Piuttosto che alla diffusione spaziale del contagio bisognerebbe guardare alle condizioni del disagio nell’abitare che il virus ha confermato, rafforzato o addirittura generato, dunque alle possibilità di ulteriore crescita delle disuguaglianze. Un’analisi seria della geografia della distribuzione dei pacchi alimentari e delle scuole che non possono fare didattica a distanza perché le famiglie non hanno strumenti digitali aiuterebbe a farlo. Sappiamo da tempo che dobbiamo ripensare le città, ma dobbiamo farlo pensandole davvero come spazi di vita, ben al di là di una singola seppur terribile emergenza. Il lavoro a casa e il confinamento sociale hanno avuto effetti benefici sul traffico e l’inquinamento ma anche disastrosi nel determinare una inedita cancellazione della socialità. Dobbiamo moltiplicare le centralità locali e distribuire sui territori le dotazioni e le occasioni di attività, servizi, iniziative sociali e culturali (Roma, ad esempio, è già un po’ una “città di villaggi”) favorendo l’autonomia e, insieme, l’accessibilità alla città, come espressione del diritto a fruirne e ad abitarla, vale a dire alle opportunità che offre la vita collettiva. Perché abbiamo sempre più bisogno di tempi e spazi per la convivenza e la socialità. Le relazioni, gli affetti, lo scambio con le altre persone, sono i fattori che ci costituiscono come persone, le forme digitali e telematiche non sono certo in grado di sopperire alle nostre esigenze di relazione. È questa la riflessione più profonda che deriva dall’esperienza che stiamo vivendo.
Una delle prime cose che l’esperienza che stiamo vivendo col coronavirus evidenzia è l’esistenza e il rafforzamento delle disuguaglianze. È stato ripetuto già più volte. Vorrei però chiarire ed approfondire questo aspetto, anche per trarne una riflessione per il futuro. Sono state pubblicate di recente alcune mappe (e mi riferisco soprattutto a Roma, la città che conosco meglio) che illustrano la distribuzione spaziale del contagio, sia per Municipi che per zone urbanistiche. La loro lettura e interpretazione non è banale. In maniera forse controintuitiva sembra che il contagio si sia concentrato soprattutto nei quartieri più consolidati e persino più benestanti. Una correlazione con la ricchezza (o viceversa con la povertà) sembra non immediata. La correlazione sembra esistere piuttosto con la concentrazione della popolazione anziana ed anche con la densità abitativa, nella curiosa supposizione che il contagio sia avvenuto per la vicinanza delle persone che abitano in uno stesso quartiere, mentre sappiamo bene che il contagio si può trasmettere nei luoghi di lavoro o sul trasporto pubblico e comunque nei luoghi ad alta concentrazione di persone.
A parte alcuni quartieri periferici come Torre Angela, dove il numero dei contagi è piuttosto alto rispetto al livello cittadino, la maggior parte della periferia sembra essere meno colpita dal contagio. Ancor di più se si considera il valore percentuale (l’incidenza sulla popolazione residente) e non il valore assoluto. Associare questo dato alla bassa densità o alla disponibilità di verde o ancora alla qualità dell’aria appare ridicolo. D’altronde le mappature si susseguono, cambiano le geografie, che in realtà rimandano anche alle geografie di vita delle persone, a un mondo più complesso di quello che ci vorrebbero far vedere le mappe.
Piuttosto che alla diffusione spaziale del contagio bisognerebbe guardare ad altro. Bisognerebbe guardare le condizioni del disagio nell’abitare che l’esperienza del coronavirus ha confermato, rafforzato o addirittura generato. Prodotto e riprodotto. Il coronavirus, come pure già molti hanno detto, ha confermato e rafforzato le disuguaglianze che si costituiscono nella città. Bisognerebbe piuttosto osservare la geografia della distribuzione dei pacchi alimentari e delle scuole che non possono fare didattica a distanza perché gli studenti e le loro famiglie non hanno strumenti digitali.
Una geografia delle disuguaglianze che si esprime sotto diverse forme. In primo luogo in termini di risorse personali e familiari, tanto di carattere economico che di accesso a strumenti, possibilità e capacità di azione. Pensiamo alla quantità di spazi disponibili nelle abitazioni, al numero di persone che vi convivono, alla possibilità di isolamento (per lo studio dei ragazzi e/o il telelavoro), alla disponibilità di computer e strumenti digitali e telematici (magari per un utilizzo contemporaneo), come pure di reti e connessioni telematiche, di protezioni sociali e sanitarie, ecc. Fino ad arrivare ovviamente alla stessa possibilità di mantenere il possesso della casa e alle enormi difficoltà derivate dalla perdita del lavoro o all’impossibilità di mantenere una continuità di reddito. L’esplodere delle difficoltà di pagare gli affitti è un segnalatore delle grandi difficoltà che si vivono nelle nostre città (all’estero prima ancora che in Italia). Gli scioperi e le mozioni sostenute dai sindacati e dai movimenti di lotta per la casa sollevano un problema rilevante che non può essere dimenticato.
A Tor Bella Monaca, quartiere nella periferia est di Roma che seguo da diversi anni, è andata crescendo la domanda di pacchi alimentari e molta gente, legata a lavori precari o in nero, si è trovata letteralmente “a zero”. Si tratta di un’emergenza nell’emergenza. E’ una di quelle (forse poche) realtà urbane dove le scuole non possono praticare la didattica a distanza perché gli studenti non hanno a casa strumenti digitali (tanto che una fondazione si sta impegnando nell’acquisto di tablet da distribuire in maniera estensiva).
In secondo luogo, le disuguaglianze si mostrano in termini di risorse territoriali, vale a dire servizi, negozi ed attività commerciali, spazi verdi e spazi pubblici (che poi è ciò che banalmente vedi dalla finestra della casa dove sei obbligato alla reclusione). Infine, in terzo luogo, il tipo di lavoro (se ce l’hai) ovvero la precarietà – una prospettiva destinata a complicarsi nel futuro (e probabilmente a generare nuove disuguaglianze), nel momento della ripresa delle attività, con l’emergere della divaricazione tra chi potrà lavorare in condizioni di sicurezza e di protezione e chi no.
La diffusione del coronavirus disegna una geografia della povertà assai significativa nelle nostre città, con aree di particolare concentrazione (ad esempio, l’area est di Roma, a partire da Tor Bella Monaca), ma abbastanza distribuita in tutti i territori. Basti pensare alla massiccia distribuzione di pacchi alimentari da parte delle parrocchie anche nel centro storico, o al crescente afflusso presso la mensa Caritas di Colle Oppio non solo di migranti ma anche e soprattutto di italiani, messi in ginocchio dal coronavirus, e in particolare dalla difficoltà di pagare gli affitti. Anche i quartieri di Roma Nord, tradizionalmente considerati benestanti, vedono oggi un proliferare di mense condivise e di pacchi alimentari. I poveri li abbiamo tutti vicino casa.
La situazione generata dal coronavirus disegna anche una geografia della solidarietà. Ancora una volta nelle nostre città si constata il grande impegno di singoli e di organizzazioni di ogni genere – dalle associazioni e dai comitati di quartiere alle ONG (solitamente impegnate nel salvataggio dei migranti in mare), dalla cooperazione allo sviluppo alle fondazioni. Qui si mostra la grande inventiva e le tante forme di solidarietà che l’autorganizzazione degli abitanti mette in campo. Pensiamo alla bellissima esperienza dei “condomini virali” (con le più svariate forme di collaborazione e mutuo aiuto al loro interno) o alla rete dei gruppi di acquisto solidale o ad altre forme di relazione diretta tra produttori agricoli e reti di distribuzione locali.
Ma l’aspetto che mi sembra interessante sottolineare è la “grande alleanza” che la situazione attuale ha generato attraverso la collaborazione tra amministrazioni locali intelligenti (penso ad alcuni Municipi a Roma) e le reti presenti sul territorio – dagli scout ai centri sociali, dalla Caritas alle fondazioni, dalle occupazioni a scopo abitativo alle scuole aperte a oltranza, e alle forme di autorganizzazione più informale. È la “grande alleanza” che vorremmo vedere in azione nelle nostre città anche al di là del coronavirus, per fronteggiare quella crisi che è il prodotto del nostro modello di sviluppo e che si riflette sulle nostre forme di convivenza e di abitare.
Domesticità e lavoro
Tutto ciò offre uno squarcio su come le famiglie vivono lo spazio domestico e sulla riorganizzazione dei loro tempi di vita imposta dalla situazione attuale. Il passaggio al telelavoro, alla didattica a distanza, allo smart working, ha imposto una profonda modifica degli spazi di vita, ma soprattutto ha determinato l’irrompere del mondo del lavoro, degli impegni e degli oneri “esterni”, nell’ordinaria “intimità” della vita personale e familiare. All’interno della casa, lo spazio della vita quotidiana è ormai quasi indistinguibile dallo spazio di lavoro. Il che influisce in maniera ancor più significativa sui tempi di vita e sui ritmi quotidiani, annullando ogni soluzione di continuità tra il tempo del lavoro e il tempo libero, tra gli impegni sociali e le relazioni personali; tra l’esterno e l’interno. E questo grazie agli strumenti digitali e telematici che hanno assunto un carattere di invasività e pervasività della vita quotidiana. Staccarsi dal computer, dal tablet o dal cellulare per concentrarsi su di sé, comporta una scelta intenzionale e consapevole.
Per molti (ma non per tutti) la quarantena è stata l’occasione per ritrovare una dimensione interiore, ma il protrarsi della situazione di reclusione e l’avvio delle attività ordinarie per via telematica ha comportato un forte dispendio di energie personali (per non dire delle tante evocazioni della società del controllo e del disciplinamento descritti da George Orwell in 1984). In tutto questo non si può che rilevare una grande perdita di intimità.
Il nostro ambiente di vita e il cambiamento del modello di sviluppo
La necessità di ripensare il nostro modello di sviluppo non si ripeterà mai abbastanza. Molti hanno sottolineato la possibile correlazione (anche se non scientificamente provata) tra la diffusione della pandemia e il degrado dell’ambiente, e in particolare con l’inquinamento atmosferico – correlazione che, sebbene non comprovata, appare realistica, in quanto causa di una vulnerabilità del nostro organismo e in particolare delle vie respiratorie. Le mappe dell’inquinamento atmosferico nella Pianura padana sono ormai sotto gli occhi di tutti.
E ancora, è stato sottolineato il rapporto con la produzione alimentare, con le modalità industrializzate dell’allevamento, con l’utilizzazione di prodotti chimici in agricoltura. Lo ha fatto molto bene Piero Bevilacqua e su questo sono tornati diversi servizi di Report. Al di là delle correlazioni più o meno dirette, la pandemia di coronavirus ci racconta la stessa cosa dei cambiamenti climatici, ovvero sia come il nostro modello di sviluppo abbia stressato e degradato (e stia stressando e degradando) rovinosamente il nostro ambiente naturale, che è anche il nostro ambiente di vita. Se lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento dei livelli dei mari ci appare lontano nel tempo e dagli effetti indiretti, l’impatto del coronavirus sulla nostra quotidianità, sulla salute, sull’abitare, in una parola sulla nostra vita, appare in tutta la sua forza e in tutta la sua evidenza. Non si tratta di ragionamenti astratti o di dibattiti politici sull’economia globale, si tratta delle nostre vite. È questo il punto centrale. Il continuo richiamo di Guido Viale alla riconversione ecologica delle nostre società e delle nostre città parla delle nostre vite e alle nostre vite. E non è questo il senso dell’ecologia integrale di cui parla papa Francesco nella Laudato sì?
Vorrei qui soffermarmi su un aspetto del ripensamento delle nostre città intese come spazi di vita. Il lavoro a casa e il confinamento sociale hanno tolto molte macchine dalle strade, con effetti benefici sul traffico e sull’inquinamento atmosferico (e su molti altri aspetti). Ma ha avuto anche il disastroso effetto di determinare una terribile mancanza, una cancellazione della socialità. Guardando al futuro, ritengo che questo debba indurci ad alcune riflessioni. Se per un verso è utile immaginare una riorganizzazione delle nostre attività, in particolare quelle lavorative, che favorisca una riduzione della mobilità, soprattutto quella ad ampio raggio, per un altro verso è invece importante pensare a intensificare lo scambio e la socialità nei contesti più prossimi di vita quotidiana. Questo significa moltiplicare le centralità locali, e distribuire sui territori le dotazioni e le occasioni di attività, servizi, iniziative sociali e culturali (Roma, ad esempio, è già un po’ una “città di villaggi”). E significa favorire l’autonomia e al contempo l’accessibilità alla città (come espressione del “diritto alla città” e del “diritto all’abitare”), vale a dire a tutte le opportunità che offre la vita collettiva. Perché abbiamo sempre più bisogno di tempi e spazi per la convivenza e la socialità.
Abitare le relazioni che ci costituiscono
Alla radice di tutte queste riflessioni vi è però una considerazione sul carattere costitutivo della nostra natura umana. Le relazioni, gli affetti, lo scambio con le altre persone, sono i fattori che ci costituiscono come persone. L’esperienza del coronavirus penso ci debba spingere ancor più a riflettere su ciò che siamo realmente. Le forme digitali e telematiche non sono certo in grado di sopperire alle nostre esigenze di relazione. Ciò di cui siamo più privati è la possibilità di abitare le relazioni che ci costituiscono come persone, di viverle, di calarci nelle mille tensioni che esse comportano (amichevoli, conflittuali, piacevoli e non), di scambiare attraverso lo sguardo e la fisicità, oltre le parole, le nostre sensazioni, i pensieri, i sentimenti. Penso alle persone anziane o a quelle rimaste in solitudine; penso a chi si è visto portar via dalla morte i propri cari o gli amici senza poterli accompagnare nell’ultimo momento, né condividere il dolore con gli altri. È questa la riflessione più profonda che deriva dall’esperienza che stiamo vivendo.
Articolo pubblicato anche su lantivirus.org
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