Mentre la Commissione UE ha deciso di includere l’energia nucleare nella cosiddetta “tassonomia verde” – cioè tra le fonti sostenibili per la transizione – in Italia dobbiamo ancora decidere dove stoccare le scorie degli impianti chiusi a seguito del referendum del 1987.
Il 16 marzo SOGIN – la società di Stato incaricata dello smantellamento delle ex centrali nucleari – ha comunicato di aver inviato al Ministero della Transizione Ecologica (MiTE) della Carta nazionale delle aree idonee (CNAI) a ospitare il deposito nazionale delle scorie radioattive, elaborata dopo aver ascoltato oltre 300 soggetti tra Regioni, enti locali, esperti e associazioni. Ora si attende che il Ministero della Transizione Ecologica, dopo aver acquisito il parere tecnico dell’Ispettorato Nazionale per la Sicurezza Nucleare e la Radioprotezione (ISIN), approvi con proprio decreto la Carta, di concerto con il Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili. A quel punto la mappa verrà pubblicata sui siti internet di SOGIN, dei due Ministeri e dell’ISIN e si cercherà un negoziato con Regioni ed enti locali.
Il nostro paese è già in un ritardo pericoloso, di oltre dieci anni, sulla gestione dei rifiuti radioattivi: avremmo dovuto dotarci di un piano nazionale a partire dal 2011 – come richiesto dalla direttiva Euratom – ma l’iter ha subito diversi rinvii per i quali ci siamo invece guadagnati una sentenza di infrazione dalla Corte di Giustizia UE nel 2019.
Tutto il percorso avrebbe dovuto concludersi entro il 2015. Invece, siamo arrivati al 2022 – con conseguente lievitazione dei costi inizialmente previsti – e, stando alla normativa che regolamenta tutto il processo, dopo l’approvazione della Carta, ci vorranno ancora quasi 4 anni per l’avvio della costruzione del deposito. Almeno il 2025, dunque. Poi ci saranno i tempi di costruzione e di esercizio. Al momento i rifiuti prodotti dagli ex siti nucleari e dal settore sanitario sono temporaneamente depositati in una ventina di strutture che includono gli stessi impianti in dismissione e i centri di ricerca da nord a sud della penisola.
Un discorso a parte merita infine l’iter che sta portando all’individuazione del deposito – definito “innovativo” sul sito del deposito nazionale perché “per la prima volta in Italia” prevede “un processo di coinvolgimento dei territori” per arrivare “a una soluzione concordata con le comunità locali”, addirittura a un’autocandidatura – e che finora è stato invece segnato da scarsa trasparenza e problemi di comunicazione tra i vari livelli istituzionali.
In questo articolo ricostruiamo perché l’Italia deve dotarsi di un deposito, a che punto siamo con la definizione della Carta delle aree idonee, come funziona all’estero e alcune incognite lungo il cammino.
Cosa è successo finora
Nel 2014 la SOGIN ha avviato le operazioni per la scelta del sito su cui costruire il deposito nazionale sulla base dei criteri di localizzazione redatti dall’Ente di controllo ISPRA (oggi ISIN). Per il deposito:
Serve un’area di 150 mila ettari in cui stoccare 78 mila metri cubi di rifiuti a bassa attività: 50 mila metri cubi di rifiuti derivanti dal decommissioning degli ex impianti nucleari e 28 mila metri cubi di rifiuti prodotti dalla ricerca, dall’industria e dalla medicina nucleare.
Sui 78mila metri cubi totali, 33mila sono quelli effettivi mentre i restanti sono previsti per il futuro. Oltre a questi, ci sono 17 mila metri cubi di rifiuti a media e alta attività da stoccare nel Complesso Stoccaggio Alta attività, incluso nel deposito.
Il progetto, che costerà circa 900 milioni di euro, include una sorta di “sistema a scatole cinesi”: i rifiuti radioattivi all’interno di contenitori metallici, i “manufatti”, verranno inseriti in “scatole” di calcestruzzo speciale a loro volta collocate in 90 costruzioni di calcestruzzo armato, dette “celle”, al cui interno resteranno per i prossimi 300 anni.
Oltre al deposito, è previsto anche un parco tecnologico che svolgerà il ruolo di centro di ricerca e formazione sul decommissioning nucleare, sulla gestione dei rifiuti radioattivi e sulla radioprotezione.
Sulla base di 15 criteri di esclusione (per esempio, la presenza di vulcani, il rischio di frane o inondazioni, la distanza da coste, fiumi, centri abitati, la pendenza del terreno) e di altri 13 di approfondimento (che tengono in considerazione la vicinanza a monumenti di interesse storico, habitat protetti o coltivazioni agricole di particolare qualità e tipicità) per circoscrivere ulteriormente la scelta, si è arrivati alla definizione della CNAPI, la Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee a ospitare le scorie, attualmente smistate in 22 depositi temporanei in tutta Italia.
La CNAPI, in possesso del Ministero dello Sviluppo Economico dal 2015 e tenuta in regime di riservatezza – non è chiaro per quali motivi – fino a un anno fa, con minaccia di sanzioni penali, è stata resa pubblica dalla SOGIN solo il 5 gennaio 2021. Il documento identificava, con diversi gradi di compatibilità, 67 località in sette Regioni (Piemonte, Toscana, Lazio, Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna) potenzialmente candidate a ospitare il deposito nazionale. In particolare, 12 città, tra le province di Torino, Alessandria e Viterbo, risultavano le più idonee.
La notizia ha scatenato l’ira dei sindaci e delle Regioni che si sono lamentati di aver appreso della pubblicazione Carta sulla stampa: «È per noi una doccia gelata: le istituzioni locali sin qui non erano mai state interpellate» ha commentato all’epoca Alesio Valente, sindaco di Gravina, una delle località in Puglia ritenute idonee. A Carmagnola, in Piemonte, i coltivatori locali hanno organizzato una protesta sfilando con 250 trattori per le strade del paese. In Sardegna – dove nel 2011 un referendum ha chiuso la questione nucleare e scorie sul territorio – i politici di tutti i partiti hanno dichiarato fronte comune per esercitare una forte opposizione alle scelte della Sogin. In tutta la penisola sono nati diversi i comitati “No scorie” che hanno organizzato sit-in nelle piazze per esprimere il totale dissenso alla realizzazione del deposito nel proprio territorio.
Da quel momento, le Regioni avevano 60 giorni di tempo (quindi entro il 5 marzo 2021) per presentare le proprie osservazioni alla CNAPI, successivamente diventati 180 in seguito a un emendamento al decreto Milleproroghe, proprio per venire incontro alle esigenze degli enti locali. In una corsa contro il tempo, entro il 5 luglio 2021 oltre 20 mila pagine di documenti e relazioni tecniche sono state inviate alla SOGIN.
A quel punto, sono partiti i lavori per il seminario nazionale, una consultazione pubblica che ha coinvolto tutti gli Enti locali, i comitati No Scorie, le associazioni ambientaliste, le università – in generale tutti i portatori di interesse delle zone coinvolte – in un confronto in nove sessioni che si è concluso lo scorso 24 novembre. Oltre 300 partecipanti, tra cui diversi relatori tecnico-istituzionali che hanno risposto alle domande, formulate durante le dirette streaming, sulla sicurezza dei lavoratori, della popolazione e dell’ambiente e i benefici economici collegati alla realizzazione dell’opera.
La consultazione pubblica con i 67 siti ritenuti idonei al Deposito non è andata a buon fine: nessun Comune, come previsto, ha presentato l’autocandidatura. Nonostante la CNAPI escluda il 99% del territorio italiano, tutti i rappresentanti delle aree considerate potenziali in Piemonte, Toscana, Lazio, Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna, hanno espresso pareri negativi. C’era anche chi avrebbe voluto il deposito sul proprio territorio e non è stato incluso nella CNAPI iniziale: è il caso del sindaco di Trino Vercellese, in Piemonte, che ritiene il suo Comune adatto proprio per la presenza di un deposito provvisorio.
Seppure ristretta, la scelta finale resta un’impresa e non lascia molte vie d’uscita, a testimonianza di come il processo di coinvolgimento dal basso non stia funzionando a perfezione.
Le ragioni dei no
Dietro i pareri negativi di Regioni ed enti locali ci sono motivazioni di merito e di metodo. Nel merito, ognuno ha presentato ragioni simili: la produzione agricola di pregio, la presenza di siti archeologici, monumenti storici, parchi e oasi naturali, la vicinanza a falde acquifere, fabbriche e materiale pericoloso, a zone a rischio sismico e idrogeologico.
Piemonte e Lazio – ricostruisce Luca Zorloni su Wired – hanno motivato il loro diniego alla luce della loro esperienza negativa di bonifica (in mano sempre a SOGIN) di alcuni ex-siti nucleari presenti sui loro territori.
Nel metodo, in molti hanno criticato i criteri di esclusione. Sono stati messi in discussione i dati SOGIN sulla valutazione di rischio idrogeologico di alcune aree, basate su valutazioni che si sono effettivamente rivelate superate o errate, scrive ancora Wired. Nella zona di Viterbo, non è stata presa in considerazione la vicinanza della centrale elettrica di Montalto di Castro; nel torinese, una delle località individuate è nei pressi di una falda freatica che potrebbe interferire con le fondazioni del deposito; nell’alessandrino, l’area individuata è nota per rischi di alluvioni e inondazioni e la presenza di impianto a rischio di incidente rilevante.
Quali sono le prossime tappe
Come detto, il 15 marzo SOGIN ha inviato la CNAI (Carta Nazionale Aree Idonee) al Ministero della Transizione Ecologica. Dopo di che si dovrà attendere il parere dell’ISIN, quindi l’approvazione del MiTE in concerto con il Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili. A quel punto, ci sarà l’attesa per le manifestazioni di interesse e i negoziati con gli Enti locali. In assenza di un’autocandidatura, come auspicato dalla normativa vigente (decreto legislativo n. 31 del 2010), sarà il MiTe a decidere dove cadrà l’impianto. Un’eventualità che si spera di evitare considerata l’impopolarità della struttura. Il noto geologo del CNR Mario Tozzi ha più volte proposto di uscire dall’impasse ricorrendo a «un territorio del demanio militare, già asservito ai militari stessi che lo custodirebbero, e che abbia anche le altre condizioni soddisfatte. Se invece vogliamo metterci di nuovo nella logica del “A me no perché ho già altre servitù” vuol dire che non matureremo mai come paese».
Come funziona all’estero
C’è una mappa molto esaustiva che mostra come in tutti gli altri paesi europei sono già presenti o in costruzione depositi nazionali. In tutta Europa, le modalità di governance ambientale – definite nella Convenzione di Åarhus del 2001 – auspicano un approccio partecipativo con le comunità e gli stakeholder per decisioni come la localizzazione di un sito di stoccaggio di rifiuti radioattivi. Così sono stati scelti i depositi in Belgio, Slovenia, Finlandia e Svezia.
Uno degli esempi più noti è il Centre de l’Aube nel nord-est della Francia, attivo dal 1992, con una capacità di un milione di metri cubi di rifiuti. Quando il sito fu scelto, l’85% della popolazione locale era inizialmente contraria. Si trova nella regione dello Champagne e viene spesso citato come modello dalla Sogin perché la presenza del deposito non ha intaccato le attività nell’agricoltura né del turismo, anzi le ha incentivate. Durante la plenaria di apertura del seminario nazionale, Philippe Dallemagne, Vicepresidente del Dipartimento de l’Aube e Sindaco del Comune di Soulaines-Dhuys, ha infatti parlato di come si sia costruito un rapporto di fiducia solido negli ultimi trent’anni: il territorio – già noto per la produzione vinicola e di formaggi DOC – ha visto aumentare gli introiti fiscali, i posti di lavoro e persino il turismo di tipo industriale. L’ANDRA – la società che gestisce lo stoccaggio dei rifiuti in Francia – è diventata “un operatore locale e un catalizzatore economico”, secondo Dallemagne.
Tuttavia, scrive il Financial Times, il problema dello smaltimento dei rifiuti non ha ancora trovato una soluzione a lungo termine in nessun paese. Neanche in Francia, dove il potenziale sito di Bure – nel quale il governo vuole sotterrare rifiuti irreversibilmente a partire dal 2150 – è diventato un campo di battaglia per le proteste di tutti gli antinuclearisti francesi.
Le incognite
Ci sono diverse incognite sulla riuscita nei tempi del progetto del deposito nazionale: una di queste riguarda proprio la SOGIN, che nei mesi scorsi è finita sulla stampa per una indagine interna che ha portato alla contestazione di otto dipendenti (di cui sette dirigenti) e alla sospensione di tre di loro. La vicenda, pur non essendo direttamente collegata alle operazioni di decommissioning, getta ulteriori ombre sull’effettivo funzionamento della società di Stato; lo stesso ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani ha ribadito di recente che non si esclude un commissariamento. Secondo quanto rilevato a marzo 2021 dalla Commissione bicamerale Ecomafie, proprio il frequente avvicendamento dei vertici di SOGIN in questi anni ha “inciso in misura rilevante sulla programmazione strategica dell’attività dell’azienda, rendendo più faticoso l’iter di definizione dei criteri di efficienza economica (con il riproporsi di periodi di transizione) e determinando frequenti cambiamenti delle politiche aziendali, con effetti negativi sulla continuità e coerenza dell’applicazione delle strategie di decommissioning”.
A questi si aggiungono i dubbi sull’ISIN, l’ente che dovrebbe autorizzare la Carta finale. Sempre la Commissione bicamerale Ecomafie riporta che l’ISIN si trova a dover fronteggiare da anni “il problema dell’inadeguatezza delle risorse. Oltre alla già nota carenza di personale, sono stati sottolineati, nel corso delle audizioni, numerosi e rilevanti problemi organizzativi dell’Ispettorato (organizzazione amministrativa, bilanci, inquadramento del personale, contratto di lavoro applicabile, difficoltà nella organizzazione di concorsi e così via), che ne pregiudicano l’auspicata efficienza, anche nella prospettiva dei prossimi mesi o anni”. Tutto questo rallenta ulteriormente tutta l’attività di SOGIN, dalla dismissione delle ex centrali nucleari all’individuazione del deposito nazionale delle scorie. Emblematico – ricorda ancora Wired – è il caso della centrale di Latina, per la quale SOGIN aspettava il via libera per intervenire dal 1997 e che è arrivato solo nel 2020.
Ritardi che non fanno altro che lievitare i costi. Sempre secondo il rapporto della Commissione Ecomafie, nel 2008 si prevedeva di completare i lavori di decommissioning entro il 2019 con un costo di 4,47 miliardi di euro (inclusi i costi del deposito nazionale per le scorie). Nel programma 2017, il completamento dei lavori è stato posticipato al 2036 e i costi saliti a 7,2 miliardi di euro.
Ogni anno di ritardo nelle attività di decommissioning ci costa circa 10 milioni di euro ciascuno. Un danno anche economico non indifferente – oltre al deficit sulla messa in sicurezza degli impianti – considerato che, scrive la Commissione Ecomafie, “la copertura dei costi di disattivazione è attuata attraverso una componente tariffaria a carico della bolletta dei clienti elettrici. Di anno in anno le erogazioni variano; ad esempio, nel periodo tra il 2012 ed il 2018, dalla componente tariffaria specifica sono stati effettuati prelievi variabili tra i 100 ed i 400 milioni di euro all’anno”.
Nel 2021 SOGIN ha fatto sapere di aver chiuso con una previsione di avanzamento fisico delle attività di decommissioning degli impianti nucleari, grazie a un lavoro di efficientamento dei processi e delle azioni di risanamento intraprese, pari al 7,2% (oltre l’obiettivo di budget fissato inizialmente al 6,6%), e conta di arrivare a un avanzamento fisico del 45% entro fine anno.
La realizzazione del Deposito rientra in una di quelle questioni di urgenza nazionale: se ci saranno nuovi ritardi, l’Italia dovrà negoziare nuovi contratti milionari con la Francia per lo stoccaggio temporaneo dei rifiuti degli ex impianti. Insomma, abbiamo solo da perdere sia sul fronte economico che su quello ambientale. Riusciranno le istituzioni ad arrivare a una scelta condivisa e trasparente? Riuscirà l’opinione pubblica a comprendere la necessità di agire in fretta?