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Francesco Erbani: la Roma dell’abusivismo peserà sul voto per il prossimo sindaco

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Nel fantasioso lessico dell’urbanistica capitolina i toponimi indicano nuclei definiti e perimetrati che comprendono abitazioni, ma anche terreni inedificati, capannoni commerciali o industriali sorti illegalmente, senza pianificazione, salvo quella spontanea e approssimativa degli stessi proprietari…

(da Internazionale 20 luglio 2020)

In via di Bagnoletto, periferia sudovest di Roma, non c’è marciapiede. Si cammina rasente un muro di cinta lungo una striscia d’erba rinsecchita dov’è piantato un filare di platani. Le auto corrono verso Ostia. Non c’è marciapiede neanche in via Lendinara né in via Gavello, e neanche nella traversa successiva, via Ceneselli. Dietro il muro di cinta ecco una villa intonacata di bianco, due piani, con il tetto spiovente e un grande portico affacciato su un giardino dove l’erba invece è stata tagliata con cura e ora è ristorata da un impianto d’irrigazione. Sempre su via Lendinara c’è un’altra villa, poi un terreno inedificato e recintato, e poi due villette a schiera, sempre a due piani, ma più piccole. Ancora qualche terreno libero, ancora qualche villa. La strada ha l’asfalto sconnesso. Non c’è una piazza, un luogo d’incontro, non ci sono bar né alimentari né tabaccaio né edicole.

Le ville sono abusive. Anzi, ex abusive. Sono state costruite senza concessione edilizia tra gli anni ottanta e novanta. Sono state condonate (i proprietari hanno cioè pagato la sanatoria prevista da uno dei tre condoni varati nel 1985, nel 1994 e nel 2003) e il comune di Roma, con il piano regolatore del 2008, le ha incluse in uno dei 71 “toponimi”.

Nel fantasioso lessico dell’urbanistica capitolina i toponimi indicano nuclei definiti e perimetrati che comprendono abitazioni, ma anche terreni inedificati, capannoni commerciali o industriali sorti illegalmente, senza pianificazione, salvo quella spontanea e approssimativa degli stessi proprietari. I quali, pagato il condono, si sono accorti che un luogo da abitare non è costituito solo dalla propria casa, pur confortevole e accessoriata. E allora sono passati a reclamare marciapiedi, allacci fognari, depuratori, illuminazione stradale. E poi asili, scuole, centri anziani, una piazza con qualche aiuola e le panchine dove scambiare quattro chiacchiere. Chiedono, insomma, che la città arrivi anche da loro con i suoi servizi.

I consorzi di autorecupero
L’autorità pubblica incassa il condono, l’autorità pubblica finanzia gli interventi. Sembra elementare, ma così non succede. E sui nodi che si aggrovigliano nella Roma dell’abusivismo disseminata lungo i quattro punti cardinali, da Labaro alla Borghesiana, dalla borgata Finocchio al parco di Veio, s’incaglia una partita delicatissima. La posta potrebbe essere anche la futura poltrona di sindaco. A Roma si voterà nella primavera del 2021 e già nelle precedenti tornate amministrative è stata l’immensa e multiforme periferia, fatta di povertà e di solitudine, ma anche di benessere e di pulsioni securitarie e xenofobe, a designare l’inquilino del Campidoglio.

Un ruolo si preparano a giocarlo i consorzi di autorecupero. Che cosa sono? Sono associazioni formate da proprietari di abitazioni abusive o di terreni sui quali si conta di poter costruire. Nascono a metà degli anni novanta, in particolare negli insediamenti più recenti. Dunque in toponimi come in via di Bagnoletto, ma anche in nuclei sorti in precedenza.

L’amministrazione pubblica rinuncia a competenze urbanistiche su parti enormi del territorio comunale

Non li troviamo in nessun’altra città e a Roma in pochi ne conoscono l’esistenza. A loro volta tutti i consorzi sono riuniti in raggruppamenti. Non si conosce il numero preciso dei consorzi. Secondo Alessandro Coppola, urbanista che insegna al Politecnico di Milano e che ha lavorato molto a Roma, qualche anno fa se ne contavano 140. Ne farebbero parte 40mila soci. Altre fonti, più interne a questo mondo, ne censiscono 172. Quattro sono i raggruppamenti di consorzi più rappresentativi. Ogni consorzio elegge un suo presidente e ci sono presidenti che restano in carica anche per venti o trent’anni.

I consorzi nascono su iniziativa dell’amministrazione di Francesco Rutelli, nel 1995. Tra i promotori c’è il vicesindaco Walter Tocci, conoscitore della periferia romana. L’intenzione è di stimolare la partecipazione diretta degli abitanti dei nuclei ex abusivi per realizzare le infrastrutture. Chi meglio di loro sa di cosa c’è bisogno? Inoltre il comune fa fatica, la sua macchina è farraginosa. Si decide che il Campidoglio non avrebbe più incassato gli oneri per concessioni edilizie dovuti dagli abitanti. Quei soldi sarebbero stati versati su un conto bancario e a gestirli sarebbero stati i consorzi. I quali, controllati passo passo dal comune, avrebbero deciso quali opere realizzare, le avrebbero finanziate e portate a termine.

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Democrazia dal basso o urbanistica fai da te? “I primi risultati furono entusiasmanti”, ricorda Tocci, che ha ancora negli occhi “l’orgoglio di un gruppo di cittadini dalle parti di via Casilina – era il 1997 – che avevano appena realizzato una fogna”.

Da allora sono cambiate molte cose. È sempre Tocci a tracciare un bilancio: “Poi è venuta meno la tensione politica, la macchina amministrativa si è complicata ulteriormente e la partecipazione dei cittadini è andata scemando. I consorzi sono diventate strutture economiche autoreferenziali, le associazioni si sono sempre più caratterizzate dal punto di vista professionale”. E così l’amministrazione pubblica rinuncia a competenze urbanistiche su parti enormi del territorio comunale, delegando consorzi e associazioni che con il tempo avrebbero assunto uno spiccato ruolo di mediazione politica, perfino di promozione immobiliare e avrebbero anche orientato il voto. Tanti voti.

La politica dei notabili
Il voto delle persone che hanno abitato in costruzioni nate come abusive non è né compatto né determinante. Ma ha un peso e chi punta a un posto in consiglio comunale non ne può prescindere. È assai volatile, come quello in genere dell’estrema periferia romana. Premia il simbolo di partito, ma più spesso il singolo candidato. D’altronde più ci si allontana dal centro, più si manifesta, sostiene Tocci, una deriva della politica in forma notabilare. Non passa inosservato nella campagna elettorale del 2013 un volantino realizzato da alcuni consorzi: su un lato si invita a votare Fabrizio Ghera, ex assessore nella giunta Alemanno, ora consigliere regionale di Fratelli d’Italia, sull’altro Antonio Stampete, del Partito democratico, presidente della commissione urbanistica quando sindaco è Ignazio Marino.

Dallo studio intitolato Le mappe della disuguaglianza e condotto da Keti Lelo, Salvatore Monni e Federico Tomassi, si ricava una geografia dettagliata dei consensi elettorali. Nel X municipio, dove si trovano via di Bagnoletto e altri nuclei abusivi, Virginia Raggi al ballottaggio del 2016 ha oscillato intorno all’80 per cento dei consensi. Molto buono anche il risultato del Movimento 5 stelle nelle politiche del 2018: più del 40 per cento. Già nel 2018 sono però Fratelli d’Italia e soprattutto la Lega a contendere qui il primato dei cinquestelle (il Partito democratico e il centrosinistra in genere sono marginali nella periferia intorno al Grande raccordo anulare). Ma alle europee del 2019 la Lega si attesta in questa zona tra il 30 e il 35 per cento, mentre i cinquestelle scendono sotto il 30.

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Sarà quest’ultima la tendenza anche alle prossime elezioni, nella primavera del 2021? Giuseppe Amatilli abbassa gli occhi e abbozza un sorriso compiaciuto. Sessantuno anni, architetto, studio in un ricercato condominio ai bordi dell’Eur, Amatilli è il coordinatore dell’associazione di consorzi del X municipio. Non abita in una casa abusiva, ma se ne occupa in qualità di tecnico. Parla di periferia abbandonata, “di Roma che muore, se muore la periferia” e rivendica la funzione dei consorzi. Non solo dei nove che coordina – compreso quello di via di Bagnoletto – e per i quali il suo studio ha preparato i piani di recupero (insieme a progetti d’altro genere, palazzine e centri commerciali). Di tutti.

Su un foglio ha appuntato che cosa i consorzi hanno realizzato dal 1995 al 2016 in una sessantina di borgate: fognature, illuminazione pubblica, strade, due asili, un centro sportivo, cinque centri polifunzionali, due piazze, due ettari di verde attrezzato. Totale: opere per 114 milioni di euro. L’altro merito dei consorzi, secondo Amatilli, è di aver “bloccato il proliferare dell’abusivismo”. Il che però si scontra con il fatto che nel 2003 a Roma siano state presentate 88mila domande di condono relative ad abusi commessi dal 1994.

Potenziale di consensi
Con Virginia Raggi l’idillio è durato poco. Già qualche mese dopo il suo insediamento in Campidoglio, tra gli abitanti del decimo municipio è prevalsa la delusione. Conflitti con la prima cittadina? “Macché, perché ci siano conflitti c’è bisogno di un rapporto. Noi con la sindaca e con l’assessore Luca Montuori non abbiamo nessun rapporto”, dice l’architetto.

Il 16 febbraio 2020, qualche giorno prima del confinamento, Amatilli era sul palco del palazzo dei Congressi dove Matteo Salvini ha di fatto aperto la campagna elettorale della Lega a Roma. Amatilli era invitato come rappresentante degli abitanti di ex costruzioni abusive, esattamente come il presidente dei costruttori o quello degli albergatori. Ha illustrato le richieste dei consorzi e sotto gli occhi vigili di Salvini ha squadernato il ricco potenziale di consensi che custodisce.

L’abusivismo, diceva Italo Insolera, è un modo di essere della città di Roma

Quanto ricco? La Roma costruita abusivamente è sterminata. Oltre un terzo della superficie edificata è abusiva e in aree di origine abusiva vivono più di 940mila romani, secondo Carlo Cellamare, professore di urbanistica alla facoltà d’ingegneria della Sapienza, che ha condotto uno studio nel 2013. La gran parte di loro – più di 600mila persone – vive nelle borgate storiche, costruite dal dopoguerra fino agli anni sessanta e incluse nel piano regolatore del 1965 come zone F1. L’abusivismo non è un fenomeno perverso che ha condizionato la vita della capitale, diceva Italo Insolera, il massimo studioso dell’urbanistica romana, è un modo d’essere della città.

I toponimi sono la più nuova generazione dell’abusivismo. Sono stati edificati entro il 1995 e, secondo Cellamare, ospitano quasi 58mila romani. A questi vanno aggiunti coloro che abitano nelle cosiddette zone O, altra immaginifica formula dell’urbanistica capitolina, che designa 80 nuclei abusivi realizzati tra la fine degli anni sessanta e il 1983: 247mila i cittadini che ci vivono. Anche nelle zone O agiscono i consorzi, che dunque operano su un bacino di oltre 300mila abitanti di Roma.

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Un’altra misura di questo fenomeno è fornita dalle 670mila domande di condono presentate dal 1985 al 2003. Più di 200mila attendono ancora risposta dagli uffici comunali, che hanno delegato a questo scopo società partecipate dal Campidoglio. La macchina si muove con lentezza ossessiva, fioccano gli scandali e gli arresti (l’ultimo a fine giugno). Poco più di centomila domande si riferiscono addirittura al condono del 1985.

Negli anni cinquanta e sessanta si tirava su la casetta con mattoncini perché pagare l’affitto per tanti era impossibile, così come comprarne una. Chi costruiva la città legale dei quartieri residenziali, di sera e di domenica costruiva la casa per sé. Già allora, però, il fenomeno era solo in parte spontaneo. Presto si è imposta un’industria parallela a quella autorizzata, che comprendeva un ciclo integrale, dalla lottizzazione del terreno alla posa degli infissi.

Negli anni ottanta e novanta, mentre dilaga la pratica dei condoni, chi costruisce abusivamente non lo fa costretto dalla necessità, invade aree libere e paesaggisticamente pregiate. Riduce i costi dell’investimento e dalle pareti in blocchetti di tufo si passa alla villa con il portico e la piscina. Muta la fisionomia dell’abusivo. Al bisogno primario si sovrappone un calcolo immobiliare e speculativo. Le case abusive, ottenuto il condono, vengono affittate o vendute con rogito notarile. La stagione eroica e un po’ folkloristica dell’autocostruzione è archiviata.

I condoni e il blocco edilizio
Come qui, in via di Bagnoletto. Questo nucleo, dove abitano circa seicento persone in poco più di 40 ettari (con una densità irrisoria, quattordici abitanti per ettaro), è cresciuto dilatando la vecchia borgata di Dragona, una delle tante che si sono sviluppate dal dopoguerra nell’area depressa e alluvionale che porta al mare. Con il passare degli anni le ville abusive sono più diradate, gli insediamenti compromettono molto più suolo di un tempo, quando le palazzine si addossavano l’una all’altra. La densità si abbassa, da 196 abitanti per ettaro nelle zone F1 si precipita a 46, sempre secondo Cellamare, e cresce lo sprawl urbano, la dispersione abitativa, uno dei peggiori guai che tuttora affligge e indebita la capitale.

I condoni hanno trasformato le persone che vivevano in costruzioni abusive, con conseguenze anche sulle scelte elettorali. Il fenomeno è stato analizzato dall’urbanista Coppola. Le prime amministrazioni di sinistra, quella di Luigi Petroselli in particolare, sindaco dal 1979 al 1981 grazie soprattutto ai voti delle borgate, hanno attuato una politica redistributiva: hanno perimetrato i nuclei abusivi, li hanno fatti cioè entrare a pieno titolo nell’organismo cittadino e vi hanno portato l’acqua, le strade, l’illuminazione. Nelle intenzioni, l’abusivismo si sarebbe dovuto arrestare. Ma così non è avvenuto. Anzi, sono sopraggiunti i condoni. Dopodiché, pagata la sanatoria, spiega Coppola, “l’abusivo è diventato un proprietario in piena regola, difende con vigore il suo status ed è in grado di incamerare e privatizzare parte del valore creato da quelle stesse politiche realizzate dalla sinistra”.

Nel 1985 suona un primo campanello d’allarme: la sinistra perde le amministrative. Riconquista il Campidoglio nel 1993, con Francesco Rutelli. E si mette a punto l’innovazione dei consorzi. Gli anni settanta e la “cintura rossa” sono un ricordo, ma una certa presa sul popolo delle periferie la sinistra continua ad averla, grazie a un politico come Tocci, che tante battaglie vi ha condotto, e all’Unione borgate, l’associazione che era la cinghia di trasmissione da Botteghe oscure (storica sede del Partito comunista) alla periferia romana. “I primi consorzi sono collegati ai comitati di quartiere e la loro matrice di sinistra è evidente, sopravvive un forte spirito collettivo e solidaristico”, conferma Salvatore Codispoti, tuttora presidente di una Unione borgate ridotta a poca cosa rispetto a qualche decennio fa. Provengono dalle file della sinistra altri due presidenti di associazioni fra consorzi, Luciano Bucheri e Franco Scorzoni.

Nel frattempo l’abusivismo non si ferma. Secondo Cellamare, “rappresenta l’azionariato diffuso della rendita, vale a dire che una moltitudine di piccoli proprietari partecipa alle logiche della rendita”. Torna d’attualità la formula adottata nel 1970 da Valentino Parlato: a Roma esiste un “blocco edilizio” che va dai grandi costruttori ai piccoli proprietari, compresi quelli di costruzioni abusive. A rimetterci è la città come bene di tutti.

Nei consorzi matura un’abitudine imprenditoriale, immobiliarista. Il finanziamento di strade, illuminazioni e fogne avviene con le quote dei soci, ma soprattutto con gli oneri di urbanizzazione che vengono trattenuti. E spesso questi non bastano a coprire le esigenze. Inoltre per realizzare piazze, aree verdi e parcheggi ci sono pochi spazi, essendo la gran parte dei terreni occupati o comunque di proprietà privata. Come risolvere entrambi i problemi? Consentendo di costruire ulteriormente in ossequio ai princìpi che a Roma sono in voga da sempre. Chi tirerà su una palazzina verserà altri oneri oppure cederà un pezzo del proprio terreno per un’opera pubblica in cambio di un piano in più. E se di spazio non ce n’è per niente si allarga il perimetro del toponimo.

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Molti soci dei consorzi non sono residenti nei nuclei abusivi. Lì possiedono un terreno sul quale aspirano a costruire. O se vi risiedono comunque sono proprietari anche di un lotto libero. E i consorzi favoriscono gli aneliti edificatori, li auspicano. Amatilli srotola altri dati. Nel piano di recupero che ha redatto per via di Bagnoletto ha previsto che ai 600 abitanti attuali se ne possano aggiungere 800, arrivando a 1.400. Nel toponimo di Ponte Olivella abitano 700 persone e si arriverebbe a 1.900. Dai 1.800 residenti di Lingua Aurora si passerebbe a 4.400. Secondo i calcoli di Coppola, nei 71 toponimi potrebbero arrivare altri 22mila abitanti.

Ma non si era detto che i consorzi avevano fermato l’abusivismo? “Chi s’insedierà non è abusivo, costruisce nel rispetto della legge e degli strumenti urbanistici”, replica Amatilli. “Inoltre non si intaccano le zone libere dell’agro romano, bensì aree già compromesse”. Forse la forma è salva, ma resta l’appesantimento di queste zone periferiche, dove ci sarà un parcheggio in più, ma dove mai arriverà un trasporto pubblico decente.

La svolta e la rottura
La vera svolta per i toponimi si ha nel 2009 con una delibera fatta approvare da Gianni Alemanno. È lui il sindaco più vicino ai consorzi. La delibera contiene le linee guida perché i consorzi non solo progettino le opere, ma redigano dei piani di recupero con la possibilità di ampliare l’edificato. Ogni toponimo incarica un tecnico e si fa il suo piccolo piano regolatore. È nata l’urbanistica condominiale, sostiene Cellamare. “In alcuni casi”, spiega Coppola, “viene più che raddoppiato il perimetro, quasi decuplicando le previsioni insediative”.

Con Alemanno, con il presidente della commissione urbanistica Marco Di Cosimo, con l’allora responsabile dei toponimi nell’assessorato, Tonino Egiddi, i consorzi filano d’accordo. Tra il 2012 e il 2013 il consiglio comunale adotta 26 piani, che ottengono il voto anche dell’opposizione del Partito democratico. Nel 2013, con l’amministrazione guidata da Ignazio Marino, la musica cambia. L’assessore all’urbanistica Giovanni Caudo sospende l’approvazione di 23 dei 26 piani: alcuni hanno allargato i perimetri invadendo aree con vincolo paesaggistico. Egiddi, inoltre, viene spostato ad altro incarico. Mentre il presidente del consiglio comunale, Mirko Coratti del Partito democratico, altro riferimento dei consorzi, è travolto dall’inchiesta Mafia capitale (poi retrocessa dalla cassazione ad associazione a delinquere: Coratti è stato condannato a quattro anni e sei mesi. Ma non c’entrano i consorzi).

Con i consorzi è rottura. La valanga di consensi ai cinquestelle si spiega mettendo insieme frustrazione e rabbia. Già nel febbraio 2017 però i consorzi manifestano sotto il Campidoglio contro Raggi e l’allora assessore all’urbanistica Paolo Berdini. Con loro molti esponenti politici, dal Pd a Fratelli d’Italia. A favore dei consorzi è apertamente schierata la cinquestelle Monica Lozzi, presidente del settimo municipio, il cui nome è circolato anche come possibile alternativa alla ricandidatura Raggi.

Tuttavia, il clima non cambia. Il nuovo assessore, Luca Montuori, sfida l’ira dei consorzi in un paio di assemblee. Inoltre il comune si oppone ai piani di recupero presentati da Amatilli perché prevederebbero, spiega Montuori, “una serie di interventi per fronteggiare il rischio idrogeologico, lì altissimo, con arginature toponimo per toponimo, mentre è stato approntato dal comune uno studio per una tutela di quel territorio nel suo insieme”. Montuori poi promuove una delibera che rivoluziona i rapporti tra il comune e i consorzi, ai quali si chiede di trasformarsi in imprese. “Non basta approvare i progetti per acclamazione”, spiega Montuori, “occorre rispettare la legislazione sugli appalti, indicare un rappresentante legale, redigere uno statuto, depositare bilanci trasparenti, pagare l’iva. Tutto questo costa, lo capisco. Ma è necessario. Vengono appaltate opere per milioni di euro, e quelli sono soldi pubblici, non dei consorzi, perché sono oneri di concessione dovuti al comune”.

La delibera deve ancora andare in aula. Chissà quando e se ci andrà. Ma intanto la replica dei consorzi è sferzante. Qualcuno propone di restituire al comune i soldi, che oscillano tra i quaranta e i cinquanta milioni di euro. In un comunicato firmato da 36 presidenti di consorzi si ricorda maliziosamente il contributo dato dalle periferie abusive all’elezione di Raggi, contributo che così com’è stato dato, può essere revocato.

I motori si scaldano in vista delle prossime amministrative, che riguardano il consiglio comunale e tredici dei quindici municipi. Circolano candidature vere e presunte. Si ipotizzano alleanze. I consorzi non sono una falange agguerrita e compatta. A est come a ovest, o qui in via di Bagnoletto, si attende il momento in cui si stileranno le liste. Si scorreranno i nomi e se ci sono quelli giusti bene, altrimenti ci si muoverà perché ci siano.

Francesco Erbani

(> vai all’articolo con le foto su  Internazionale 20 luglio 2020)

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