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La mente dell’urbanistica romana – una riflessione di Walter Tocci

(dal blog di Walter Tocci 27 novembre 2022) La rivista Urbanistica Informazioni ha pubblicato, nel numero 302/2022, un dibattito sul Piano Regolatore del 1962, curato da Rosario Pavia, con la partecipazione di  Domenico Cecchini, Luca Montuori, Piero Ostilio Rossi, Nicolò Savarese, Roberto Secchi e il sottoscritto. La riflessione critica sul passato, svolta dagli autori con approcci molto diversi, è stata anche l’occasione per fare il punto sui temi di attualità. 

Nel mio contributo ho sostenuto la tesi dell’esistenza di una “mente” dell’urbanistica romana – da intendere come l’insieme di teorie e pratiche, di progettazioni e consuetudini, di miti e angustie – che regola i comportamenti degli amministratori, dei tecnici, degli imprenditori e dei politici. Questo orientamento cognitivo della pianificazone si è formato con il Piano Regolatore del 1962 e ha prodotto molti effetti negativi che ancora oggi influenzano la gestione del territorio. Cambiare la mentalità, quindi, è una condizione, non la sola, per operare una svolta nell’urbanistica romana.   

Di seguito potete leggere una parte del mio saggio.

È tempo di uccidere il padre dell’urbanistica romana: il Piano Regolatore del 1962. Ha dominato la storia territoriale della capitale della Repubblica nel secondo Novecento. Ed è la fonte degli errori e delle sconfitte di tutta la pianificazione successiva.
In questo mio giudizio, non lo nascondo, c’è una forzatura unilaterale, ma mi pare necessaria per innescare una svolta. So bene che la valutazione storica andrebbe contemperata tenendo conto della cultura del tempo, valorizzando le parti positive e distinguendo i difetti tra la teoria e la pratica. Tuttavia tali attenuanti non sono sufficienti a evitare la pena capitale: già all’epoca erano disponibili nel dibattito internazionale soluzioni e metodi diversi; la parte più positiva – il mirabile parco dell’Appia Antica – fu aggiunta per iniziativa del Ministero dei Lavori pubblici in contrasto con il piano adottato; l’alibi della cattiva attuazione è spesso utilizzata dagli urbanisti per salvare i propri progetti, seguendo il cattivo esempio di quei politici che dopo ogni sconfitta dicono “la linea era giusta ma è stata gestita male”.
I criteri di valutazione di una buona pianificazione dovrebbero essere ben più ambiziosi: il coraggio di innovare rispetto alla cultura corrente; gli effetti positivi che non hanno bisogno di essere declamati poiché si riscontrano nella vita quotidiana; la resistenza della struttura urbana alle cattive gestioni delle amministrazioni successive. Niente di tutto ciò si può annoverare a merito del Prg del ‘62.Come ricorda in queste pagine Piero Ostilio Rossi, il suo disegno emerse nel dibattito nell’immediato dopoguerra, già nella prima commissione del 1946, in ricercata rottura non solo con la cattiva ideologia ma anche con le buone idee della pianificazione precedente (Pietrolucci 2021). E ha poi istituito un apparato normativo e una trama territoriale tanto deboli nel contrastare la rendita e l’abusivismo, ma anche tanto forti nell’improntare il modo di pensare e di gestire il territorio fino ai giorni nostri.
Certo, effetti di così lunga durata non si possono addebitare solo a un disegno urbanistico. Il Prg è stato un segnavia. Ha indicato il percorso, ma ne ha anche subito la direzione. Ha elaborato una propria razionalità, ma ne è rimasto anche vittima.
Esiste una mente del Prg, intesa come l’insieme di teorie e pratiche, progettazioni e consuetudini, miti e angustie che orientano i comportamenti degli amministratori, dei tecnici, degli imprenditori e dei politici. Essa ha guidato per oltre settanta anni la trasformazione della capitale repubblicana, con una cogenza concettuale perfino più forte di quella imposta dai vincoli dalle norme e dalle mappe. L’esito è disastroso: una delle più estese e più frammentate conurbazioni europee, con elevatissimi costi dei servizi pubblici, dissipazione di energia e di territorio, e infima qualità urbana. La patologia urbana è la conseguenza della mente malata del Prg del ‘62.
Il riferimento alla versione approvata quell’anno è convenzionale, come per sottolineare una ricorrenza dei sessanta anni trascorsi fino ad oggi. Un esame analitico dovrebbe prendere in esame tutte le altre versioni: la proposta del Cet del ‘57; il piano pubblicato in seguito alla delibera del Consiglio comunale del ‘59; la proposta dei saggi del luglio del ‘62, poi modificata e adottata nel dicembre dello stesso anno; il piano approvato dal Ministero nel ‘65 e infine la variante generale del ‘67. Come è noto queste versioni presentano significative differenze che sono state determinate dalle mutevoli sorti dell’aspra battaglia politica tra gli urbanisti riformatori e la giunta comunale. Esse sono molto importanti sul piano storico perché testimoniano come i contenuti innovativi venissero continuamente rimessi in discussione dal blocco di interessi immobiliari rappresentato dal partito democristiano (Insolera 2011). Tuttavia, le pagine seguenti prescindono da tali differenze, poiché sono rivolte a studiare lo strato più profondo della mentalità che in qualche modo ha condizionato sia i riformatori sia i conservatori.

1. Senza cura del ferro
La malattia ha determinato la lunga durata di alcuni malintesi, in certi casi di grossolani errori, e comunque di fuorvianti rappresentazioni dei problemi urbani.
L’errore tecnico più grave sul piano teorico e più pregno di risultati nefasti è la totale assenza nella mente dei pianificatori della moderna cultura del trasporto su ferro. In alcuni documenti preparatori del 1959 si leggono frasi sconcertanti come questa: “si possono ottenere con gli autobus velocità commerciali superiori a quelle delle metropolitane senza ricorrere ai grandi investimenti” (Pagano 2019). È incredibile che persone di provata competenza commettessero errori tanto grossolani. Di conseguenza è venuto fuori un disegno di piano privo della rete su ferro e strutturato solo con la grande viabilità. Le metropolitane A e B sono state inserite successivamente per iniziativa del Ministero dei Trasporti.
Si può invocare come alibi il mito internazionale dell’automobile, ma in quegli anni esso non impedisce alle grandi città europee di potenziare le infrastrutture già realizzate prima della guerra e in alcuni casi risalenti all’Ottocento. Per rimanere al caso italiano, negli stessi anni Milano avvia un coraggioso programma di costruzione delle metropolitane ancora oggi in pieno sviluppo. D’altronde, anche la capitale in età giolittiana realizza una delle più ampie reti tranviarie europee (Tocci, Insolera, Morandi 2008) e negli anni venti la metropolitana per Ostia – molto innovativa per l’accesso a raso, le pensiline in cemento armato e la bella stazione liberty di Marcello Piacentini davanti alla Piramide – oggi purtroppo ridotta alla peggiore ferrovia italiana. Ancora nell’immediato dopoguerra si porta a conclusione – tra il ‘48 e il ‘55 – la metropolitana Termini-Eur avviata dal regime fascista.
Perfino nella dimensione immaginativa il ferro sorregge l’ambiziosa pianificazione del 1929 proposta dal gruppo Gur, del quale fa parte anche Luigi Piccinato, e costituita da un insieme di città satelliti collegate da grandi linee di trasporto su scala regionale.
Quindi, l’ignoranza del Prg/62 ha bloccato una politica del ferro già bene avviata nella prima metà del secolo e ha creato, proprio nel massimo dell’espansione demografica, un pauroso deficit infrastrutturale, ancora oggi ben lungi dall’essere colmato.
Al di là della retorica modernista il piano di Piccinato1 ha alimentato l’arretratezza della capitale. Ha lasciato in eredità un ritardo non solo quantitativo, ma anche culturale. Quando poi si sono legittimate le metropolitane, nel piano è rimasta una logica sbagliata, imperante anche ai giorni nostri.
Per un malinteso di lunga durata, infatti, a Roma il trasporto su ferro è considerato il servo e non il sovrano della trasformazione. Le localizzazioni degli insediamenti sono decise sulla base di disegni astratti o interessi consolidati e solo dopo, nei casi migliori, ci si pone il problema di servirli con linee su ferro. Queste sono costrette a inseguire le espansioni decise a priori e di conseguenza si accumula il deficit di infrastrutture, anche a causa della bassa operatività degli investimenti. Non si è mai concepito il ribaltamento della logica: localizzare i nuovi insediamenti solo sulle stazioni di ferro già realizzate oppure realisticamente attuabili contemporaneamente al piano urbanistico. In questo modo si ottengono molti vantaggi: gli investimenti sono ottimizzati servendo un maggior numero di cittadini a costi marginali; i servizi pubblici sono più efficaci; la struttura urbana è più compatta.
Se non si utilizzano le reti su ferro per plasmare la forma urbana si arriva sempre ad ammettere che la pianificazione è fallita. I trasporti sono l’unica matita ancora disponibile per disegnare il futuro della città; una matita molto più efficace della norme e dei piani astratti.
Tutto ciò è ben definito a livello internazionale nella teoria e nella pratica del Transit Oriented Development (TOD), codificata in California negli anni novanta da Peter Calthorpe, ma anticipata già nei primi anni cinquanta dal Finger plan di Copenaghen (Reale 2008). Questa metodologia fino a oggi non è mai stata applicata a Roma. È il sintomo che il Prg/62, ben oltre la sua vigenza normativa, ha lasciato in eredità una grave malattia della pianificazione. Due generazioni di urbanisti che si sono formati durante la sua elaborazione e la sua attuazione hanno maturato un’evidente sottovalutazione del ferro, almeno fino agli anni novanta.
Basta un esempio per chiarire gli effetti. Alla fine degli anni ottanta si aprì al al pubblico la direttrice Tiburtina della metro B fino a Rebibbia con alcune stazioni collocate in aperta campagna. Per trenta anni la fermata Quintiliani ha servito i cittadini solo per andare a cogliere la cicoria nei prati circostanti. Nello stesso periodo in quel quadrante sono stati realizzati grandi quartieri (Casal Monastero e Settecamini in previsione di piano) e insediamenti direzionali, (il complesso del Ministero delle Finanze a Tor Sapienza in deroga al piano), tutti collocati a ridosso del Gra, ben oltre il capolinea di Rebibbia. Di conseguenza oggi bisogna prolungare la metro – ecco il deficit infrastrutturale – mentre rimangono inutilizzate le aree delle stazioni più interne. Se, azzardando un ragionamento euristico, i nuovi insediamenti residenziali e terziari fossero stati realizzati nel settore compreso tra le stazioni Quintiliani e Tiburtina (a 8 km dal Campidoglio), invece che consumare l’agro intorno al Gra (a 18 km), si sarebbero ottenuti enormi vantaggi per gli investimenti pubblici e per la struttura urbana e si sarebbero risparmiati ai cittadini trent’anni di ingorgo quotidiano sulla via Tiburtina. E oggi non ci sarebbe necessità di raddoppiarla, come si va facendo con molta fatica.

2. Il mare non bagna Roma
C’è un secondo malinteso, stavolta di natura ideologica, che ha impedito ai pianificatori perfino di immaginare il rapporto di Roma con il mare. L’interdetto nasce dal ripudio della retorica fascista – iniziata con il discorso di Mussolini in Campidoglio il 31 dicembre del 1925: “La terza Roma si dilaterà sopra altri colli, lungo le rive del fiume sacro, sino alle spiagge del Tirreno”, e poi cristallizzata nel misterioso piano della Cometa che prolungava la città verso il Litorale passando per il nascente quartiere dell’Eur. Misterioso perché è l’unico piano di Roma che ha avuto una coerente attuazione, pur non essendo note né le sue planimetrie né le sue norme. All’elaborazione del documento urbanistico aveva partecipato anche Piccinato, ma dopo la Liberazione lo rifiuta – come d’altronde aveva dimenticato anche la priorità del ferro del progetto Gur – forse nell’intento di oscurare o dimenticare la precedente collaborazione con il regime fascista.
La ripulsa è comprensibile e nobile come sentimento antifascista, ma è del tutto sbagliata come logica pianificatoria. Né può valere l’alibi della presenza di grandi interessi speculativi nel quadrante occidentale; semmai essi rendevano necessario un piano più forte e più attento proprio in quella direzione. Basta, invece, osservare una pianta a scala 50 mila per cogliere immediatamente la scarsa cura tecnica, la debolezza infrastrutturale, l’assenza di struttura, e ciò nonostante le grandi espansioni edilizie di Tor Pagnotta, Torrino e Spinaceto. Tutto questo rivela un incomprensibile rifiuto a organizzare il territorio occidentale, con effetti di disagio ambientale e sociale oggi molto intensi.
Anche in questo caso il Prg/62 interrompe un percorso positivo della prima parte del Novecento, iniziato in epoca giolittiana con le iniziative industriali promosso dal sindaco Nathan e poi con l’ambizioso progetto di sviluppo del Litorale di Paolo Orlando, con i tessuti urbani di qualità a Ostia per merito del Sanjust e in seguito di Piacentini, come racconta bene Piero Ostilio Rossi in questo numero. Anche per le infrastrutture il quadrante si collocava all’avanguardia, con ben due assi su ferro ai lati del fiume, che sono rimasti gli unici fino a oggi.
Nel secondo Novecento il Litorale diventa un’immensa periferia. Il mare non bagna Roma, parafrasando la narrazione di Anna Maria Ortese (1994) su Napoli. Si innesca la più virulenta delle plaghe abusive, che coinvolge tutti gli strati sociali, dal sottoproletariato del borghetto dell’Idroscalo ai piloti dell’Alitalia nelle ville dell’Infernetto. Peraltro, la grande struttura dell’Aeroporto non induce effetti di qualità nell’intorno e anzi sembra come se volesse saltare la plaga edilizia per cercare una relazione diretta con il centro della capitale. L’espansione speculativa dilaga nell’enorme spazio tra la città e il mare, senza trovare ostacoli né fisici né normativi. Con la sacrosanta eliminazione dei borghetti vengono trasferiti molti cittadini romani nelle case comunali di Ostia, subito abbandonate al degrado manutentivo, con effetti di sradicamento che aprono i varchi alla criminalità delle famiglie Spada e Fasciani. Gettato nell’incuria è tutto il formidabile patrimonio culturale e ambientale, dai porti antichi di Claudio e Traiano, alle dune, alle pinete, all’idraulica della bonifica. L’assenza di qualsiasi progetto di sviluppo favorisce la crescita di un’economia dell’appropriazione che si impadronisce dell’arenile e chiude il mare dietro un muro interminabile di stabilimenti.
La capitale più mediterranea ha smarrito la relazione con il mare. Al contrario di altre città come Barcellona o Tel Aviv che hanno saputo trasformare i rispettivi waterfront come occasioni dello sviluppo economico e del buon vivere.
La malintesa ripulsa antifascista ha impedito per oltre mezzo secolo di riconoscere i grandi valori ambientali, non solo il mare, ma anche il Tevere e la Campagna romana, entrambi clamorosamente ignorati dalla mente del Prg/62. Da questa pesante eredità negativa deve partire oggi una grande riconversione ecologica per restituire a Roma la vitalità della sua natura ambientale e storica.

3. Dall’Asse attrezzato all’Anello autostradale
La mente del Prg non è mai riuscita a pianificare l’altrove urbano. Cioè non è stata in grado di cambiare la forma urbis, di realizzare nuove polarità, di creare un’alterità spaziale, neppure quando era ancora possibile guidando l’espansione in atto. Non si può dire che sia mancata l’utopia, anzi il disegno di Piccinato è stata la più prometeica promessa della Roma novecentesca: spostare il centro e nel contempo cambiarne la geometria trasformandolo in un Asse attrezzato nella campagna orientale. Né prima né dopo si è mai pensato con lo stesso coraggio il cambiamento della capitale.
Le cose, però, sono andate diversamente: invece dell’Asse attrezzato abbiamo avuto il Grande raccordo anulare. Invece della purezza del simbolo del piano, la promiscuità con l’anti-piano dell’abusivismo. Invece di una guida del cambiamento, la conservazione del già fatto. Invece della vittoria dell’illuminismo riformatore, la rivincita della vandea borgatara. Invece della volontà di potenza, la mestizia della rassegnazione.
C’è un rapporto tra l’asse e l’anello? Pur così diversi, sono legati l’uno all’altro da un filo nascosto. Il secondo è il negativo del primo, non solo nel senso banale di opposto, ma più profondamente come una contrapposizione che pur negando stabilisce una relazione.
L’asse voleva concentrare la mono funzione terziaria, l’anello ha reso possibile un ammasso eterogeneo di funzioni commerciali, residenziali, industriali e terziarie, ma entrambi hanno negato l’integrazione dei tessuti.
L’asse voleva delocalizzare il centro, l’anello si è contornato di piccole centralità, tanto deboli per quantità e qualità da accentuare la struttura centripeta.
Come è potuta accadere questa eterogenesi dei fini?
Ha pesato molto la presunzione dei pianificatori che hanno visto nascere il Gra già nel ‘46, ma lo hanno sottovalutato, pensando che sarebbe stato assorbito dal loro disegno assiale, come spiega Rosario Pavia in questo numero. E invece è accaduto che l’opera imprevista vincesse sulla sicumera delle previsioni. Sarebbe stato più saggio prendere atto e cercare una mediazione tra l’incipiente anello e il futuro asse, salvando il disegno del piano. Ciò avrebbe comportato l’organico inserimento del Gra nel progetto urbanistico della città. Questo semplice riconoscimento non solo non è venuto dagli urbanisti del ‘62 ma da nessuno dei successori. Per settanta anni quella parte di città, pur essendo il vulcano della trasformazione che spargeva la lava borgatara nella campagna, non hai mai ottenuto una pianificazione strategica. Perfino il Prg del 2008 non lo ha inserito nel pur lodevole strumento che si era dato: gli ambiti di programmazione strategica. Un’altra conferma della lunga durata della mente del Prg/62.
Sul blocco dell’Asse attrezzato la ricerca storica dovrebbe approfondire le cause, studiando in modo particolare il conflitto tra le correnti della Dc. Non è un caso che la vittoria dell’anello contro l’asse sia determinata dal prevalere del galleggiamento doroteo sul dirigismo fanfaniano, allora insediato nelle Partecipazioni Statali (PPSS). Qui forme della città e forme della politica vengono quasi a coincidere.
Dopo la vittoria, il Gra ha consolidato il suo potere urbanistico risolvendo un grave problema del Prg/62. La previsione di una città di 5 milioni di abitanti da servire solo con l’automobile, senza le concentrazioni favorite dai trasporti su ferro, aveva comportato il disegno di una rete stradale molto estesa ed articolata. Negli anni settanta però la popolazione si ferma al di sotto dei 3 milioni e anzi comincia a diminuire a favore dell’hinterland. Sull’area metropolitana poi si raggiungerà la popolazione di quasi 5 milioni, ma con una conurbazione molto diversa da quella pianificata nel ‘62.
In tale contesto diventa insostenibile l’investimento sull’enorme maglia stradale urbana, che infatti viene realizzata solo a tratti, per lo più nei segmenti interni alle lottizzazioni convenzionate e ai piani di zona della 167. Dall’incompiutezza discende l’evidente forma frattale della rete, con quello che comporta sugli ingorghi quotidiani.
Erano possibili solo due soluzioni del problema. La soluzione più limpida consisteva nel ridimensionare la maglia urbana a misura dei 3 milioni di abitanti nel confine comunale, mediante l’elaborazione di un nuovo Prg di scala metropolitana, ma era un’ipotesi irrealizzabile, poiché la Dc non era interessata alla pianificazione e il Pci nel frattempo aveva sacralizzato il piano del ‘62, pur non avendolo approvato. È prevalsa, quindi, la soluzione di ripiego, ovvero la realizzazione della vecchia maglia per segmenti di strade, poggiate sulle vecchie consolari, rimaste come erano, fino ai giorni nostri. Però non poteva bastare, e allora una sorta di genialità dorotea, presente in varia misura in tutti i partiti, scoprì che l’espansione dell’abusivismo e dell’edilizia pubblica poteva poggiare sul Gra. Bastava allargare la sua sezione stradale, passata dagli iniziali dieci metri agli attuali quasi cento, invece di realizzare la maglia. L’autostrada consentiva in breve tempo di offrire una minima accessibilità alle borgate e agli insediamenti terziari e commerciali, seppure a prezzo di un’infima qualità urbana e di una penuria infrastrutturale, che oggi è molto difficile sanare.
L’anello è stato il grande riduttore di complessità del Prg/62. Ha concentrato su se stesso tutte le relazioni, legittimando ed eludendo la mancanza di reti nella conurbazione. Da qui deriva la sua potenza e la sua fragilità: non possiamo farne a meno, ma ci lascia bloccati nell’ingorgo. A tutto ciò, di solito, si risponde aggravando la causa della patologia, con la proposta di nuovi anelli autostradali. Invece, si dovrebbe disegnare una rete intermodale di trasporti e di viabilità a scala metropolitana, ma nessuna pianificazione si è mai cimentata con la sfida, dando ragione a posteriori al ripiegamento doroteo.
La riduzione di complessità ha impresso la marcata forma frammentata su un’ estesa conurbazione a bassa densità. Gli insediamenti sono come tanti acini dei grappoli della vite, non hanno alcuna relazione tra loro e sono abbarbicati alle consolari e all’autostrada. La separazione è il carattere peculiare di questa periferia anulare e si riscontra a tutte le scale: tra i lotti delle famiglie di borgata, tra una borgata e l’altra, tra queste e i centri commerciali, i poli terziari isolati, i capannoni della logistica, gli smorzi e gli sfasciacarrozze; e tutto ciò è sempre più lontano e ostile rispetto alla città.
Lo strumento urbanistico che ha favorito la separazione è la lottizzazione convenzionata, inventata proprio dal Prg del 62, prima che venisse organicamente inserita nella successiva legge-ponte (Insolera 2011: 249). L’intento era positivo, poiché voleva impegnare i costruttori a realizzare interi quartieri con tutte le dotazioni necessarie, superando le vecchie speculazioni che avevano costruito le case senza i servizi. Nella realtà però le convenzioni sono divenute lo strumento principe dell’espansione immobiliare e hanno realizzato tante monadi chiuse al proprio interno, prive di qualsiasi relazioni con i contesti e con le preesistenze urbane.
La periferia anulare è composta da tante eterotopie, separate l’una dall’altra e ciascuna chiusa nel proprio mondo. L’idea della città lineare si è frantumata in mille pezzi intorno al Gra. È la frammentazione dei luoghi e delle vite descritta magistralmente dal Sacro Gra di Nicolò Bassetti e Gianfranco Rosi.
L’utopia dell’Asse attrezzato è caduta nell’eterotopia dell’Anello autostradale. Ecco l’incapacità della mente del Prg/62 di governare l’altrove urbano: quando lo pensa nel futuro prende le sembianze dell’unità organica, ma poi quando si trova ad attuarlo nel qui e ora esso si manifesta come eterogeneità spaziale e sociale.
La caduta dell’utopia nell’eterotopia non riguarda solo il Prg/62, ma è una costante di tutta l’urbanistica romana del Novecento.
L’utopia dell’equilibrio urbano del piano Sanjust – con la studiata composizione di villini, palazzi e intensivi, tutti ben proporzionati alle strade e agli spazi pubblici – viene stravolta dall’eterotopia delle palazzine – da allora quasi un culto romano – che frammentano i tessuti urbani come dadi gettati sul tavolo, secondo l’immagine di Carlo Emilio Gadda, forse condizionato dalla nostalgia delle siedlungen milanesi.
L’immaginifico schema regionale delle città satelliti ad opera del GUR sembra vaticinare la ben più prosaica diffusione dello sprawl metropolitano.
La figura della città compatta di Piacentini viene accompagnata dalla nascita delle prime borgate che innescano la grande frantumazione della periferia del dopoguerra.
La retorica del Mare dell’impero si tramuta nella più redditizia speculazione, borgatara e palazzinara delle aree verso il Litorale, svelando in negativo il mistero del piano della Cometa.

4. La dissonanza urbana
….

5. La povertà cognitiva
….

6. La razionalità dogmatica….

7. Una testimonianza personale
L’idea del parricidio, in tutta sincerità, è sostenuta da una testimonianza personale. Il mio rifiuto radicale, come spesso accade, è il capovolgimento di un’intensa relazione.
Mi sono formato come militante del Pci nella periferia romana. Per noi giovani attivisti l’urbanistica era il pane quotidiano, non era affatto una tecnica, ma il “proseguimento della politica con altri mezzi”, come dicevamo parafrasando von Clausewitz. Oggi sarebbe impensabile: i militanti si formano sui social e vedono l’urbanistica come una disciplina astrusa e inutile. Per la nostra Bildung, invece, l’opera di Piccinato era sullo stesso scaffale dei Quaderni del carcere di Gramsci.
Soprattutto noi comunisti eravamo gli strenui difensori del Prg, pur non avendo votato a favore al momento dell’approvazione in Consiglio comunale. Il paradosso si spiega con il comportamento opposto della Dc, che ovviamente ne portava la responsabilità dell’approvazione come partito di maggioranza, ma mostrava ogni giorno di non stimarlo affatto e anzi cercava in tutti i modi di aggirarlo o bloccarlo.
Inoltre, noi militanti comunisti eravamo alla testa del movimento popolare che rivendicava i servizi, il verde e le infrastrutture. Organizzammo centinaia di assemblee per discutere in ogni quartiere la Variante a verde e servizi predisposta per adeguare il Prg agli standard della legge-ponte. Oggi si parla nei convegni di “urbanistica partecipata”, noi non usavamo questo lessico, eppure mai come allora la pianificazione territoriale, perfino con le sue tecnicalità, è entrata nel dibattito popolare, influenzando anche la deontologia professionale degli urbanisti che sentivano il dovere di mettere i propri saperi a disposizione della mobilitazione civile.
Per tutto questo ci parve che fosse diventato il “nostro piano”: non solo lo avevamo migliorato, ma anche orientato a favore dei ceti popolari.
Quando arrivarono le giunte di sinistra di Argan, Petroselli e Vetere cominciò la vera attuazione del Prg. Solo in quel decennio si può dire che sia stato davvero in vigore; né prima né dopo le amministrazioni hanno mostrato la sincera volontà di rispettarne le previsioni. C’è un paradosso tra il breve tempo della cogenza e gli effetti di lunga durata.
I principali difetti e le più gravi carenze della politica urbanistica delle giunte di sinistra sono proprio da addebitarsi all’eccesso di fedeltà al piano: comincia in quegli anni la grande espansione edilizia che proseguirà poi nello sprawl metropolitano; aumenta il deficit infrastrutturale, poiché gli investimenti pubblici, nonostante il grande balzo attuativo (circa 2 miliardi di euro l’anno, dieci volte l’attuale livello di investimento) non riescono a tenere il passo dello sviluppo della conurbazione delle localizzazioni del Prg sempre più lontane dal centro; si perde un decennio per correre dietro all’idea già invecchiata del Sistema Direzionale Orientale (Archibugi 2005).
Su questo progetto curiosamente si consuma l’unica e la più malriposta infedeltà verso il Prg. Per l’attuazione, infatti, viene cancellato il previsto strumento dell’esproprio generalizzato e si introduce la lottizzazione convenzionata. Gli assessori di sinistra immaginano di spostare i grandi centri direzionali dello Stato con lo stesso modello attuativo delle palazzine nell’agro, in quel momento in grande sviluppo. Negli anni successivi, il Pci, passato all’opposizione, convinse la giunta Giubilo a correggere l’errore delle proprie giunte, ripristinando l’esproprio. La decisione fu presa con una votazione all’unanimità in Consiglio comunale e venne recepita e sancita nella legge per Roma capitale n. 396 del 1990. L’esproprio fu poi attuato dalle giunte Rutelli-Veltroni; e oggi si vanno realizzando faticosamente le opere di urbanizzazione. È stata una delle più contorte vicende della politica urbanistica di sinistra.
Il paradosso politico fu determinato dall’improvviso ricambio generazionale del Pci romano. Non si usava allora il termine rottamazione, i modi erano più inclusivi, ma la sostanza non era molto diversa. Dopo la sconfitta nell’85 del sindaco Vetere – nonostante avesse realizzato un grande programma di opere pubbliche – i nuovi dirigenti condussero una serrata autocritica sulla politica urbanistica, non priva di un certo furore giovanile. Venne messa sotto accusa proprio la fedeltà delle giunte di sinistra verso il vecchio Prg e si elaborarono nuove proposte su quattro punti cruciali: a) riduzione delle enormi previsioni espansive approvate a fine consiliatura con il Piano poliennale di attuazione e il secondo Peep, che non si limitava purtroppo a ricucire le borgate, ma consumava altri terreni vergini della campagna romana; b) Variante di salvaguardia per cancellare le previsioni edificatorie nei preziosi sistemi ecologici dell’agro, raccogliendo una sensibilità ambientalista che in quegli anni si era accentuata tra i militanti e gli elettori; c) sradicamento della mala pianta dell’abusivismo, traendo le conseguenze nella vita interna di partito, mediante la rottura della cinghia di trasmissione con il sindacato delle borgate che continuava ad accarezzare la bestia illegale; d) invenzione della cura del ferro – un’espressione che poi ha avuto fortuna – sulla base di un ambizioso progetto integrato di ferrovie e metropolitane, presentato in un grande convegno all’Eur nel 1988. Non si trattava di punti isolati, anzi erano le innovazioni propedeutiche alla proposta di un nuovo piano per Roma. Il rifiuto della pianificazione del ‘62 rompeva definitivamente il tabù del Pci, che non aveva mai voluto metterla in discussione.
Sulla base di queste idee i dirigenti comunisti incontrarono altri orientamenti ideali, parteciparono al dibattito allora intenso sull’urbanistica e strinsero relazioni culturali e poi anche di amicizia con altre persone, per esempio Francesco Rutelli, Mimmo Cecchini, Daniel Modigliani, e i compianti Francesco Ghio e Maurizio Marcelloni. Da questo fecondo crogiolo culturale nacque nel 1993 il programma elettorale centrato sulla proposta di un nuovo Piano regolatore per Roma, che poi venne realizzato nel quindicennio successivo con le quattro giunte di Rutelli e Veltroni.
Non posso dilungarmi in questa sede sul bilancio di quella politica. In breve si può dire che del Prg approvato nel 2008 i lati positivi corrispondono alle rotture e i lati negativi alle fedeltà con il Prg del ‘62.
È molto positiva la Variante delle certezze che ha cancellato tante previsioni edificatorie espansive e ha salvato gran parte della campagna romana. È di grande rilievo la ripartizione della rendita a favore del pubblico, innalzando, in caso di variante, fino al 66% della valorizzazione la quota a favore delle urbanizzazioni. Molto importanti sono anche gli ambiti di programmazione strategica – le Mura, il Tevere, l’Appia Antica, l’asse Flaminio-Fori-Eur – purtroppo rimasti finora tutti inattuati.
Pesano invece sul lato negativo della bilancia le famose centralità: non erano altro che le residue espansioni, ancora inattuate, del Prg/62; essendo tante di numero, piccole di pesi, scarse di qualità funzionale, e prive di relazioni con la periferia circostante hanno finito per accentuare la struttura centripeta che avevano contestato con il principio del policentrismo. Inoltre hanno aggravato il peso sul Gra, senza neppure considerarlo al pari degli altri ambiti di programmazione strategica, proseguendo inconsapevolmente la sottovalutazione di Piccinato. È stato chiamato il nuovo Piano di Roma ma si è trattato dell’ennesima variante del sempre vivo Prg/62.
In conclusione si pone la domanda: da che cosa deriva la lunga durata? Come mai un piano spesso contrastato dalle stesse amministrazioni ha comunque condizionato oltre settanta anni di storia urbanistica? La cogenza implicita deriva, come abbiamo visto, dalla dissonanza urbana, dalla povertà cognitiva e dalla razionalità dogmatica. Ancora di più hanno pesato i malintesi di lunga durata: il ferro servente e non sovrano della trasformazione, il mare che non bagna Roma e la caduta dall’utopia all’eterotopia. La mente del Prg/62 è malata e però ancora attiva.
Se non si compierà l’impietoso parricidio non si potrà né pensare né attuare una vera riforma urbanistica della capitale. Essa può cominciare proprio dai fallimenti cognitivi e operativi della lunga storia dell’urbanistica del secondo Novecento. La cattiva eredità che riceviamo serve a indicare, mediante il suo capovolgimento, l’agenda per la svolta da compiere in futuro: il trasporto su ferro sovrano e non più servo della trasformazione; la riconciliazione della città con gli immensi valori ambientali – il mare, i fiumi, i laghi, la campagna – così profondamente intrecciati ai paesaggi storici, a cominciare dall’Appia Antica; la progettazione della città del Gra, da assumere come il più grande tema di scienza urbana di questo secolo.

Walter Tocci

9 dicembre 2022

Per osservazioni e precisazioni: laboratoriocarteinregola@gmail.com

BIBLIOGRAFIA

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1Per brevità si attribuirà l’intera paternità a Piccinato, ma si dovrebbero considerare tanti altri padri, non solo gli altri urbanisti Mario Fiorentino, Piero Lugli, Vincenzo Passarelli e Michele Valori, ma soprattutto i tecnici dell’Ufficio per il Prg, tra i quali Pietro Guidi, che è stato il vero padre operativo, spesso in contrasto con Piccinato; (Gatti A. 2004).

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