni economiche che riguardano i deficit della crescita o dello sviluppo di sistemi caratterizzati dal patrimonialismo intergenerazionale, dal predominio della ricerca della rendita e dal blocco della mobilità sociale; iv) una classe di ragioni culturali, in cui gioca un ruolo decisivo la logica del breve termine con le sue molteplici implicazioni; v) una classe di ragioni filosofiche che chiamano in causa questioni di giustizia sociale, alla luce di una varietà di principi che mirano alla giustificazione imparziale o impersonale della distribuzione di costi e benefici della cooperazione sociale in presenza di disuguaglianze del tipo di quelle cui mi sono riferito nei paragrafi precedenti. E’ a proposito di quest’ultima classe di ragioni che vorrei esplicitare una convinzione meditata e abbozzare una congettura.

La convinzione meditata è questa: la questione della giustizia sociale è tornata prepotentemente al centro della ricerca e della controversia intellettuale in quanto genuina questione di giustizia distributiva. Dopo qualche decennio in cui il paradigma dominante è stato quello della giustizia commutativa di una qualche versione di libertarismo, la domanda normativa fondamentale si formula ora come una domanda a proposito della giustificazione o meno delle disuguaglianze in termini di reddito, ricchezza o risorse. E questo ce lo suggeriscono, nelle recenti ricerche e nei loro sviluppi, la stessa teoria economica, sociologica o politologica. Del resto, il nucleo di qualsiasi filosofia politica come teoria normativa di una società giusta consiste nel problema della giustificazione. Questioni di efficienza, di coesione sociale o di legittimità delle forme di governo (nel caso delle differenti forme di governo democratico) si connettono strettamente alla richiesta di giustificazione delle istituzioni fondamentali e delle pratiche sociali, per gli effetti distributivi che esse hanno sulla qualità di vita delle persone che hanno entro il loro sfondo una vita con tante altre persone da vivere. Così, la convinzione meditata ci induce a riconoscere, a fronte dei costi morali e sociali della crescente disuguaglianza, che la giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali.

E’ possibile scaricare il testo integrale “Sulla disuguaglianza da cui è tratto questo contributo

* Salvatore Veca insegna Filosofia politica alla Scuola Universitaria Superiore IUSS di Pavia, di cui è stato prorettore dal 2006 al 2013. Presidente onorario della Fondazione Feltrinelli, è stato il direttore del suo Laboratorio Expo e curatore della Carta di Milano di Expo 2015. E’ presidente della Fondazione Campus di Lucca e della Casa della Cultura di Milano. Fa parte della direzione della “Rivista di filosofia”, di “Iride” e dello “European Journal of Philosophy”. Fra i suoi libri: Dell’incertezza. Tre meditazioni filosofiche, 20062; L’idea di incompletezza. Quattro lezioni, 20182; Il senso della possibilità. Sei lezioni, 2018.

 

L’articolo 3 insegna: libertà e uguaglianza sono beni indivisibili

Intervista a Fabrizio Mastromartino*

Allo stato attuale  una riforma radicale appare non solo possibile ma anche necessaria. Solo così si potranno rilanciare politiche pre-distributive e re-distributive idonee ad assicurare a tutti le capabilities necessarie per il pieno sviluppo umano di ciascuno.

Partiamo da quanto scriviamo nel Wikiforum sul rapporto inversamente proporzionale tra disuguaglianza e giustizia e libertà sostanziale delle persone. Noi aggiungiamo anche un altro punto, ovvero che “L’ingiustizia non è solo l’esito delle disuguaglianze odierne. Ne è anche la causa. All’origine delle disuguaglianze economiche, sociali e di riconoscimento con le quali oggi conviviamo, vi sono cambiamenti profondi avvenuti nel modus operandi delle principali istituzioni sociali, compresi mercato e imprese, i quali violano l’uguaglianza di considerazione e rispetto dovuta a ciascun individuo.” E’ d’accordo con questa idea? 

L’ingiustizia sociale è certamente non solo effetto ma anche causa della disuguaglianza attuale, in un circolo vizioso difficile da spezzare proprio perché generato dal modo in cui le istituzioni sociali stanno trasformando le nostre società.

Credo che l’immagine che meglio esprime questa trasformazione sia quella usata da Michael Sandel, secondo cui “siamo passati dall’avere un’economia di mercato all’essere una società di mercato” (Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, Feltrinelli 2013). Lo spazio del mercato – che è luogo ben più del potere che della libertà – si è allargato a dismisura, determinando un’espansione non solo quantitativa ma anche qualitativa. Ciò che è cambiato è il ruolo sociale assegnato al mercato, non più strumento di organizzazione dell’attività pro­duttiva bensì elemento pervasivo della nostra vita, in cui persino le relazioni sociali sono alterate a sua immagine e modellate se­condo le sue regole. Così come tutto ciò che è colato nello stampo della legali­tà diviene diritto indipendentemente dalla sua conformità a un qualche ideale di giustizia, ciò che è posto nel dominio del mercato diviene merce quale che sia lo statuto etico di ciò che è oggetto di scambio.

Il processo di mercificazione oggi in atto è evidente in particolare nel mondo del lavoro, dove la precarizzazione e lo smantellamento delle tutele dei lavoratori hanno rinsaldato il carattere strutturalmente asimmetrico del rapporto lavorativo incrementando il potere dei datori di lavoro a svantaggio e per lo sfruttamento dei lavoratori. Inoltre, si sta lasciando che il mercato assorba nel suo dominio beni e servizi essenziali per una vita dignitosa (come la salute, l’istruzione ecc.), con il rischio che si torni indietro a una “cittadinanza censitaria”, cioè a una società in cui i diritti dipendono dalle distribuzioni di mercato.

È urgente una decisa inversione di rotta.

Si rileva dunque una tacita accettazione sociale della discriminazione e dell’ingiustizia sociale, e delle grandi disuguaglianze economiche, da parte di istituzioni e cittadini. Dove ricercare le principali cause del cambiamento del senso comune? 

Possiamo, in effetti, parlare di una crisi dell’uguaglianza non tanto per l’ab­normità delle odierne disuguaglianze quanto per il fatto della loro rassegnata accettazione: a una consapevolezza sempre più intensa non è seguita, e non sembra seguire, alcuna mobilitazione significativa, come vi fosse una tacita acquiescenza anche rispetto alle loro conseguenze più allarmanti.

Le ragioni di questa sconcertante passività sono molteplici, ma tre mi sembrano le più importanti: la sedimentazione di un’ide­ologia che scambia le disuguaglianze generate dall’organizzazione sociale per differenze naturali che si manifestano diversamente secondo le attitudini, le capacità e l’impegno di ciascuno; l’incomprensione, o peggio la mistificazione, del rapporto tra uguaglianza e libertà, guardate erroneamente come valori tra loro contrapposti e inconciliabili; infine, la diffusione di un senso di impotenza generato da una politica che, sempre più asservita ai poteri del mercato, degrada a tecnocrazia e in quanto tale è avvertita dai citta­dini come irriducibilmente lontana dalle proprie rivendicazioni.

Lei si è interrogato sulla riformabilità del capitalismo. A che tipo di conclusioni è arrivato? E’ possibile cambiare questo sistema economico per consentire alle persone di mettere a frutto le capabilities seniane, ovvero “la capacità che ciascuno ha di fare le cose alle quali, per un motivo o per un altro, assegna un valore”? 

Tutte le istituzioni sociali, in quanto strutture da noi stessi prodotte, possono ovviamente essere cambiate, com’è altrettanto ovvio che possa mancare la volontà culturale, sociale e soprattutto politica per farlo, non essendovi intellettuali che concepiscano alternative, movimenti sociali che reclamino un cambiamento, forze politiche che si facciano carico delle loro rivendicazioni.

Oggi, l’ordine globale è fondato sulla competizione. È una grande disfida, tutta orientata ad attrarre capitali sempre più mobili e sfuggenti, che variamente comporta una competizione fiscale (potenzialmente distorsiva della concorrenza nel mercato), una corsa al surplus commerciale (prevedibilmente insostenibile per il pianeta) e una gara al ribasso nella tutela dei diritti del lavoro e nella difesa dell’ambiente (in una spietata “concorrenza tra ordinamenti”).

Di questo sistema capitalistico, dominato da una finanza non più vettore di investimenti produttivi bensì motore di sfrenati antagonismi regionali e internazionali, una riforma radicale appare non solo possibile ma anche necessaria. Alla “ragione” dell’imperante lex mercatoria – espressione niente più che del potere dei più forti – deve sostituirsi una rinnovata ragione giuridica in grado di imbrigliare i poteri selvaggi che dominano la società di mercato, riportando l’economia, e la sua dimensione finanziaria, sotto il controllo del diritto. Servono regole e controlli nel segno di un nuovo multilateralismo globale che tenda a un’armonizzazione dei singoli ordinamenti nazionali, innanzitutto in materia fiscale.

Solo così si potranno rilanciare politiche pre-distributive e re-distributive idonee ad assicurare a tutti le capabilities necessarie per il pieno sviluppo umano di ciascuno.

Il Forum si richiama in maniera chiara all’articolo 3 della Costituzione che sancisce non solo libertà e uguaglianza ma partecipazione dei lavoratori e responsabilità della Repubblica di rimuovere gli ostacoli alla libertà sostanziale dei cittadini. C’è chi crede che richiamarsi alla Costituzione sia ormai poco più che un esercizio di stile, eppure noi crediamo non sia così. Come riuscire ad affermare la validità di questi valori traducendoli in azioni concrete, ovvero nella pratica politica? 

Quella espressa dall’articolo 3, se­condo comma, della Costituzione italiana – là dove impone alla Repubblica di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno svi­luppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” – è una mirabile sintesi che invita a guardare libertà ed eguaglianza come beni indivisibili e solidali tra loro, uniti in un rapporto di complementarietà piuttosto che separati in una relazione oppositiva.

Riaffermarne la centralità non è un espediente retorico. Significa piuttosto ripensare una seria politica dell’eguaglianza ripartendo dal suo fondamentale luogo di origine: il progetto di società prefigurato dal testo costituzionale. È qui, infatti, che si trovano le coordinate ideologiche idonee a soppiantare la narrativa oggi dominante (spesso anche a sinistra) – che insiste sulla contrapposizione tra i principi di eguaglianza e libertà – sostituendovi l’ideale della libertà eguale, in cui essi, all’opposto, sono combinati in un rapporto di armonica sinergia. La libertà eguale – che è l’ideale fondante di ogni socialismo liberale – consiste nella redistribuzione della libertà, attraverso la garanzia dei diritti sociali, per assicurare a ciascuno reali oppor­tunità di esercizio dei diritti di libertà egualmente distribuiti.

È alla realizzazione di questa forma di libertà (reale o sostanziale o, appunto, eguale) che dovrebbe orientarsi la pratica politica.

L’instabilità sembra la cifra di questo presente, a livello globale e nazionale. Quali sono le questioni più urgenti che dovrebbe affrontare la politica nel nostro paese? 

L’ingiustizia nelle condizioni economiche e sociali caratterizza oggi sempre di più anche le ricche società dei paesi occidentali. L’Italia non fa eccezione. Anzi, è uno dei paesi in cui la disuguaglianza è più acuta, e in crescita costante, e dove una percentuale significativa della popolazione è a rischio di esclusione sociale o perfino in povertà “assoluta”. Bisogna allora tornare ad affrontare la questione sociale: non però con un’iniziativa dal fiato corto che ha il respiro dei tempi delle campagne elettorali, ma attraverso una radicale politica dell’uguaglianza in grado di guardare alla libertà eguale di ciascuno come a un obiettivo concretamente realizzabile.

Una strada per tornare a prendere sul serio la questione sociale potrebbe essere quella di riappropriarsi del lessico della sicurezza. Oggi – ben più che in passato – il vocabolario della sicurezza è prestato soprattutto alle politiche del controllo sociale, malgrado anche in Italia si assista da anni a un costante decremento dei reati contro la persona e il patrimonio.

Quasi del tutto assente dall’orizzonte della politica è invece la sicurezza sociale. Ma è proprio questa la sicurezza che oggi manca e che, dunque, appare urgente reclamare, per riaffermare la necessità di garantire a tutti una protezione sociale sufficiente ad assicurare a ciascuno reali opportunità di realizzare i propri piani di vita.

* Fabrizio Mastromartino svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre, dove insegna Teorie dei diritti. È docente di Filosofia del diritto all’Università della Tuscia (Viterbo). I suoi interessi di ricerca riguardano la storia del pensiero politico e della cultura giuridica nonché la teoria dei diritti e dell’interpretazione costituzionale. È autore dei libri Il diritto di asilo. Teoria e storia di un istituto controverso (Giappichelli 2012) e Il matrimonio conteso. Le unioni omosessuali davanti ai giudici delle leggi (Editoriale scientifica 2013). Ha curato, per la Fondazione Basso, il volume Riformabilità o irriformabilità del capitalismo? La ricostruzione della sfera pubblica democratica nella crisi permanente (2018) ed è curatore del volume collettaneo Teoria e pratica dell’eguaglianza. Percorsi di analisi critica (L’Asino d’oro 2018).

(dal Forumdisuguaglianze 14 maggio 2018) L’aumento della disuguaglianza provoca ingiustizia e tradisce la libertà sostanziale L’opinione del Forum

Ascolta l’opinione del Forum letta da Marco Marucci

L’aumento delle disuguaglianze economiche, sociali e di riconoscimento calpesta l’uguale dignità (l’esser degni di uguale considerazione e rispetto) delle persone, rompe il rapporto tra possesso di mezzi e bisogni, tradisce le aspettative basate sull’uguaglianza di opportunità, ed equivale ad una compressione della libertà sostanziale di grandi masse di persone. In sostanza, ripropone con forza la questione della giustizia sociale, in termini di libertà e autonomia delle persone, imparziale distribuzione di risorse e capacità e equità nei risultati e nei destini individuali.

L’ingiustizia non è solo l’esito delle disuguaglianze odierne. Ne è anche la causa. All’origine delle disuguaglianze economiche, sociali e di riconoscimento con le quali oggi conviviamo, vi sono cambiamenti profondi avvenuti nel modus operandi delle principali istituzioni sociali, compresi mercato e imprese, i quali violano l’uguaglianza di considerazione e rispetto dovuta a ciascun individuo. Come ammonisce John Rawls, il disegno delle istituzioni sociali fondamentali è determinante ai fini di una distribuzione equa dei vantaggi e dei costi della cooperazione sociale. Disegni improntati all’equità sono incompatibili con disuguaglianze elevate, che altro non sancirebbero se non il peso di fattori arbitrari da un punto di vista morale quali il caso e il potere.

L’espressione libertà sostanziale è di Amartya Sen che la definisce come “la capacità che ciascuno ha di fare le cose alle quali, per un motivo o per un altro, assegna un valore.” (A. Sen, L’idea della Giustizia, p.241) Il concetto di libertà sostanziale, quindi, guarda non solo ai risultati finali (funzionamenti) raggiunti da ogni persona in tutte le dimensioni della vita ma anche alle sue opportunità, ossia alla capacità (capacitazioni, nell’originale inglese capabilities) che la persona ha di raggiungere quei risultati. Delle capacità si sottolinea tanto l’essere un mezzo per acquisire uno stato finale di benessere, quanto l’essere una possibilità di scelta, ossia il poter fare una scelta se lo si vuole. Si valorizzano quindi sia l’efficacia nel raggiungere certi risultati finali, sia l’ampiezza del ventaglio di alternative entro cui scegliere: anch’essa trasmette valore al risultato finale (altra cosa è scegliere di funzionare nell’unico modo/capacità possibile, altra è scegliere di funzionare utilizzando quella stessa capacità tra molte a disposizione per la scelta). Le capacità di Sen perciò hanno due componenti: sono “funzioni di trasformazione” possedute dall’individuo, cioè mezzi –  abilità, competenze – che trasformano i beni in risultati (funzionamenti). Ma al contempo sono libertà e quindi scelta di funzionare in un certo modo, cioè di selezionare la funzione di trasformazione preferita tra quelle possedute dalla persona. E ciò implica la titolarità di diritti di accesso a beni, di decisione, di partecipazione, di non esclusione ecc.

 

Esempi di queste capacità o capacitazioni sono: l’istruzione per apprezzare un libro o un paesaggio, per dialogare con altri, per trovare il lavoro a cui si aspira; il reddito per mangiare, vestirsi, viaggiare, ecc., ma anche la capacità di saperlo utilizzare; la possibilità di accedere a una cura adeguata della salute o della vecchiaia; i risparmi per superare imprevisti o avversità, ma anche le competenze per gestirli; la possibilità per un immigrato di mantenere una parte della propria cultura e abitudini, se decide di farlo; la possibilità per un lavoratore di rifiutare un lavoro degradante o per una donna di rifiutare le proposte sessuali di un datore di lavoro; la possibilità per il residente in un’area rurale o interna di non trasferirsi in città, se preferisce non farlo. L’esistenza di queste capacità è ciò che ci rende liberi, liberi di scegliere: astenersi dal mangiare – ci ricorda Sen – è cosa ben diversa se frutto di una scelta di protesta (segno di libertà e uguaglianza), ovvero dell’impossibilità di trovare o acquistare gli alimenti (segno di illibertà e disuguaglianza).

 

Con questo concetto, libertà e uguaglianza non vengono ristrette alle risorse monetarie. Redditoricchezza sono uno dei mezzi, assai spesso un requisito necessario nella società attuale, per raggiungere i risultati desiderati, per compiere le scelte preferite; ma non sono in genere un requisito sufficiente, perché non sono automaticamente e sempre convertibili nelle altre capacità. Con questa attenzione alla multidimensionalità della vita delle persone, il concetto di libertà sostanziale corrisponde al concetto di “pieno sviluppo della persona umana” dell’articolo 3 della Costituzione Italiana, e invita a misurare e contrastare le molteplici disuguaglianze: le disuguaglianze di ricchezza e le disuguaglianze di reddito e lavoro, certo, ma anche le disuguaglianze nell’accesso e nella qualità dei servizi essenziali, le disuguaglianze nella partecipazione alle decisioni o le disuguaglianze di riconoscimento. Le quattro manifestazioni delle disuguaglianze di cui il Forum sceglie di occuparsi.

L’attenzione del concetto di libertà sostanziale al “modo in cui ciascuno perviene al risultato finale” (A. Sen, L’idea della Giustizia, p.240), ossia il processo attraverso il quale si arriva a realizzare il “pieno sviluppo della persona umana”, consente, come chiede di fare l’articolo 3 della Costituzione Italiana, di mettere in luce gli eventuali “ostacoli” che “minano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini” e dunque di rimuoverli, ovvero di permettere l’esigibilità di quei diritti. L’approccio della libertà sostanziale è così tra l’altro “in grado di orientare correttamente la produzione dei servizi pubblici” (A. Sen, L’idea della Giustizia, p.272), ossia di portare l’azione per la promozione della giustizia all’interno dell’architettura e dell’arte di fare politica pubblica. In questo passaggio diventa evidentemente necessario attribuire una gerarchia, ossia dei pesi relativi, alle diverse capacità e agli ostacoli da rimuovere: è questo il compito di un processo deliberativo democratico, del confronto acceso (conflitto), informato, aperto e ragionevole fra i cittadini sul quale dovrebbero essere fondate le decisioni pubbliche.

L’estensione dell’universo di riferimento della libertà sostanziale dalle generazioni attuali a quelle future comporta l’estensione del concetto a quello di libertà sostanziale sostenibile.

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