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Ecco perchè il Governo ha impugnato la Legge regionale del Lazio “Disposizioni per la semplificazione”

Cartografia Lazio sistemi e ambiti di paesaggio(25 gennaio 2019) Sono pubblicate sul sito del Governo le motivazioni in base alle quali  con 21-12-2018  è stata  impugnata davanti alla Corte Costituzionale la  Legge della Regione Lazio n.7 del 22-10-2018 “Disposizioni per la semplificazione e lo sviluppo regionale”. Si tratta di dodici punti, dei quali ben 4  riguardano ricadute su aree protette, forestali e agricole.  Proponiamo  una lettura delle argomentazioni giuridiche per “promuovere la questione di legittimità costituzionale della legge regionale in esame dinanzi alla Corte Costituzionale,  a pochi giorni di stanza da un incontro organizzato da varie associazioni rappresentanti  “realtà produttive” del Lazio con i consiglieri regionali, per proporre “alcuni indirizzi fondamentali su cui impostare la modifica del PTPR adottato che sarà oggetto di prossima discussione in Consiglio Regionale”. Allarmistico titolo dell’evento “NEL LAZIO SI RISCHIA UN’INVOLUZIONE ECONOMICA E SOCIALE e fin dall’invito (scarica invito Territorio Roma ) si metteva in guardia da unavisione del paesaggio tesa a ingessare il territorio e ad inibire l’attuazione delle normative attraverso un uso estensivo ed improprio delle tutele e della vincolistica” , e si lamentava il “non aiuto” (all’economia) della “scelta del Governo di impugnare davanti alla Corte Costituzionale il riordino e la messa in coerenza di alcune normative su agricoltura e parchi previsti nella Legge Regionale 7/2018 riguardante la semplificazione e lo sviluppo regionale” precisando che  “Su tale questione è importante che la Regione difenda con forza e vigore la propria potestà legislativa” (scarica il documento consegnato  da Territorio Roma ai Consiglieri regionali del Lazio il 22 1 2019) (> Vai al resoconto di VAS Roma dell’incontro)

Potestà su cui si esprimerà, fortunatamente, la Corte Costituzionale.

Ecco la disamina governativa (i punti riguardanti aree protette agricole o altro patrimonio naturale sono 1-2-3 -7)

  • Dettaglio Legge Regionale Disposizioni per la semplificazione e lo sviluppo regionale. (22-10-2018)
  • Regione: Lazio Estremi: Legge n.7 del 22-10-2018 Bur: n.86 del 23-10-2018
  • Settore: Politiche ordinamentali e statuti
  • Delibera C.d.M. del: 21-12-2018 / Impugnata

Con la legge in esame, la Regione Lazio intende dettare disposizioni di semplificazione normativa nell’ambito delle materie di competenza regionale.

Tuttavia, la legge regionale è censurabile per le seguenti motivazioni:

– 1) L’articolo 5, comma 1, numero 2, lett. g), della Lr. n. 7 del 2018, nel modificare il comma 4 dell’articolo 26 (Piano dell’area naturale protetta), della l.r. n. 29 del 1997, prevede che:
“4. Il piano adottato ai sensi dei commi precedenti è depositato per quaranta giorni presso le sedi degli enti locali interessati e della Regione. L’ente di gestione provvede, con apposito avviso da pubblicare su un quotidiano a diffusione regionale, a dare notizia dell’avvenuto deposito e del relativo periodo. Durante questo periodo chiunque può prenderne visione e presentare osservazioni scritte all’ente di gestione, il quale esprime il proprio parere entro i successivi trenta giorni e trasmette il parere e le osservazioni alla Giunta regionale. Entro tre mesi dal ricevimento di tale parere la Giunta regionale, previo esame, da effettuarsi entro il limite di tre anni, della struttura regionale competente in materia di aree naturali protette, apporta eventuali modifiche ed integrazioni, pronunciandosi contestualmente sulle osservazioni pervenute e ne propone al Consiglio regionale l’approvazione. Trascorsi tre mesi dall’assegnazione della proposta di piano alla commissione consiliare competente, la proposta è iscritta all’ordine del giorno dell’Aula ai sensi dell’articolo 63, comma 3 del regolamento dei lavori del Consiglio regionale. Il Consiglio regionale si esprime sulla proposta di piano entro i successivi centoventi giorni, decorsi i quali il piano si intende approvato”.
Tale modifica, nel porre una tempistica certa all’iter di approvazione dello strumento pianificatorio, consente lo svolgimento delle attività istruttorie di esame e valutazione dello stesso da parte del Consiglio Regionale, ma lascia alla Giunta regionale, la possibilità – trascorsi i termini – di pervenire all’approvazione, introducendo, di fatto, un vero e proprio meccanismo procedurale di silenzio assenso che si pone in contrasto con le disposizioni specifiche stabilite dal legislatore statale con la legge n. 394 del 1991 all’articolo 25, comma 2, laddove è espressamente previsto che il “piano per il parco è adottato dall’organismo di gestione del parco ed è approvato dalla regione”..
In virtù della disposizione previste dall’articolo 25 della legge quadro sulle aree protette il Piano del parco deve dunque essere approvato formalmente dalla regione, con la conseguenza che il neointrodotto meccanismo del silenzio assenso disattende, di fatto, tale previsione normativa, ponendosi in violazione dei principi fondamentali individuati dal legislatore statale in nonna primaria.
Infatti, come ripetutamente statuito dalla Corte Costituzionale con le sentenze: n. 315 e n. 193 del 2010, n. 44, n, 269 e n. 325 del 2011, n. 14 del 2012, n. 212 del 2014 e n. 36 del 17 febbraio 2017, la disciplina delle aree protette rientra nella competenza esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente» ex art. 117, secondo comma, lettera s), ed è contenuta nella legge n. 394 del 1991 che detta i principi fondamentali della materia, ai quali la legislazione regionale è chiamata ad adeguarsi, assumendo anche i connotati di normativa interposta.
La stessa Corte costituzionale nell’ambito di diversi pronunciamenti (sentenza n. 408 del 1995) fa salva la previsione del silenzio-assenso in riferimento ad attività amministrative nelle quali sia pressoché assente il tasso di discrezionalità, mentre non ritiene possibile la trasposizione di tale modello nei procedimenti ad elevata discrezionalità nell’ambito dei quali si può certamente sussumere quello di adozione del piano del parco previsto all’articolo 25, comma 2 della legge n. 394 del 1991.
Tale assunto sancito dalla Corte viene rafforzato proprio dalla vigenza del principio opposto che esige la pronuncia esplicita dell’Amministrazione competente, atteso che l’istituto del silenzio-assenso è ammissibile in riferimento ad attività amministrative nelle quali sia pressoché’ inesistente il tasso di discrezionalità.
In sostanza il legislatore (supportato dalla giurisprudenza costituzionale e amministrativa) è stato in passato molto cauto nel disciplinare la possibile formazione di autorizzazioni tacite, tanto che oggi ha generalmente limitato il ricorso a procedure di silenzio-assenso in special modo in campo ambientale (cfr. art. 20 della legge n. 241 del 1990).
Il meccanismo, pertanto, di formazione tacita dell’atto di assenso strictu sensu considerato, oltre che non cautelativo sotto il profilo del contemperamento degli interessi ambientali in gioco, non può prescindere da un soppesato e coerente apparato motivazionale che, in ossequio al principio di buon andamento dell’amministrazione, necessariamente dovrà tradursi in una manifestazione espressa dell’amministrazione.
Ne consegue che il procedimento di approvazione del Piano dell’area protetta (principale strumento di governo del territorio delle aree naturali protette) attraverso il meccanismo del silenzio assenso introdotto con l’articolo 5 lettera g), punto 2) e 3) della legge regionale 22 ottobre 2018, n. 7, viola le disposizioni della n. 394 del 1991 (art. 25, comma 2), ponendosi in contrasto con l’art. 97 Cost. per il mancato rispetto del principio di buon andamento dell’amministrazione per i profili dianzi accennati, nonché con l’art. 117, secondo comma, lettera s) Cost., ovvero con i livelli minimi uniformi previsti dalla legislazione statale nell’esercizio della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente.

– 2) Il successivo punto i) del comma 1 dell’articolo 5 della l.r. n. 7 del 2018, introduce all’articolo 31 (Sviluppo delle attività agricole) della Lr.29 del 1997 il seguente comma 1 bis:
“1” bis. Sono consentiti e non rientrano negli obblighi di cui all’articolo 28 le ricorrenti pratiche di conduzione delle aziende agricole che non comportino modificazioni sostanziali del territorio ed in particolare:
a) la manutenzione ordinaria del sistema idraulico agrario e del sistema infrastrutturale aziendale esistenti;
b) l’impianto o I ‘espianto delle colture arboree e le relative tecniche utilizzate;
c) l’utilizzo delle serre stagionali non stabilmente infisse al suolo;
d) il transito e la sosta di mezzi motorizzati fuori dalle strade statali, provinciali, comunali, vicinali gravate dai servizi di pubblico passaggio e private per i mezzi collegati all’esercizio delle attività agricole di cui al presente articolo;
e) l’ordinamento produttivo ed i relativi piani colturali promossi e gestiti dall’impresa agricola;
f) la raccolta e il danneggiamento della flora spontanea derivanti dall’esercizio delle attività aziendali di cui all’articolo 2 della L. r. 14/2006”.
Il suddetto comma prevede l’esclusione dall’obbligo del nulla osta di cui all’art. 28 di una serie di interventi e attività che possono arrecare impatti, anche notevoli, sull’ambiente naturale, consentendo la relativa realizzazione/svolgimento in tutte le zone dell’area protetta, anche in zona A di riserva integrale, senza stabilire alcuna modalità dì verifica e controllo sugli stessi.
Tale previsione si pone in contrasto con l’art. 13 della legge 394 del 1991 che prevede il rilascio di nullaosta da parte del soggetto gestore per le attività e gli interventi consentiti in area protetta, al fine di verificare la loro coerenza con la disciplina di tutela, o con gli strumenti di pianificazione e regolamentari ove vigenti, e la loro sostenibilità ambientale rispetto alle finalità istitutive, violando, pertanto l’articolo 117, comma 2, lett. s) della Costituzione. Lo stesso art. 13 è d’altra parte correttamente richiamato come riferimento normativo dall’art. 28, comma 1, della legge in esame.

– 3) L’articolo 5, comma 1, lett. i), punto 7, della l.r. n. 7 del 2018, reca talune modifiche al comma 2bis dell’articolo 31 (Sviluppo delle attività agricole) della L.r. 29 del 1997, che assume la seguente formulazione:
“2bis. Per favorire lo svolgimento delle attività di cui al presente articolo i soggetti di cui all’articolo 57 e 57bis della I. r. 38/1999 possono presentare il PUA, redatto secondo le modalità ivi previste, nel rispetto delle forme di tutela di cui alla presente legge. Il PUA redatto secondo le modalità della Lr. 38/1999, previa indicazione dei risultati che si intendono perseguire, può prevedere la necessità di derogare alle previsioni del piano dell’area naturale protetta redatto ai sensi dell’articolo 26, comma 1, lettera f) ad esclusione delle normative definite per le zone di riserva integrale”.
Il comma di cui sopra, come modificato, consente che il PUA possa derogare alle previsioni del piano dell’area protetta, con ciò ponendosi in contrasto con l’art. 25, comma 2, della legge n. 394 del 1991, secondo il quale il piano dell’area protetta regionale, con valore anche di piano paesistico e urbanistico, “sostituisce i piani paesistici e i piani territoriali o urbanistici di qualsiasi livello”.
Né vale, al superamento di tale contrasto, la previsione di cui al successivo comma 2 ter) che prevede, per l’approvazione del PUA, che sia acquisito in Conferenza di Servizi il parere dell’ente gestore dell’area protetta, in quanto tale strumento non è comparabile, e dunque non può essere sostitutivo, della complessa e partecipata procedura tecnico-amministrativa prevista per l’approvazione del piano dell’area protetta dalla legge n. 394 del 91, nonché dalla stessa legge in esame, all’art. 26, commi 2, 3 e 4.
Alla luce di quanto fin qui rappresentato e del quadro normativo eurounitario e statale in cui si colloca la tutela delle specie oggetto della disposizione censurata, si rileva il contrasto della norma regionale con il secondo comma, lettera s), dell’art. 117 Cost., poiché tendente a ridurre in peius i livelli minimi uniformi di tutela previsti dalla legislazione statale nell’esercizio della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente.

Al riguardo, si evidenzia che come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale, la legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette) deve considerarsi, (sentenze n. 44 del 2011, n. 315 e n. 20 del 2010), espressione dell’esercizio della competenza esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
Le regioni, pertanto, in ambito di aree protette, possono soltanto determinare maggiori livelli di tutela, ma non derogare alla legislazione statale (sono citate le sentenze n. 44 del 2011, n. 193 del 2010, n. 61 del 2009 e n. 232 del 2008).
In particolare, la giurisprudenza costituzionale ha chiarito come “il territorio dei parchi, siano essi nazionali o regionali; ben (possa) essere oggetto di regolamentazione da parte della Regione, in materie riconducibili ai commi terzo e quarto dell’art. 117 Cost., purchè in linea con il nucleo minimo di salvaguardia del patrimonio naturale, da ritenere vincolante per le Regioni” (sentenze nn.rr. 232 del 2008, punto 5. del Considerato in diritto e 44 del 2011 già citata).
Nell’ambito, quindi, delle materie di loro competenza, le Regioni trovano un limite negli standard di tutela fissati a livello statale. Questi, tuttavia, non impediscono al legislatore regionale di adottare discipline normative che prescrivano livelli di tutela dell’ambiente più elevati (di recente, sentenze n. 66 del 2018, n. 74 del 2017, n. 267 del 2016 e n. 149 del 2015), i quali «implicano logicamente il rispetto degli standard adeguati e uniformi fissati nelle leggi statali» (sentenza n. 315 del 2010).
La legge quadro n. 394 del 1991 è stata reiteratamente ricondotta dalla giurisprudenza costituzionale alla materia «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» (da ultimo, sentenze n. 74 e n. 36 del 2017): ai principi fondamentali da essa dettati, dunque, le Regioni sono tenute ad adeguarsi, pena l’invasione di un ambito materiale di esclusiva spettanza statale.
La stessa Corte Costituzionale ha altresì posto in evidenza come lo standard minimo uniforme di tutela nazionale si estrinsechi nella predisposizione da parte degli enti gestori delle aree protette «di strumenti programmatici e gestionali per la valutazione di rispondenza delle attività svolte nei parchi alle esigenze di protezione» dell’ambiente e dell’ecosistema (sentenza n. 171 del 2012; nello stesso senso, le sentenze n. 74 del 2017, n. 263 e n. 44 del 2011, n. 387 del 2008).
Sono dunque il regolamento (art. 11) e il piano per il parco (art. 12), nonché le misure di salvaguardia adottate nelle more dell’istituzione dell’area protetta (artt. 6 e 8), gli strumenti attraverso i quali tale valutazione di rispondenza deve essere compiuta a tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.
La più volte menzionata n. 394 del 1991 non si limita, dunque, a dettare standard minimi uniformi atti a tutelare soltanto i parchi e le riserve naturali nazionali – istituiti ai sensi dell’art. 8 della legge quadro (rispettivamente, con decreto del Presidente della Repubblica e con decreto del Ministro dell’ambiente) – ma impone anche un nucleo minimo di tutela del patrimonio ambientale rappresentato dai parchi e dalle riserve naturali regionali, che vincola il legislatore regionale nell’ambito delle proprie competenze (sentenze n. 74 e n. 36 del 2017, n. 212 del 2014, n. 171 del 2012, n. 325, n. 70 e n. 44 del 2011).
Anche in relazione alle aree protette regionali, invero, il legislatore statale ha predisposto un modello fondato sull’individuazione del loro soggetto gestore, ad opera della legge regionale istitutiva (art. 23), sull’adozione, «secondo criteri stabiliti con legge regionale in conformità ai principi di cui all’articolo 11, di regolamenti delle aree protette» (art. 22, comma 1, lettera d, peraltro significativamente ed espressamente ricompreso tra i «princìpi fondamentali per la disciplina delle aree naturali protette regionali»), nonché su un piano per il parco tramite il quale siano attivate le finalità del parco naturale regionale (art. 25).
Per altro verso, può senz’altro riconoscersi che il legislatore statale ha previsto, per le aree naturali protette regionali, un quadro normativo meno dettagliato di quello predisposto per le aree naturali protette nazionali, tale che le Regioni abbiano un qualche margine di discrezionalità tanto in relazione alla disciplina delle stesse aree protette regionali quanto sul contemperamento tra la protezione di queste ultime e altri interessi meritevoli di tutela da parte del legislatore regionale.
Ciò non toglie, tuttavia, che l’esistenza di un regolamento e di un piano dell’area protetta, cui devono conformarsi le attività svolte all’interno del parco o della riserva, oltre che costituzionalmente necessarie, devono garantire la conforme corrispondenza ai canoni previsionali inderogabili imposti dalla normativa nazionale, essendo manifestazione di quello standard minimo di tutela che il legislatore statale ha individuato nell’esercizio della propria competenza esclusiva in materia di «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» e che, come dianzi già posto in rilievo, le Regioni possono accompagnare con un surplus di tutela, ma non, appunto, derogare in peius.

– 4) L’articolo 20 si ingerisce nella sfera di competenza statale laddove prevede che il rilascio e il rinnovo della qualifica di guardia giurata ittica volontaria non siano preclusi nei confronti di coloro che hanno riportato condanne per reati puniti con la sola pena pecuniaria.
Infatti, ai sensi dell’articolo 31 del R.D. 1604 del 1931, gli agenti giurati addetti alla sorveglianza sulla pesca nelle acque interne, ai fini del riconoscimento della nomina, devono possedere i requisiti previsti dall’articolo 138 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza per le guardie particolari giurate. E tale disposizione prevede, tra gli altri, il requisito del “non avere riportato condanna per delitto”. Pertanto, la suddetta previsione regionale contrasta con la citata disciplina statale, atteso che la pena pecuniaria comminata per un reato potrebbe essere una multa, ossia la sanzione penale prevista per le fattispecie che configurano ipotesi delittuose.
Tale disposizione viola l’articolo 117, 2° comma, lett. h), Cost. in materia di ordine pubblico e sicurezza.

– 5) L’articolo 32, in base al quale il Comune può stabilire limiti e condizioni agli orari di apertura e chiusura dei pubblici esercizi “per gravi e urgenti motivi relativi all’ordine pubblico, alla sicurezza”.
A riguardo, si precisa che il decreto legge n. 14/2017, convertito con modificazioni in legge n. 48/2017 – modificando l’articolo 50, comma 5, del TUEL (d.lgs. N. 267/2000)- pur consentendo al Sindaco di intervenire (con ordinanza contingibile e urgente) in materia di orari di vendita, introduce tale facoltà esclusivamente per i casi di “urgente necessita di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti”, senza fare alcun riferimento alla tutela dell’ordine pubblico e alla sicurezza, prerogativa precipua delle autorità dì pubblica sicurezza.
Pertanto, tale disposizione si pone in contrasto con la normativa statale citata e viola l’articolo 117, 2° comma, lett. h), Cost. in materia di ordine pubblico e sicurezza.

– 6) La norma di cui all’articolo 79 prevede interventi regionali anche a favore di soggetti alle vittime di estorsione, stabilendo però che “la struttura regionale competente comunica all’ufficio del Governo competente in materia di iniziative antiracket ed antiusura gli indennizzi concessi ai sensi del presente articolo “.
La normativa statale di cui alle le leggi n.44/1999 e n. 108/1996 in materia di attività di contrasto e al fine di incrementare le denunce in materia di estorsione e di usura, prevede l’istituzione del Comitato di solidarietà per le vittime dell’estorsione e dell’usura, incardinato presso il Ministero dell’Interno. La legge 23 febbraio 1999, n.44 stabilisce, all’art.1 che “ai soggetti danneggiati da attività estorsive è elargita una somma di denaro a titolo di contributo al ristoro del danno patrimoniale subito, nei limiti e alle condizioni stabiliti dalla presente legge”.
Per quanto concerne l’usura, la legge n. 108/1996 prevede la concessione in favore delle vittime di un mutuo senza interessi da restituire in rate decennali. E’ utile altresì specificare che, ai sensi della legge di conversione 12 novembre 1999, n. 414, è sancita, all’art. 12, comma 1 bis, la non cumulabilità con precedenti risarcimenti o rimborsi a qualunque titolo da parte di altre amministrazioni pubbliche ed è prevista, all’art. 16, comma 2 bis, la revoca totale o parziale, dell’elargizione al sopravvenire di tale risarcimento o rimborso ovvero di un rimborso assicurativo. Infatti, le citate norme statali sono essenzialmente dirette a scongiurare ogni possibile sovrapposizione rispetto ad analoghi benefici eventualmente previsti dalle legislazioni regionali a favore delle vittime del racket.
Pertanto, la disposizione regionale crea una duplicazioni di benefici a ristoro del medesimo evento dannoso, violando il principio del buon andamento dell’azione amministrativa della pubblica amministrazione di cui all’art.97 della Costituzione e in violazione dell’articolo 117, secondo comma lettera h) in materia di ordine pubblico e sicurezza.
Tuttavia, allo scopo di scongiurare tale duplicazione e garantire il migliore coordinamento, nell’ottica della cooperazione tra Stato e Regione, occorrerebbe che le attribuzioni regionali venissero individuate nella realizzazione degli interventi, peraltro già stabiliti, quali, ad esempio, le azioni di sostegno psicologico, di assistenza e tutela in favore di vittime o potenziali vittime, comprensivi di consulenza aziendale finalizzata al miglioramento della gestione economico-finanziaria dell’impresa volta a consentire l’accesso al credito ordinario, la promozione e il sostegno dell’associazionismo di settore, la promozione di attività di comunicazione e pubblicazione sui servizi offerti alle famiglie e alle piccole aziende, la promozione di studi, ricerche, attività sensibilizzazione sui temi in argomento.

– 7) L’art. 3 (“Modifiche alle leggi regionali 28 ottobre 2002, n. 39 ‘Norme in materia di gestione delle risorse forestali’ e successive modifiche e alla legge regionale 13 febbraio 2009, n. 1 ‘Disposizioni urgenti in materia di agricoltura’. Elenco dei soggetti assegnatari di terreni ARSIAL”) che com’è noto afferisce alle materie del governo e la tutela del territorio e la protezione civile.
Il comma 1 di tale disposizione inserisce nella legge regionale n. 39/2002 (“Norme in materia di gestione delle risorse forestali’”), l’art. 67-bis (“Ricostituzione dei soprassuoli percorsi da incendio’), che consente su tali soprassuoli, nel rispetto dell’art. 10 della legge n. 353/2000 (Legge quadro in materia di incendi boschivi), interventi privati a carattere silvicolturale o di ingegneria naturalistica, precisando che, nei primi quindici mesi dall’evento calamitoso, quegli interventi che non prevedano l’impiego di risorse finanziarie pubbliche possono essere realizzati previa comunicazione, senza l’autorizzazione di cui all’art. 45 della stessa legge regionale n. 39/2002, contenente la disciplina delle utilizzazioni forestali e che rinvia al regolamento forestale in ordine alle modalità con cui procedere a tali utilizzazioni.
In proposito, non è dato comprendere la ratio di tale previsione atteso che il richiamo alla normativa regionale n. 39/2002 non è coerente alla fattispecie normata dalla legge in parola. Infatti, la legge 39/2002 inerisce a situazioni afferenti all’ordinarietà e non, come nel caso di specie, a territori percorsi dal fuoco. A tale proposito si evidenzia che la legge n. 353/2000, che è normativa di principio ossia norma interposta rilevante nel caso di specie, prevede che le Regioni oltre alle attività di previsione, prevenzione e lotta attiva effettuano anche un controllo delle operazioni ivi poste in essere successivamente agli episodi di incendio al fine di evitare che interventi non idonei possano pregiudicare la ricostituzione del soprassuolo percorso dal fuoco evitando, altresì, operazioni di speculazione.
Inoltre, non è dato comprendere la ragione della previsione afferente ai primi 15 mesi atteso che dalla formulazione della norma parrebbe che per gli stessi interventi a decorrere dal periodo successivo sia necessario acquisire tale autorizzazione.
Altresì, la normativa dovrebbe prevedere una clausola di salvaguardia per le situazioni che afferiscano ad aree che siano contermini a parchi naturalistici, riserve nazionali o regionali e/o zps, nonché per situazioni ove siano riscontrabili aree di rischio idrogeologico. A tale proposito corre l’obbligo di evidenziare che i confini giuridici delle aree interessate spesso e volentieri non corrispondono alle caratteristiche di rischio e di conseguente necessità di salvaguardia necessarie per i terreni percorsi dal fuoco. In tali contesti l’autorizzazione costituisce, e ciò è chiaramente esposto nella citata legge 353 del 2000, un mezzo per veicolare correttamente gli interventi privati allo scopo di preservare le aree in parola e di salvaguardare l’incolumità pubblica.
Ove la ragione della norma regionale, pertanto, risieda in una esigenza di semplificazione (ma ciò allo stato non è dato sapere) potrebbe valutarsi un diverso percorso che porti a bilanciare entrambe le esigenze di salvaguardia e di semplificazione. Ciò tanto più ove si abbia riguardo alla circostanza per cui la normativa regionale pare innestarsi su altra sempre territoriale afferente all’assegnazione a soggetti privati di terreni pubblici.
Peraltro, l’art. 10 della legge n. 353/2000 (“Divieti, prescrizioni e sanzioni”), al comma 1, quarto periodo, stabilisce che “sono vietate per cinque anni, sui predetti soprassuoli, le attività di rimboschimento e di ingegneria ambientale sostenute con risorse finanziarie pubbliche, salvo specifica autorizzazione concessa dal Ministro dell’ambiente, per le aree naturali protette statali, o dalla regione competente, negli altri casi, per documentate situazioni di dissesto idrogeologico e nelle situazioni in cui sia urgente un intervento per la tutela di particolari valori ambientali e paesaggistici”. La legge nazionale quindi, a prescindere dalla presenza di risorse pubbliche, chiede sempre alle Regioni di rilasciare i doverosi atti autorizzatori.
La norma risulta contrastare con la Legge n. 353/2000 nonché l’art. 117, comma 3, della Costituzione, che attribuisce la materia relativa al governo del territorio e quella della protezione civile alla competenza concorrente delle Regioni. Con la formula della potestà concorrente la Costituzione stabilisce un riparto delle competenze in base al quale “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”.
Pertanto, l’attività legislativa regionale non si connota mai come funzione delegata, ma quale produzione normativa autonoma ed originale nel quadro e nel contesto dei principi fondamentali della materia dettati dalla legislazione nazionale oltre, ovviamente, ai principi di non contraddittorietà che devono informare in linea generale tutta la produzione normativa e statale e regionale.

– 8) L’art. 5 (“Modifiche alle leggi regionali 6 ottobre 1997, n. 29 ‘Norme in materia di aree naturali protette regionali’, 13 gennaio 2005, n. 1 ‘Norme in materia di polizia locale’ e 22 dicembre 1999, n. 38 ‘Norme sul governo del territorio’, e successive modifiche”). disciplina aspetti connessi alla ricostruzione nei territori dell’Italia Centrale dagli eventi sismici dell’agosto 2016 e del 2017.
Il comma 6, lett. c), di tale disposizione inserisce nella legge regionale n. 38/1999 (“Norme sul governo del territorio”), di seguito all’art. 57 (“Piani di utilizzazione aziendale”) ed all’art. 57-bis (“PUA per le attività integrate e complementari”), un nuovo art. 57-ter (“Definizione di edifici legittimi esistenti”), il cui comma 1 stabilisce che, per le finalità dei predetti artt. 57 e 57-bis, per edifici legittimi esistenti “si intendono anche quelli realizzati in assenza di titolo abilitativo in periodi antecedenti alla data di entrata in vigore della legge 6 agosto 1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150) ovvero che siano stati oggetto di accertamento di conformità, da parte dei responsabili dell’abuso, ai sensi degli articoli 36 e 37 del d.p.r. 380/2001”.
Ai sensi dell’art. 2 del d.P.R. n. 380/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), le Regioni hanno potestà legislativa concorrente in materia edilizia, da esercitarsi nei limiti dei principi fondamentali desumibili dalle disposizioni contenute nel testo unico stesso, che contengono una disciplina molto articolata e dettagliata.
Fra tali principi, come codificati dalla giurisprudenza costituzionale, i più rilevanti concernono la gradualità dei titoli abilitativi indicati nel medesimo testo unico, con il conseguente divieto di introdurne di diversi ed ulteriori; l’inderogabilità della disciplina per l’attività edilizia in assenza di pianificazione urbanistica (art. 9); la definizioni delle categorie di interventi edilizi previste all’art. 3, con particolare riguardo alla distinzione fra le ipotesi di ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione, e di ristrutturazione edilizia pesante, da un lato, e le ipotesi di ristrutturazione edilizia leggera e degli altri interventi (restauro e risanamento conservativo, manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria) dall’altro (Corte cost. 23.1.2011 n. 309).
Ulteriori ambiti di autonomia regionale sono stati riconosciuti dal decreto-legge 13.06.2013 n. 69, convertito con la legge 09.08.2013 n. 98 (c.d. decreto del Fare), che, aggiungendo al testo unico l’art. 2-bis, ha previsto che le Regioni possano stabilire – con leggi e regolamenti – disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968 n. 1444, potendo cioè disciplinare i limiti della densità edilizia, dell’altezza, della distanza fra fabbricati e potendo dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali.
Ora, ai sensi degli artt. 36 e 37 del d.P.R. n. 380/2001, richiamati nella novella regionale, fino all’irrogazione delle prescritte sanzioni amministrative, il responsabile dell’abuso edilizio o l’attuale proprietario dell’immobile, in caso di interventi realizzati in assenza del permesso di costruire o in difformità o in assenza o in difformità della D.I.A. e dell’accertamento di conformità, possono conseguire il permesso in sanatorio (c.d. accertamento in conformità), qualora l’intervento abusivo risulti conforme alla disciplina edilizia ed urbanistica vigente al momento di realizzazione del medesimo e al momento di presentazione della relativa istanza, secondo il principio della doppia conformità.
L’attribuzione della qualifica legale, da parte della legge regionale in commento, di “edificio legittimo esistente” ai manufatti per i quali si siano verificate le testé descritte condizioni, ancorché per le sole finalità connesse ai piani di utilizzazione aziendale in agricoltura ed ai piani di utilizzazione agronomica (PUA) per le attività integrate e complementari, potrebbe far scaturire dubbi sulla conformità della previsione ai predetti principi fondamentali della materia e sulla effettiva consentibilità di tale qualificazione in sede di autonomia regionale.
Tale disposizione contrasta con la legislazione statale sopra richiamata e viola l’art. 117, comma 3, della Costituzione, che attribuisce la materia relativa al governo del territorio e quella della protezione civile alla competenza concorrente delle Regioni.

– 9) L’art. 24 (“Misure urgenti in favore delle aree colpite dagli eventi sismici del 2016. Modifiche alla legge regionale 22 dicembre 1999, n. 39 ‘Norme sul governo del territorio’ e successive modifiche”) disciplina aspetti connessi alla ricostruzione nei territori dell’Italia Centrale dagli eventi sismici dell’agosto 2016 e del 2017.
Ai sensi dei commi da 1 a 8 di tale disposizione, nei comuni di cui agli allegati 1 e 2 del decreto-legge n. 189/2016, che presentino una percentuale superiore al cinquanta per cento di edifici dichiarati inagibili con esito E rispetto agli edifici esistenti alla data dell’evento sismico, ai proprietari di immobile dichiarato inagibile, è consentita l’installazione di strutture temporanee ed amovibili, sul medesimo sito o su altro terreno di proprietà ubicato nello stesso comune con qualsiasi destinazione urbanistica, senza necessità di alcun titolo abilitativo ad eccezione della previa autorizzazione comunale; la finalità della previsione è “scongiurare fenomeni di abbandono del territorio”.
In effetti, il decreto-legge n. 189/2016, al Capo I-bis “Strutture provvisorie di prima emergenza”, ed in particolare, all’art. 4-bis “Disposizioni in materia di strutture e moduli abitativi provvisori” aveva già recato una apposita disciplina per individuare soluzioni che consentissero, “nelle more della fornitura di diverse soluzioni abitative, un’adeguata sistemazione alloggiativa delle popolazioni, in un contesto comprensivo di strutture a supporto che garantissero il regolare svolgimento della vita della comunità locale, assicurando anche il presidio di sicurezza del territorio”, e ciò con la finalità di fronteggiare l’aggravarsi delle esigenze abitative nei territori delle Regioni Lazio, Marche, Umbria e Abruzzo colpite dagli eventi sismici.
Stante la normativa emergenziale dettata a livello nazionale per la ricostruzione dei territori colpiti dagli eventi sismici iniziati il 24.08.2016, la correlata disciplina regionale può intervenire esclusivamente quale corollario di quest’ultima ove si renda necessario completare la disciplina recata a livello statale. Infatti, alla luce del perdurante stato di emergenza, gli eventi calamitosi di cui si è detto assurgono ad un livello sovraregionale che ne testimonia l’interesse nazionale in quanto incidente su interessi e pubblici e collettivi di più ampia portata rispetto a quelli afferenti al territorio regionale, la normativa regionale appare quindi ultronea e foriera di contraddittorie interpretazioni in merito alla normativa applicabile analogamente alla legge della Regione Umbria del 2018.
Ai sensi poi del comma 9 dell’art. 24 della legge regionale n. 7/2018, nel corpo della sopra richiamata legge regionale n. 38/1999 viene introdotto un nuovo art. 49-bis (“Progetti di ricostruzione nei territori colpiti dal sisma”), il cui comma 2, lett. b), inserisce un nuovo comma 3-ter all’art. 55; in forza di tale nuovo comma, ai fini della ricostruzione degli edifici legittimi o legittimati, esistenti alla data del sisma nelle zone agricole dei comuni delle Regioni colpite dal sisma, sono consentiti gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportano modificazioni della sagoma, di cui all’art. 3, comma 1, lett. e) e dell’art. 10, comma 1, lett. c) del d.P.R. n. 380/2001.
In effetti, il già richiamato decreto-legge n. 69/2013, all’art. 30, ha modificato il testo unico sull’edilizia anche per quanto attiene al rispetto della sagoma negli interventi di ristrutturazione, che è stato abolito dal provvedimento; in base alle modifiche introdotte, per gli interventi di demolizione e ristrutturazione e per le varianti a permesso di costruire, concernenti immobili situati all’interno delle parti storiche degli insediamenti urbani, l’operatività della disposizione sul rispetto della sagoma è condizionata ad una delibera comunale che indichi le aree in cui non è utilizzabile la S.C.I.A., ma è comunque richiesto il permesso di costruire.
La circostanza che l’innovazione legislativa contenuta nella legge regionale in commento si riferisca alle zone agricole, e non a quelle urbane, proprio per la ragione sopra esposta, ossia che a livello statale ciò è consentito solo per i centri storici, ingenera perplessità riguardo alla conformità al plesso costituzionale della novella regionale.
Tale disposizione contrasta con la legislazione statale sopra richiamata e viola l’art. 117, comma 3, della Costituzione, che attribuisce la materia relativa al governo del territorio e quella della protezione civile alla competenza concorrente delle Regioni.

-10) L’articolo 5 della legge in esame, al comma 1. punto 3, lett. h), introduce il comma 1-bis all’articolo 28 della legge regionale 29/1997 (recante “Norme generali e procedure di individuazione e di istituzione delle aree naturali protette, dei monumenti naturali e dei siti di importanza comunitaria”) stabilendo che “la richiesta per la realizzazione degli interventi di cui all’articolo 6 del D.P.R. 380/2001 è presentata allo sportello unico di cui all’articolo 5 del medesimo decreto. Per tali fattispecie, il nulla osta di cui al comma 1 è reso entro sessanta giorni dal ricevimento da parte dell’ente gestore della richiesta, decorsi inutilmente i quali il titolo abilitativo si intende reso”. Al riguardo, si propone di precisare che la richiesta che l’interessato deve presentare allo sportello unico edilizia (SUE) è volta esclusivamente a richiedere il nulla osta all’intervento poiché si tratta di un’area naturale protetta, mentre non riguarda anche la realizzazione in sé dell’intervento di edilizia libera, per il quale l’interessato non deve richiedere alcun titolo abilitativo.
Si segnala, inoltre, che, qualora si trattasse di un’attività di edilizia ‘produttiva”, per la stessa dovrebbe trovare applicazione quanto previsto dall’articolo 4, comma 6, del decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, n. 1690, ai sensi dei quale: “Salva diversa disposizione dei comuni interessati e ferma restando l’unicità dei canale di comunicazione telematico con le imprese da parte del SUAP, sono attribuite al SUAP le competenze dello sportello unico per l’edilizia produttiva”. D’altra parte, la stessa legge regionale in esame all’articolo 33, richiamando quanto già previsto dalla normativa statale di riferimento, prevede che sia il SUAP l’unico punto di accesso, quindi l’unico soggetto di riferimento per l’avvio e l’esercizio delle attività produttive.

-11) L’articolo 33 della legge in oggetto, al comma 1, lett. a), introduce l’articolo 4-bis alla legge regionale n. 33 del 1999 (“Disciplina relativa al settore commercio”). Il citato articolo 4-bis, al comma 3, prevede che: “AI fini della presentazione e verifica formale della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), i soggetti interessati possono avvalersi della agenzia per le imprese in conformità alle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 9 luglio 2010, n. 159”.
Orbene, non è chiaro cosa si intenda per “verifica formale” della SCIA da parte delle Agenzie per le imprese atteso che la verifica formale della SCIA, ai sensi dell’articolo 5, comma 4 dei d.P.R. n. 160 dei 2010, spetta esclusivamente al SUAP. All’Agenzia per le imprese è attribuita la funzione di rilascio di una semplice dichiarazione di conformità della SCIA comprensiva della verifica sia formale sia sostanziale “che costituisce titolo autorizzatorio per l’esercizio dell’attività e per l’avvio immediato dell’intervento dichiarato” (art. 6, d.P.R. n. 160 dei 2010). A ciò si aggiunga che il d.P.R. n. 159 del 2010 (“Regolamento recante i requisiti e le modalità di accreditamento delle agenzie per le imprese, a norma dell’articolo 38, comma 4. del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6agosto 2008, n. 133”), citato dalla disposizione in esame, non contiene alcuna menzione della verifica formale in capo alle Agenzie per le imprese, poiché concerne la sola disciplina dei requisiti per l’accreditamento delle stesse.

-12) L’articolo 84, comma 1, lett. b), introduce l’articolo 4-bis alla legge regionale n. 30 del 1998 (Disposizioni in materia di trasporto pubblico locale) prevedendo che: “L’inizio del servizio è subordinato alla preventiva segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) ( … ) presentata all’ente territoriale nel cui territorio il servizio è svolto, secondo i criteri di cui agli articoli 3 e 10. comma 2.” Nel merito, non si comprende il rinvio agli articoli 3 e 10, comma 2, della legge regionale 30/1998 relativi, rispettivamente, alla classificazione dei servizi di trasporto pubblico locale in comunali, provinciali e regionali e alle funzioni conferite al riguardo ai Comuni. In particolare, relativamente al riferimento all’articolo 3, si segnala che, in ogni caso, l’ente territoriale di competenza a cui deve essere presentata la SCIA è sempre il Comune; in merito al riferimento all’articolo 10, comma 2, si osserva che tale disposizione ha ad oggetto le funzioni conferite al Comune, relativamente ai servizi di linea comunali, il cui esercizio attiene a regimi amministrativi diversi dalla SCIA.

Tanto premesso, gli articoli 5, 33 e 84 di cui ai punti 10, 11 e 12, per le motivazioni sopra riportate, si pongono in contrasto con la rispettiva normativa statale citata nonché con l’articolo 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, che riserva alla legge statale la disciplina dell’ordinamento civile e con l’articolo 117, secondo comma, lettera m), atteso che la disciplina in materia di segnalazione certificata di inizio attività, ai sensi dell’articolo 29 , comma 2-ter della legge n. 241 dei 1990, attiene ai livelli essenziali delle prestazioni di cui alla citata lettera m).

Per quanto sopra esposto si ritiene, pertanto, di promuovere la questione di legittimità costituzionale della legge regionale in esame dinanzi alla Corte Costituzionale.

 

 

 

 

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