Nel discorso di insediamento che ha rivolto lo scorso 3 febbraio alle Camere e soprattutto agli italiani, Sergio Mattarella ha inteso affermare un punto dirimente per giudicare l’attuazione dei molti impegni del PNRR. Asserendo che “le diseguaglianze non sono il prezzo da pagare alla crescita; sono piuttosto il freno per ogni prospettiva reale di crescita”[1], il Presidente ha infatti fornito un’interpretazione della Resilienza che il Piano di Ripresa dovrebbe assumere come discrimine nella scelta degli investimenti, delle priorità e persino delle modalità con cui iniettare risorse nell’economia nazionale, per trasformare davvero il PNRR nell’occasione, non solo delle tanto invocate “riforme” ma anche per le politiche, da troppo tempo inevase, di riequilibrio del Paese: delle sue disparità sociali e di genere, tra giovani e anziani, tra Nord e Sud, tra italiani e stranieri.
A metà gennaio, il Rapporto Oxfam[2] ha denunciato come nei due anni di pandemia i 10 uomini più ricchi del mondo abbiano raddoppiato le proprie fortune, arrivando a detenere un patrimonio sei volte superiore al 40% più povero del globo. Lo stesso è accaduto in Italia, dove appena 40 miliardari ormai possiedono quanto il 30% della popolazione meno abbiente. Dal canto suo, Istat a dicembre aveva evidenziato la crescente quota di assunzioni a termine celata negli aumenti occupazionali, con vistose discriminazioni a scapito di donne e giovani: un quadro complessivo di contratti brevi, quando non brevissimi, mal pagati e spesso inferiori ai corrispondenti titoli di studio. A meno di non assumerne una definizione parziale quanto insoddisfacente, riducendola – come peraltro sta avvenendo – alla sola e semplice “transizione” energetica, ci si chiede come possa affrontare la tanto auspicata “transizione ecologica” un Paese nel quale il lavoro è precario e la mobilità sociale bloccata: un interrogativo al quale quanto ora si conosce del PNRR non sembra offrire risposte rassicuranti. Per farlo, servirebbe una trasparenza sui dati delle previsioni di intervento che ad oggi appare del tutto inadeguata persino a sostenere il dibattito pubblico, quel confronto critico, aperto e informato tra le parti e con gli interlocutori istituzionali che dovrebbe viceversa improntare le grandi scelte collettive.
Nemmeno i romani sanno bene cosa succederà a Roma con i 300 milioni del PNRR: quali progetti, con quanti soldi, dove, per mezzo e infine, e più di tutto, a vantaggio di chi. Abbiamo parlato[3], anche su queste pagine, di un “piano senza piano”, stigmatizzando la mancanza di un quadro di coerenza tra singole misure, la dubbia efficacia che ne deriva rispetto agli obbiettivi che la Giunta dichiara proporsi, se non peggio riguardo alle priorità che il territorio esprime. Da urbaniste, suggeriamo piuttosto “una mappatura qualitativa dei progetti” da cui emergano, sempre che possano emergere, le “sinergie” tra azioni del PNRR e quanto già previsto o in via di realizzazione con fondi ordinari: “Non è possibile governare il territorio senza avere un quadro della programmazione nella sua dimensione spaziale”, si concludeva.
Su questa “dimensione spaziale” Filippo Celata[4] ha poi messo in rilievo, mappe alla mano, a quali distorsioni si prestino gli indici nazionali per la selezione dei progetti locali, eleggibili a finanziamento, in atterraggio sui quartieri della Capitale. Secondo Celata, la rispondenza degli interventi “a situazioni reali di vulnerabilità e disagio sociale, così come la loro qualità, è interamente affidata alla capacità dei Comuni di poter fare un ragionamento più serio e approfondito”. Non fosse, lamenta Celata, che il tempo è pochissimo: la scadenza di consegna è al 7 marzo. Ci sarà modo di intervenire (con aggiustamenti e miglioramenti) sui progetti presentati in modo da provare a costruire una qualche razionalità ex-post?
Non da ultimo, nessuno si è ancora espresso sui connessi scenari ambientali, sugli eventuali impatti e criticità, semplicemente perché le basi su cui ragionare mancano quasi del tutto. Come questo si concili con la pretesa di orientare la “transizione” agli obbiettivi verdi di contrasto ai cambiamenti climatici, quindi alle esternalità che colpiscono più duramente le periferie geografiche e sociali, è difficile da capire.
Da più parti, si intravvede insomma il rischio che si stiano tirando fuori dai cassetti progetti già confezionati, fermi non tanto e non solo per mancanza di risorse, ma anche di una più ampia condivisione circa la loro opportunità. Senza scomodare la trita retorica degli “amici degli amici”, preoccupa in particolare che superino i filtri dell’ammissibilità, solo quei progetti i cui “progettisti” dispongono degli strumenti tecnici, economici e organizzativi per confezionare proposte in linea con i criteri meramente amministrativi dei cronoprogrammi, dei bilanci di fattibilità economica o della grafica accattivante dei rendering. Ne sarebbero esclusi, se non tutti, molti progetti elaborati nel tempo dai territori, prodotti di attività volontarie, la cui competitività in questi anni, e sempre in questi frangenti “emergenziali”, è risultata perdente nell’arena negoziale delle scelte di trasformazione urbana. Non di rado derubricati da “progetti” a “vertenze”, a Roma formano invece un brulicare di idee e iniziative che, da sole, potrebbero ribaltare l’attuale visione della città: una “rigenerazione” ad alta densità culturale e zero consumo di suolo che certo spiazza interessi consolidati e prassi inveterate. Sono azioni molteplici, già in grado di incardinare alternative percorribili di sviluppo se solo l’istituzione ne supportasse le traiettorie. Mettono in gioco lavoro al posto di opere, offrono servizi calibrati a bisogni sempre più complessi e antepongono ai valori della rendita, quelli della funzionalità ambientale; rappresentano dunque una “transizione” reale che, magari in modo indiretto rispetto al PNRR, ovvero grazie alle risorse che questo libera, può completarlo moltiplicandone benefici sociali, ambientali e territoriali.
Si è già scritto per RomaRicercaRoma della ex Snia di via Prenestina[5], dove il destino di un lago, perfettamente rinaturalizzato, contrappone gli interessi del quartiere al suo privato proprietario: una vicenda paradigmatica di acqua pubblica che da 30 anni il Demanio si rifiuta di prendere in carico, un ecosistema che colmerebbe parte dello standard pregresso sottratto dalla speculazione a una delle periferie capitoline più povere di verde, un’esperienza ricca di biodiversità e innovazione sociale sempre minacciata dalle titubanze dell’amministrazione nel procedere alla tutela e al necessario esproprio.
Il Campidoglio potrebbe inaugurare il nuovo corso impegnandosi a stroncare ciò che Insolera chiamava la “pianificazione nascosta e informale” dell’Urbe e più precisamente il “patto del mattone”, e dimostrando come si vogliono tradurre concretamente le finalità ecologica e di equità della “transizione”. Un mese, da qui al 7 marzo, è sufficiente per garantire priorità là dove prevalgono i benefici collettivi, a progetti che accrescono il patrimonio comune, l’offerta di lavoro stabile o la redistribuzione di risorse, con interventi affidati a soggetti sul cui operato non gravano ombre di legittimità.
Un indicatore su tutti mostrerà se chi guida il PNRR sta svolgendo il proprio compito primario, la diminuzione delle disuguaglianze: iniziamo a tracciarlo nello spazio concreto della città, mappiamolo alle diverse scale territoriali e rendiamolo pubblico, adesso.