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La via Tiburtina e i ruderi moderni

di Lucilla Rogai

Gira sui social la foto di una scala mobile abbandonata nei pressi di Villa Borghese. Un relitto coperto di verdura, circondato da reti e sbarre di ferro per impedirne l’accesso, che testimoniano la consapevolezza del problema e contemporaneamente  l’assoluta pervicacia a non volersene occupare.  Stessa situazione sul greto del Tevere.  Barconi fatiscenti, sgangherati, imputriditi, malsani occupano da decenni, in totale abbandono, ormeggi pubblici, senza che nessuno si preoccupi del decoro, della sicurezza o più semplicemente vada dal proprietario a chiedere cosa intenda fare con quel rottame, se per caso ha scambiato il fiume per la sua discarica, e magari gli intimi di rimuoverlo. Chiunque abbia lasciato per più di un quarto d’ora un suo vecchio mobile nell’androne del palazzo, in attesa di smaltirlo, conosce le immediate lamentele dei condòmini che suonando alla porta chiedono: quanto tempo deve stare ancora lì?  Sul suolo pubblico invece nulla, silenzio totale da parte delle istituzioni, rassegnazione nei cittadini.

Ora passiamo alla via Tiburtina. Via Tiburtina è bella. Attraversa San Lorenzo, diventa un silenzioso viale alberato, costeggiando  il cimitero del Verano, poi passa sopra la ferrovia e diventa intensiva, commerciale, piena di negozi e tante bancarelle. Poi si quieta di nuovo, si scompone in poche poche case con qualche innesto industriale, un chioschetto qua, un bar da samurai là e poi all’altezza di Ponte Mammolo… l’inferno. Come in preda a una violenta colica intestinale, la via si contorce, perde di senso, un percorso incoerente fatto di deviazioni, diverticoli a chicane, blocchi di cemento gettati lì come dadi. Questo perché, in quel tratto, la Via Tiburtina subisce da 12 anni un disperato tentativo di allargamento, che Linda Meleo ha definito “sfortunato”.

Sfortuna e disperazione che trovano il loro culmine, proprio in quel tratto di strada, nel gigantesco rudere della ex fabbrica della penicillina, inaugurata nel 1950 e in stato di abbandono da almeno una trentina di anni. Ricostruire la vicenda è un rompicapo, una classica storia di città in rovina e per farsi un’idea semplice rimando al link  https://it.wikipedia.org/wiki/Ex_fabbrica_di_penicillina_LEO_Roma.

Architettonicamente parlando, la struttura sarebbe anche un bel pezzo di archeologia industriale. Ma visto che i proprietari sono immobili e indifferenti al suo destino e a quello delle persone che abitano in quel quartiere, credo che sia arrivato il momento di chiedere l’immediata riconversione o rimozione della struttura. Di questa come di centinaia di altri manufatti in condizioni simili. L’amministrazione capitolina deve trovare la forza e gli strumenti per esigere un progetto di riqualificazione entro massimo 6 mesi. Se approvato, concedere non più di 2 anni per attuarlo, altrimenti si procede all’esproprio dei terreni (magari per destinarli a edilizia popolare) e alla demolizione a spese del legittimo proprietario. L’agenzia delle entrate saprà come farsi rimborsare.

Lucilla Rogai

(da Romainpiazza, 3 marzo 2021)

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