Carlo Cellamare: Poesia sociale a Roma
Autore : Redazione
Il gesto del Cardinale “elettricista” che ha riattivato la corrente e ridato la luce a un palazzo occupato da centinaia di persone nel centro di Roma, ha riacceso anche il dibattito sulle occupazioni abusive, fenomeno legato all’emergenza abitativa (“emergenza” ormai cronica) ma, in molti casi, anche alla (ri)appropriazione di spazi in disuso e alla loro restituzione al patrimonio collettivo. Tema complesso su cui Carteinregola intende promuovere un dibattito pubblico, ma che richiede anche un approfondimento dei tanti aspetti e delle tante realtà che ne fanno parte. Pubblichiamo un contributo di Carlo Cellamare, tratto dal libro “R/home” curato da Giorgio De Finis e Irene Di Noto( dicembre 2018), un “tour attraverso le occupazioni a scopo abitativo a Roma” che è “un viaggio tra storie di vite costruite con impegno in mezzo alle difficoltà, di solidarietà e di mutuo aiuto, di produzione di una visione del futuro, anzi di costruzione concreta di un futuro praticabile” (AMBM)
venerdì 24 maggio 2019 dalle 18 alle 20 Auditorium MACRO ASILO Roma Via Nizza 138 Carlo Cellamare | Riappropriazione di luoghi e autorganizzazione Praticare il futuro della città
Poesia sociale a Roma
Un viaggio attraverso l’impegno e le storie personali
di Carlo Cellamare*
Il tour attraverso alcune occupazioni a scopo abitativo di Roma in cui siamo stati coinvolti a luglio è stato un viaggio attraverso le grandi energie sociali che esprime la città. Alcune le conoscevo bene – penso soprattutto a Porto Fluviale e a Metropoliz cui sono particolarmente affezionato – altre ho avuto modo di conoscerle in questa occasione.
E’ stata una doccia di impegno, coinvolgimento, voglia di costruire nonostante le difficoltà che, in una città colpita dalla sfiducia, dall’abbandono da parte della politica e delle istituzioni, dai progetti e dalle politiche inattuate, dai grandi problemi irrisolti, costituiscono una grande ricchezza, un segno di speranza, uno stimolo a reagire e a fare del proprio meglio, a riprendersi in mano la propria città e il proprio futuro. Ancor più questo avviene dentro una dinamica di solidarietà, di accoglienza, di costruzione di relazioni nella diversità, e senza nascondersi le ambiguità, i conflitti e le tensioni che attraversano queste esperienze.
E’ una dinamica che comporta grande forza e grande creatività all’interno delle enormi difficoltà che la città e i problemi sociali presenti comportano. Papa Francesco (2017), negli incontri con i movimenti popolari della Terra, ha chiamato “poeti sociali” le persone impegnate in questo grande sforzo di ricostruzione sociale e di riappropriazione dei luoghi di vita. Penso che non vi possa essere definizione migliore.
Per tanti versi, Roma sembra una balena spiaggiata. Affaticata e oppressa dai molti problemi che si sono accumulati negli anni, da una stratificazione che sembra essere diventata incancrenimento, da soluzioni e politiche che non trovano mai attuazione, dalle tante proposte, iniziative e progettualità che gli abitanti, singoli o organizzati, e le forze sociali hanno messo in campo ma non hanno trovato risposta e accoglienza o addirittura sono state osteggiate e bloccate, dall’accumulo di frustrazione, disillusione e sfiducia nelle istituzioni, la città esausta si è arenata. Scorrono le immagini che alle volte ci rimandano i media in queste occasioni. Sembra di vedere tanto affannarsi di persone intorno al povero cetaceo per rimetterlo in mare, ma le forze sono troppo poche rispetto alla sua mole. E, alle volte, rinunciare impotenti. In casi più recenti, ho visto le persone dedicarsi a fare fotografie e selfie, ad assistere allo spettacolo della morte, piuttosto che dedicarsi ad aiutare il cetaceo a tornare in mare, a nuotare. Sembra emergere una situazione analoga a Roma. Abbiamo ormai naturalizzato il disagio della città, nelle sue molte ore di traffico, nella sua esasperante carenza di servizi, nella fatica di abitare.
Le esperienze che abbiamo incontrato ci raccontano qualcosa di diverso, di una città che non molla nonostante le difficoltà, che costruisce e ricostruisce, inesausta, con nuove energie, con nuova rabbia e con nuovo dolore. Soprattutto confrontandosi con i due grandi problemi oggi di Roma: la povertà e la casa (che peraltro sono strettamente connessi). La stessa Caritas (2017) segnala che il principale problema di Roma è la povertà.
Il tour attraverso le occupazioni a scopo abitativo a Roma è stato quindi un viaggio tra storie di vite costruite con impegno in mezzo alle difficoltà, di solidarietà e di mutuo aiuto, di produzione di una visione del futuro, anzi di costruzione concreta di un futuro praticabile. Si tratta di utopie concrete che si possono cogliere solo attraverso l’incontro “di persona” con le realtà, le persone e le loro storie, attraverso il camminare, il partecipare ai vissuti, l’entrare dentro il mondo di chi sperimenta la difficoltà di vivere e ne cerca le soluzioni quotidiane nella convivenza e nella collaborazione.
Città e autorganizzazione
A Roma si moltiplicano le esperienze di autorganizzazione, non soltanto legate alle occupazioni a scopo abitativo. Una mappa realizzata recentemente delle diverse pratiche a Roma restituisce un mondo ricco e complesso, ancorché parziale (Brignone, Cacciotti, 2018).[1]
D’altra parte, non solo a Roma, ma anche nel resto d’Italia e all’estero (Hou, ed, 2010), emergono diffusamente nelle città pratiche e processi di autorganizzazione. Le città sono attraversate da pratiche e processi di riappropriazione in cui gli abitanti, organizzati o meno in comitati e associazioni, “producono” o “riproducono” spazi, trasformandoli in “luoghi”, anche recuperando e riutilizzando spazi abbandonati, degradati o inutilizzati, e rimettendoli nel “ciclo di vita” della città, attraverso azioni di cura, ricostruzione, gestione responsabile, manutenzione, ecc. (Cellamare, Cognetti, 2014). I processi di riappropriazione sono anche processi di ri-significazione dei luoghi, ovvero processi che ridanno un valore simbolico agli spazi, che ricostruiscono una relazione di significato tra lo spazio e il vissuto. Sono esperienze in cui si esprimono forme diverse di autorganizzazione, dalla riutilizzazione di spazi per la produzione culturale agli orti e ai giardini condivisi o autogestiti, dai servizi autogestiti di quartiere (comprese palestre e attività sportive) alle fabbriche recuperate, dalle occupazioni a scopo abitativo alle piazze riabitate e rivissute. Sono esperienze che esprimono una capacità di futuro (Appadurai, 2013)
Le forme di autorganizzazione rivelano sicuramente grandi potenzialità. In primo luogo esprimono un protagonismo sociale che comporta l’attivazione di importanti capacità sociali di organizzazione. In secondo luogo, permettono di costruire tessuto sociale e valori simbolici. Svolgono inoltre un servizio “per” e “sui” territori. Essi sono poi l’espressione di processi che mirano a ricostruire processi democratici dentro una fase storica di crisi della democrazia. E, in questo, di fatto sono i luoghi dove oggi si produce veramente politica. Si tratta di una politica che potrebbe essere definita “significante” in quanto veramente in grado di esprimere i significati emergenti e pertinenti alle condizioni sociali di vita quotidiana, quel “magma di significati sociali emergenti” che Castoriadis (1975) associa alla “società istituente”.
D’altra parte comportano alcuni problemi e alcune ambiguità, relativamente ad alcuni aspetti della “città fai-da-te”: il rischio di sostituirsi al “pubblico” e di coprire una carenza; il carattere di democraticità o meno dei processi interni di organizzazione e decisione; le differenti “culture di pubblico” che esprimono; i processi di inclusione o esclusione che innescano; il rischio di attivare dinamiche di controllo sui territori. Il punto più debole è sicuramente legato al carattere sostitutivo nei confronti delle carenze o delle assenze dell’amministrazione pubblica, di cui sono spesso una risposta.
L’autorganizzazione a Roma
Roma è una città attraversata da molte pratiche di ri-appropriazione e da molti processi di autorganizzazione, facendone un contesto urbano emblematico per discutere di città “autoprodotta”.
Si tratta di realtà molto diverse: da collettività locali che si autorganizzano e autogestiscono il proprio territorio alle molteplici forme di occupazione e di squatting (a scopo abitativo e non); dagli orti urbani alle “fabbriche recuperate” ai luoghi di produzione culturale occupati e a tante altre esperienze differenti. Un mondo molto ricco e variegato; ma anche ambiguo e problematico. Una città in fermento; un brulichio di attività che attraversa la vita quotidiana di Roma e che costruisce e ricostruisce quotidianamente la città.
Queste pratiche e questi processi che non trasformano la città soltanto nella sua fisicità, ma al contempo anche nelle sue dimensioni simboliche, nelle forme dell’abitare e della convivenza: pratiche di trasformazione dell’“urbano”, processi di “self-made urbanism” (S.M.U.R., 2014).
I contesti di autorganizzazione urbana sono anche laboratori culturali e sociali, dove si sperimentano forme innovative di convivenza e di abitare, idee di città alternative al modello di sviluppo urbano neoliberista.
In alcuni casi, e oggi in particolare in contesti come le occupazioni a scopo abitativo e i luoghi di produzione culturale occupati (dalla passata esperienza Teatro Valle Occupato a quelle vive del Cinema Palazzo, a San Lorenzo, e del Cinema America, diffuso nella città), tali sperimentazioni sono pensate e continuamente discusse, tanto che diventano i luoghi a Roma di elaborazione e rielaborazione di una riflessione sul “diritto alla città” (Lefebvre, 1968; Harvey, 2012; Isin, 2000) e sul “commoning”. Si tratta di una riflessione che non si limita a declinare il “diritto alla città” soltanto in questa dimensione, né alla pur necessaria e importante diffusione a tutti gli abitanti dell’accessibilità ai servizi e a tutte le opportunità che offre la città, ma si pone in termini di “diritto all’abitare”, pone l’accento su un ripensamento stesso dei processi di produzione della città, su un’idea di abitare che restituisca la complessità del vivere, delle relazioni sociali, della vita in comune, ecc. Spesso proprio la problematicità di questi luoghi, come ad esempio le occupazioni a scopo abitativo, dove la forte diversità, prima di tutto sociale e culturale, costituisce allo stesso tempo una ricchezza e un problema, spinge ad una profonda riflessione sul senso della convivenza e sulle modalità di costruirla, ponendo l’accento su una dimensione relazionale dell’abitare, sul fatto che la città è intessuta di relazioni che sono da abitare (Pisano, 2013).
Sono diverse le motivazioni che sorreggono le esperienze di riappropriazione della città. In primo luogo, è fondamentale l’obiettivo di contrastare azioni speculative e di svendita della città, ma anche in generale di abbandonare attività che, anche se non sono “produttive” economicamente in una logica di mercato, costituiscono un fattore importante per i territori e sono molto “produttive” dal punto di vista culturale, della socialità, dei valori simbolici. Il Teatro Valle doveva chiudere, il Cinema Palazzo dove essere trasformato in un Bingo, il Cinema America in una palazzina di miniappartamenti in pieno centro. Più in generale, sono esperienze che si pongono in contrasto alle politiche e alle azioni di mercificazione della città, cui spesso la pubblica amministrazione pare connivente.
In secondo luogo, rispondono spesso ad un’esigenza personale e sociale concreta: la domanda di casa nelle occupazioni a scopo abitativo, la produzione di reddito e il mantenimento di un’attività lavorativa (componente presente sia in molte esperienze di orti urbani che di occupazioni di luoghi di produzione culturale, che ovviamente nelle fabbriche recuperate) anche contro le forme di precarizzazione della vita, la ricerca di spazi per svolgere attività sociali e di interesse collettivo anche a servizio dei territori.
Costituiscono, poi, spesso una risposta ad una carenza dell’amministrazione della città (o dei soggetti imprenditoriali nel caso delle fabbriche recuperate) che non è in grado di dare ai diversi contesti urbani quei servizi e quelle attrezzature che creano le condizioni minime di abitabilità. Questa funzione sostitutiva è chiaramente un rischio (pensiamo alle aree verdi autogestite), proprio perché in alcuni casi deresponsabilizza la pubblica amministrazione rispetto ai suoi compiti e a quanto disatteso nei confronti della città.
La motivazione fondamentale rimane quella di costruzione di un progetto politico, il tentativo di praticare un’idea diversa di città, di costruire pezzi di città (che forse rimangono isole) che rappresentino un’alternativa a quella, neoliberista, prevalente. Al di là di una resistenza, si tratta della pratica di un percorso alternativo e qui sta il maggior interesse di queste esperienze.
Il lavoro sul campo evidenzia anche un’altra motivazione, che emerge non solo nelle persone, ma nei collettivi, spesso nella dimensione sociale della convivenza locale, e cioè un bisogno di urbanità e di qualità di vita urbana, diverso dalle altre motivazioni e che esce forse dalle categorie note. E’ un bisogno che non risponde soltanto a giuste necessità basilari, ma che si radica anche nel bisogno di una qualità dell’abitare, intesa in termini di possibilità di plasmare e qualificare il luogo in cui si vive, di sentirlo come proprio, di ricostruire un rapporto costruttivo con la città (e non semplicemente di subirlo), di partecipare e di sentirsi corresponsabile delle scelte che riguardano il proprio contesto di vita, di creare condizioni per una socialità reale e profonda, di non subire modelli eterodiretti e condizionati soltanto dalle logiche economiciste dell’interesse e del profitto, di decolonizzare l’immaginario collettivo dai modelli imposti di abitare, di dare valore alla memoria e alla bellezza, di prestare attenzione alle storie degli abitanti e alla dimensione della quotidianità, di dare forma ad una progettualità collettiva. Si tratta di dimensioni che l’attuale sviluppo della città sembra aver cancellato, e su cui converge un’attenzione che travalica le differenze sociali o culturali, perché va a interessare la persona nella sua essenza. E allo stesso tempo, quello dell’urbanità è un bisogno, diverso dalle motivazioni precedenti, che si caratterizza non soltanto a livello personale, ma necessariamente a livello collettivo. Esso è costitutivo dell’idea stessa di appropriazione dei luoghi e di autorganizzazione, che altrimenti non potrebbero sussistere.
D’altra parte, lette dal punto di vista della ricerca di senso, i processi e le pratiche di ri-appropriazione rappresentano un segno della vitalità della città e una risposta all’alienazione che caratterizza non solo il lavoro, ma le stesse forme di urbanità (Harvey, 2012; Brenner Marcuse, Mayer, 2012), in un’epoca di capitalismo avanzato in cui le città, come realtà prese nel loro complesso (urbanistico e socio-economico), vengono ‘messe al lavoro’, attraverso meccanismi che vanno dalla finanziarizzazione dei processi insediativi ai dispositivi del ‘consumo programmato’ (Lefebvre, 1968). Queste esperienze costituiscono una risposta alla mercificazione della città (Harvey, 2009; Schmid, 2012) e all’espropriazione delle capacità creative e progettuali degli abitanti, nonché della loro possibilità di essere soggetti attivi, protagonisti nella costruzione della città. Esse costituiscono processi di ri-significazione, allo stesso tempo, dei luoghi e delle forme di convivenza; dove le persone coinvolte, siano essi abitanti o altre persone che hanno instaurato una relazione profonda con i luoghi, mettono in atto pratiche che danno senso ai propri contesti di vita (Cellamare, 2011).
Una “politica significante”
Le occupazioni a scopo abitativo e le esperienze di autorganizzazione a Roma sviluppano politiche che sono le politiche che dovrebbero fare le amministrazioni pubbliche: risposta al disagio abitativo, riutilizzo di spazi ed edifici abbandonati, economie a km zero, utilizzo di prodotti locali, realizzazione di servizi attrezzature e spazi pubblici per i contesti locali, ecc. Sviluppano una politica per la vita quotidiana e l’abitare.
Al di là delle specifiche politiche urbane praticate, uno degli aspetti caratterizzanti tali esperienze è proprio la pratica di forme di politica innovative. Come noto, la politica, ma anche le istituzioni, sono sempre più assenti dai territori. Si misura una distanza crescente (quasi siderale) tra le amministrazioni e le politiche pubbliche, da una parte, e i territori, dall’altra in un contesto di progressivo arretramento del welfare state. Questo è tanto più vero nelle città. L’economico ha prevalso sul politico e i processi neoliberisti sembrano non incontrare più una resistenza o una mediazione politica nell’orientare lo sviluppo e lo sfruttamento delle città. Nei confronti di questa situazione, molti movimenti urbani e molte linee di pensiero hanno maturato la convinzione che bisogna ripensare le forme della politica e della democrazia. Anzi, reclamano nuove forme della politica.
In questo senso, molte esperienze insorgenti non sono minimamente interessate a costituire nuovi partiti. E’ proprio la forma partito che sembra sempre più inadeguata. Ciò non toglie che i movimenti possano avere una struttura organizzativa molto forte, come è nel caso dei movimenti per la casa (almeno a Roma), che rappresenta un elemento caratterizzante molto chiaro. Né è rifiutato in assoluto il rapporto con le istituzioni.
Piuttosto si cerca di spostare lo spazio del confronto politico su un altro terreno. Il terreno non è quello dei contesti istituzionalizzati e irrigiditi dalle procedure e dai rapporti formali consolidati, condizionanti e fuorvianti.
Questo comporta ripensare il senso stesso delle istituzioni e i luoghi della politica e recuperare una dimensione istituente (Castoriadis, 1975), dove una “politica significante” – una politica cioè che abbia un rapporto stretto col mondo dei significati di chi è coinvolto, che vada a toccare gli aspetti importanti e pregnanti della vita delle persone e dei collettivi sociali – si preoccupi di costruire contesti e percorsi includenti e trasparenti, in grado di attivare e valorizzare il contributo costruttivo di tutti, le progettualità presenti, una discussione aperta.
Da qui l’ampia e diffusa riflessione sui “processi costituenti”, come è testimoniato dalla costruzione di continui spazi di dibattito e confronto, dalla costruzione di reti tra soggetti politici territoriali, dalla trasformazione di questi contesti “costituenti” in luoghi di produzione collettiva di politica e di cultura politica.
E’ attraverso questi processi che si costituiscono anche le nuove soggettività politiche, a partire dalle proprie esperienze personali e sociali, attraverso pratiche che diventano anche le forme di individuazione personale e collettiva (Simondon, 1989), alternative a quelle prevalenti.
In questo contesto, un’importante terreno di lavoro per le amministrazioni pubbliche (ed anche per il Comune di Roma) sarebbe quello di sviluppare “politiche per l’autorganizzazione”, ovvero politiche che sappiano valorizzare (pur all’interno di una regia pubblica) il protagonismo sociale, le iniziative e le progettualità che esprimono i territori, che sappiano condividere con i soggetti attivi localmente la gestione di servizi, attività, attrezzature di uso e valore comune, che sappiano sostenere politiche condivise ed esito di un processo di costruzione collettiva.
Riferimenti bibliografici
Appadurai A. (2013), The Future as Cultural Fact. Essays on the Global Condition, Verso, Londra
Brenner N., Marcuse P. and Mayer M. (eds, 2012), Cities for People, not for Profit. Critical Urban Theory and the Right to the City, Routledge, London-New York
Brignone L., Cacciotti C. (2018), “Self-Organization in Rome: a map”, in Tracce Urbane, n. 3, 2018, Editrice Sapienza, Roma
Caritas Roma (2017), La povertà a Roma: un punto di vista, Caritas, Roma
Castoriadis C. (1975), L’institution imaginarie de la societé. II: L’imaginaire social et l’institution, Editions du Seuil, Paris
Cellamare C. (2011), Progettualità dell’agire urbano. Processi e pratiche urbane, Carocci, Roma
Cellamare C., Cognetti F. (eds, 2014), Practices of Reappropriation, Planum Publisher, Milano
Harvey D. (2009), Social Justice and the City, revised edition, The University of Georgia Press, Athens & London
Harvey D. (2012), Rebel Cities. From the Right to the City to the Urban Revolution, Verso, London
Hou J. (ed., 2010), Insurgent Public Space. Guerrilla Urbanism and the Remaking of Contemporary Cities, Routledge, Taylor & Francis Group, London – New York
Isin E. F. (2002), Being Political. Genealogies of Citizenship, University of Minnesota Press, Minnesota (US)
Lefebvre H. (1968), Le droit à la ville, Éditions Anthropos, Paris
Papa Francesco (2017), Terra Casa Lavoro. Discorsi ai movimenti popolari, Ponte alle Grazie, Adriano Salani Editore, Milano
Pisano M. (2013), Creare relazioni da Abitare. Voci, narrazioni, azioni in uno scheletro urbano riabitato, tesi di dottorato in Tecnica Urbanistica (XXV ciclo), Sapienza Università di Roma, Roma
S.M.U.R. – Self Made Urbanism Rome (2014), Roma città autoprodotta. Ricerca urbana e linguaggi artistici, a cura di C. Cellamare, manifestolibri, Roma
Schmid C. (2012), “Henri Lefebvre, the right to the city, and the new metropolitan mainstream”, in Brenner N., Marcuse P. and Mayer M. (2012), Cities for People, not for Profit. Critical Urban Theory and the Right to the City, Routledge, NY
Simondon G. (1989), L’individuation psychique et collective, Aubier, Paris
[1] Cfr. a questo proposito l’ultimo numero della rivista Tracce Urbane, dedicato al tema “città e autorganizzazione”, dove è stata pubblicata la mappa citata ma anche diversi altri articoli sul tema (https://ojs.uniroma1.it/index.php/TU).