Montanari: Pisa, acquedotto fatto a pezzi e paccottiglia sotto la Torre
Autore : Redazione
(da Il Fatto quotidiano, le Pietre e il popolo, 26 novembre 2018) Il patrimonio culturale al tempo del governo della Lega: a Pisa, per esempio. Se questo fosse il titolo di un tema, lo svolgimento potrebbe essere fulmineo e fulminante: «uno scempio». Salvatore Settis, che della Scuola Normale Superiore di Pisa è stato a lungo direttore, è stato lapidario: «A quel che pare, brutalità e arroganza sono ingredienti alla moda nel nuovo clima politico. E perché mai, se così è, l’amministrazione comunale di Pisa dovrebbe fare eccezione?» E infatti nessuna eccezione, come dimostra l’episodio che ha meritato l’indignazione di Settis. Il nuovo sindaco di Pisa, Michele Conti, aveva scritto nel programma che, in caso di elezione, avrebbe demolito tre arcate dell’Acquedotto Mediceo per risparmiare un sottopasso alla nuova tangenziale: «È assurdo realizzare un taglio nel territorio lungo circa 250 metri per sottopassarlo; demolendo tre arcate, con quanto si risparmierebbe se ne potrebbero ricostruire almeno 10 di quelle ora mancanti e consolidare il resto oggi dissestato». Chissà, in effetti, perché nessuno ha mai pensato a questo geniale bricolage dei monumenti: demolendo, che so, qualche decina di case di Pompei si potrebbero risparmiare i soldi della manutenzione, e con quelli scavarne altre. E perché non abbattere un’ala del Palazzo Ducale a Venezia, per tirar su una moderna stazione marittima per le Grandi Navi? Sai quanti soldi per manutenere i canali! Siamo in effetti a questo livello: perché l’acquedotto voluto dal granduca Ferdinando I di Toscana è, a tutti gli effetti, un monumento, e dunque è come un corpo vivo, che non può essere fatto a fette a piacere, abbattuto e riassemblato come se fosse un plastico di Porta a Porta. Oltre ad essere, ovviamente, vincolato: il che rendeva il programma del neosindaco solo un’avvincente pagina di storia della decadenza culturale. Invece, Conti non si è arreso, e ora propone di smontare tre arcate dell’acquedotto per rimontarle … in mezzo a una rotatoria della tangenziale. E qui si passa d’incanto dal vandalismo al dadaismo, immaginando che un acquedotto storico, cioè un lungo e ininterrotto condotto che serve a portare l’acqua, possa essere fatto a pezzi e rimontato a decorare una rotonda. Come a dire che il campanile di una chiesa potrebbe essere spostato, e rimontato in mezzo a un parco pubblico. L’opposizione di sinistra in consiglio comunale ha ricordato che l’amministrazione del Pd riuscì a vedersi revocare, per manifesta incapacità a spenderlo, un finanziamento di 200.000 euro della Fondazione Pisa per il restauro dell’Acquedotto, e che il problema non è il monumento, ma proprio l’idea della tangenziale: «questo piano di forte impatto ambientale che prevede una spesa di oltre 70 milioni di euro per un’opera che incentiva l’uso dei mezzi motorizzati privati a scapito del trasporto pubblico e della mobilità gentile. Perché non si usano invece quei fondi per ristrutturare l’acquedotto? Purtroppo ieri con il Pd, ed oggi con la Lega e i suoi alleati, il problema rimane il medesimo: si considera il territorio in funzione della grande opera di turno anziché il contrario. Non si fanno le opere perché servono, ma perché vanno fatte, e il territorio, con le sue fragilità e la sua bellezza si deve adeguare, costi quel che costi». Come spesso sul piano nazionale, anche su quello dei governi locali, più che trovarsi di fronte ad un cambiamento non condivisibile si tratta di riconoscere che non c’è nessun vero cambiamento: la visione (o meglio l’assenza di ogni visione) rimane purtroppo la stessa.
Naturalmente i dettagli e la retorica sono diversi: e se possibile peggiori. La stessa giunta leghista pisana, per esempio, ha deciso di riportare le bancarelle in Piazza dei Miracoli: un progetto che prevede la chiusura della Porta Nuova di Cosimo de’ Medici e l’oscuramento dello Spedale di Alessandro IV, fondale meridionale della piazza appena restituito alla città dopo un restauro di cinque anni. Da quando la piazza è stata inserita nella lista dei beni dell’umanità stilata dall’Unesco (era il 1987) le bancarelle hanno dovuto traslocare: e francamente nessuno sentiva la mancanza delle migliaia di piccole torri pendenti di plastica, che possono benissimo essere vendute a qualche metro di distanza dalla Torre vera. Eppure l’assessore alle Attività produttive della giunta di destra le rivuole proprio lì, quelle bancarelle: in barba ai vincoli, alle leggi, al buon senso. L’argomentazione è mirabile: quella paccottiglia globale rappresenterebbe «il nostro commercio tradizionale, identitario». La retorica identitaria del ‘prima gli italiani’ (o i pisani, nel caso) gioca brutti scherzi: la nostra identità collettiva sarebbe legata ai souvenir made in China! E non, semmai, al rispetto dei monumenti, alla bellezza pubblica di una delle piazze più straordinarie del mondo, o al limite ad un mercato di prodotti agricoli a chilometro zero. Personalmente, non avrei nulla da dire – poniamo – su un ritorno perfino di un mercato del pesce all’ombra di quei candidi monumenti: se per avventura ve ne fosse attestata la presenza storica. Perché non si tratta di trasformare le nostre piazze storiche in pettinati salotti, o in equivalenti a cielo aperto delle sale di un museo. Al contrario, devono essere attraversate dalla vita quotidiana delle comunità: ma trasformarle in tristi outlet del merchandising per turisti che troviamo identico in ogni aeroporto del globo vuol dire ucciderle, non farle vivere. Tra acquedotti smontabili e identità di plastica la situazione è grave. Ma, come sempre, non è seria.