Roma: l’Area Archeologica Centrale per il futuro della città – l’intervento di Vezio De Lucia
Autore : Redazione
Appunti e note sull’Area archeologica centrale
Un secolo fa da piazza Venezia non si vedeva il Colosseo. Dove sta adesso la via dei Fori Imperiali, e sopra i resti dei Fori di Traiano, di Augusto, di Nerva, di Cesare, del Tempio della Pace, si trovava un vasto quartiere cresciuto nel corso dei secoli dopo la caduta dell’impero romano. A ridosso della Basilica di Massenzio, si alzava la collina della Velia (che raccordava l’Esquilino al Palatino) sovrastata dallo splendido giardino di Palazzo Rivaldi. Fu tutto travolto per volontà di Benito Mussolini che volle, nel cuore di Roma, una strada adatta alle parate militari, in uno scenario che doveva celebrare la continuità fra l’impero romano e il regime fascista. Perciò fu scelto un tracciato “dritto come la spada di un legionario”, furono demoliti chiese, case e palazzi, migliaia di sventurati abitanti furono sgomberati e in gran parte deportati nelle borgate che in quegli anni cominciavano a essere costruite dal Governatorato.
Le conseguenze degli sventramenti furono letali. Attraverso le vie dei Fori Imperiali e del Teatro di Marcello, via del Plebiscito – corso Vittorio Emanuele, il Corso, via Nazionale – via IV novembre, da ogni punto cardinale il traffico converge a piazza Venezia, ombelico del mondo. Per la via dei Fori transitavano 60 mila auto al giorno.
Nel dopoguerra Leonardo Benevolo fu il primo a riprendere il problema dei Fori in un libro geniale, Roma da ieri a domani, Laterza, 1971, che propone di sovvertire l’assetto del centro storico, conservando gli edifici antichi, demolendo molti di quelli costruiti dopo l’Unità, sostituendo con spazi aperti gran parte delle strade costruite a seguito degli sventramenti post-unitari, fra questi la via dei Fori Imperiali.
Otto anni dopo, nell’aprile del 1979, fu il soprintendente archeologico Adriano La Regina a formulare per la prima volta in una sede istituzionale l’ipotesi della chiusura della via dei Fori, e poco dopo ne propose la soppressione nel tratto tra piazza Venezia e lo sbocco di via Cavour, “al fine di restituire unità al complesso monumentale più significativo che esista, inutilmente sepolto dall’asfalto”. Non più guastati dalla strada che insensatamente li sovrasta, i Fori di Traiano, di Augusto, di Cesare, di Nerva, il Tempio della Pace dovevano essere trasformati in spazi pedonali, cinque piazze senza pari al mondo per tenere insieme passato e futuro. Per la prima volta i resti archeologici non sarebbero stati racchiusi in un recinto specializzato, equiparati invece “ad altre parti storiche – medievali, rinascimentali, barocche – che la città non ha mai smesso di usare” (Italo Insolera e Francesco Perego, Archeologia e città, Laterza, 1983).
Con l’elezione a sindaco di Luigi Petroselli, quando Argan si dimise, il Progetto Fori – come allora veniva definito il dibattito sull’area archeologica – fu al centro della vita politica e culturale. Nei due anni che corrono dalla sua nomina a sindaco (27 settembre 1979) alla repentina e prematura scomparsa (7 ottobre 1981) il recupero dei Fori, che sembrava a portata di mano, mobilitò le migliori energie, raccolse un consenso vastissimo, dalle autorità di governo alla grande intellettualità internazionale, agli abitanti delle borgate che si stavano risanando. L’esordio del sindaco Petroselli in materia di archeologia fu lo smantellamento della via della Consolazione che separava il Campidoglio dal Foro Repubblicano e l’eliminazione del piazzale fra il Colosseo, l’arco di Costantino e il resto del complesso Foro – Palatino. Si ricostituì così l’unità Colosseo – Foro Romano – Campidoglio e la continuità dell’antica via Sacra. E il Colosseo non fu più uno spartitraffico.
Ma il 7 ottobre del 1981 Petroselli improvvisamente morì, a quarantanove anni. E con lui finirono il Progetto Fori e tutte le cose che aveva cominciato a fare per Roma. Cederna scrisse su Rinascita dello “scandalo” di Petroselli: lo scandalo di un sindaco comunista che aveva capito, a differenza di tanti anche autorevoli storici e intellettuali, l’importanza del passato nella costruzione del futuro di Roma.
Per quanto mi riguarda, continuo a pensare che sia stata quella la stagione più luminosa dell’urbanistica di Roma capitale e sono certo che sulla stessa posizione sia la maggioranza dell’Associazione Bianchi Bandinelli.
Dopo la morte di Petroselli, opportunismo, buonsenso, prudenza, avvolsero lentamente il progetto. I tempi si prolungarono all’infinito. Il successore Ugo Vetere non smentì mai il programma di Petroselli, ma ne rallentò il passo. Decisamente contrari furono gli storici Cesare Brandi, Giuliano Briganti e Federico Zeri. Su la Repubblica Cederna restò isolato e le pagine culturali furono in prevalenza occupate da chi contrastava il nuovo assetto dell’area archeologica.
Nel 1993, la sinistra tornò in Campidoglio con Francesco Rutelli sindaco. Ma la svolta non ci fu. Anzi Rutelli (che pure aveva firmato la proposta di legge di Cederna del 1989 Interventi per la riqualificazione di Roma Capitale della Repubblica) dichiarò che la via dei Fori non doveva essere eliminata. Dopo Petroselli tutti gli altri sindaci hanno continuano a evocare il Progetto Fori, ciascuno intendendo una cosa diversa, comunque mai mettendo in discussione la sopravvivenza della strada (con la sola eccezione di Ignazio Marino e dell’assessore Giovanni Caudo che rilanciarono il progetto all’inizio della loro sfortunata esperienza amministrativa).
All’archiviazione del Progetto Fori ha burocraticamente contribuito la Soprintendenza ai beni architettonici con un vincolo del 2001 sulla via dei Fori che da allora è tutelata al pari dei sottostanti resti archeologici. Leonardo Benevolo scrisse sul Corriere della Sera che era “diventato illegale il disseppellimento degli invasi dei Fori di Cesare, Augusto, Vespasiano, Nerva e Traiano, che renderebbe percepibile ai cittadini di oggi uno dei più grandiosi paesaggi architettonici del passato – e fu colto da un sentimento di sconcerto e di rabbia”.
Si deve a Walter Tocci assessore alla mobilità l’azzeramento del traffico sulla via dei Fori, traffico per il quale è più che sufficiente la via Alessandrina (l’unica strada storica sopravvissuta allo sventramento fascista) che però si sta insensatamente demolendo.
Walter Tocci è anche l’autore del recentissimo e brillante Rapporto sul centro archeologico monumentale di Roma (CArMe), centrato sull’importanza del piano strategico che dovrebbe “riscoprire la prossimità delle antiche piazze imperiali rispetto alla vita cittadina. Questa opera materiale e immaginaria non è riducibile a una tardiva e pur necessaria sistemazione delle aree scavate, ma deve fondarsi su una nuova interpretazione della contemporaneità dell’antico” (p. 6).
Prima di concludere, un omaggio ad Antonio Cederna e al suo capolavoro Mussolini urbanista, Laterza 1979, riprendendo poche righe della biografia di ciascuno dei sette principali sventratori della Capitale cui si deve la Roma di oggi.
Brasini Armando (1853-1947)
Autodidatta, è il campione del titanismo di cartapesta, del pompierismo ipermonumentale e della carnevalata neoromanesca. Nel 1916 progetta l’Urbe Massima, una nuova città lungo la Flaminia fatta di propilei, archi di trionfo, fontane, ninfei, terme, cascate, porticati “di inaudite dimensioni”, colonne onorarie e il restante repertorio della retorica sventratoria. Ma nel 1930 nel suo “progetto di piano regolatore” distrugge il centro storico per la realizzazione della via Imperiale, dalla Flaminia (a Nord) all’Appia (a Sud). Fra le maggiori opere realizzate: il ponte Flaminio e il Tempio della Pace in piazza Euclide. Il suo capolavoro sono le teste di elefante all’ingresso del giardino zoologico del 1909.
Giovannoni Gustavo (1853-1947)
Nella sua opera fondamentale Vecchie città e edilizia nuova è fautore del “diradamento edilizio”, ma quando dalla teoria passa alla pratica finisce con il proporre e sostenere i peggiori sventramenti rivelandosi il più pericoloso di tutti perché autorevole e serio come studioso. Con il gruppo La Burbera firma un piano che annienta il centro barocco della capitale, tanto da farsi duramente criticare dallo stesso Piacentini in una famosa polemica sul Giornale d’Italia. All’insania urbanistica unisce quella architettonica: la piazza assiro-babilonese disegnata all’incrocio del “cardo” e del “decumano” dalle parti di piazza S. Silvestro ne è un esempio obbrobrioso.
Muñoz Antonio (1844-1960)
Dalla fine del 1928 al 1944 è colui che dirige e realizza tutti i maggiori raschiamenti, isolamenti, sventramenti nel centro di Roma. È il braccio esecutore della Roma di Mussolini, il regista del più vasto teatro di demolizioni della storia moderna, è l’autentico “mastro ruinante” di Roma, in nome del traffico, della romanità imperiale, della boria fascista e di altre volgarità. Sono opera sua la via dell’Impero e la via dei Trionfi, la via del Mare e l’isolamento del Campidoglio e dell’Augusteo, la sistemazione di largo Argentina. Le fotografie lo mostrano sempre un passo indietro a Mussolini, che egli sobilla e persuade come uno Jago maligno.
Ojetti Ugo (1871-1946)
Non c’è stato intellettuale fascista più fascista di lui. Nemico giurato d’ogni forma d’arte e architettura moderna, può essere considerato l’arbitro incontrastato del cattivo gusto del ventennio fascista. Decadente e scettico, è estasiato di servire; ricoverarsi “con disciplina sotto il governo dell’autorità” è il suo testamento spirituale: “ho chinato il capo e così sia” è il suo querulo commento quando le sue proposte non trovano accoglimento. Fu soprannominato Sua Eccellenza Archi e Colonne, perfino Piacentini gli pare a tratti un pericoloso innovatore.
Piacentini Marcello (1881-1960)
Nemico giurato d’ogni forma d’arte e architettura moderna, è il maestro insuperabile del doppio gioco e della riserva mentale: nei suoi innumerevoli scritti sostiene tutto e il contrario di tutto, e parte sempre dalla necessità di conservare “questa nostra e cara e vecchia Roma” per proporne, nel capoverso seguente, la distruzione. Sventra i Borghi e costruisce “l’obbrobrio” di via della Conciliazione. Con Brasini sostenne lo sviluppo di Roma a Nord, ma da sovrintendente per l’architettura all’E42 e sostenne lo sviluppo di Roma verso il mare, che riconferma nel progetto di variante 1941-1942, che detterà legge negli anni successivi, tanto che si può dire che la deforme Roma odierna sia sostanzialmente quella voluta da Piacentini.
Ricci Corrado (1858-1934)
La sua vecchia cultura lo preserva in parte dalla volgarità generale. Nel 1911, per il cinquantenario dell’Unità d’Italia, collabora alla realizzazione della zona monumentale delle adiacenze delle Terme di Caracalla e prefigura quella che sarà la via dell’Impero con l’isolamento dei Fori imperiali. Ma il suo discorso al Senato per l’approvazione del micidiale piano regolatore del ’31, è una penosa testimonianza di piaggeria e di insipienza storico urbanistica. Si rallegra, tra l’altro, all’idea della progettata distruzione del Campo Marzio e del quartiere del Rinascimento per la realizzazione del famoso “cannocchiale” caro a Piacentini, dal Corso alla cupola di S. Pietro.
Testa Virgilio (1889-1978)
È il personaggio che meglio esprime la continuità dell’urbanistica romana, tra fascismo postfascismo, uniti nel fare del proprio peggio. La sua maggiore impresa che porta a termine negli anni Cinquanta e Sessanta è l’espansione di Roma verso il mare, da lui teorizzata fin dal 1928 al primo congresso dell’Istituto di studi romani. Nel 1951 (per interessamento di Andreotti) diventa commissario straordinario dell’Ente autonomo esposizione universale (EUR) e nel volume La vita di un urbanistae un capolavoro: l’EUR, 1976, a cura del Rotary, egli racconta in terza persona, come Giulio Cesare, la propria straordinaria carriera di un uomo predestinato alla salvezza di Roma.
Riassumendo, è passato più di mezzo secolo da quando, nel 1971 Leonardo Benevolo riprese la discussione sul progetto Fori e sono passati più di quarant’anni dalla morte di Luigi Petroselli, il sindaco che ricompose l’unità dello spazio storico fra Colosseo e Campidoglio. Spero che l’iniziativa di oggi sia utile a ricordare che continua a essere trascurato il futuro dell’area archeologica centrale più importante del mondo.
Concludo con Walter Tocci che c’è bisogno di immaginare una nuova stagione di dibattito e l’elaborazione del piano strategico “è l’occasione per invitare tutti gli orientamenti culturali al dialogo su nuove basi, con l’obiettivo di condividere almeno alcuni indirizzi fondamentali (p, 53).