Eravamo a pochi passi dal luogo che dal 2008 ospita l’archivio del giornalista, donato dalla famiglia all’allora Soprintendenza Archeologica – quella di Adriano La Regina, per intenderci – ed ospitato a Capo di Bove, una villa privata che la Soprintendenza è riuscita ad acquisire tramite prelazione, compiendo scavi che hanno dato risultati scientifici straordinari e restituendo alla pubblica fruizione uno dei siti dell’Appia ora più amati dai cittadini romani.
Tutto bene, dunque? Non proprio.
Se l’Appia continua ad essere spazio di infinita suggestione e a interpretare nel migliore dei modi quel concetto di “valorizzazione” così abusato, o meglio asservito alla prostituzione in tanti altri contesti, lo si deve solo all’opera dell’attuale direttrice. E si tratta di una situazione ora più che mai in precario equilibrio (1).
Come noto, l’Appia è, da un anno e mezzo, uno dei siti resi autonomi dalla così detta riforma Franceschini e di quella riforma rappresenta esemplarmente tutte le criticità e lo strabismo di visione. A partire dallo stesso concetto di Parco Archeologico che è al più esercizio retorico se applicato ad un contesto come quello: area al 95% privata e gravata da centinaia di abusi edilizi susseguitisi nei decenni e a cui amministrazioni comunali di ogni colore hanno opposto solo indifferenza, quando non connivenza vera e propria.
Un’area, quella del Parco Archeologico dell’Appia, che solo un novello Procuste, ignaro delle più elementari capacità di lettura topografica, ha potuto staccare dal resto della città, per sovrapporla poi a quella del già esistente Parco regionale perpetuando e anzi aggravando le ambiguità in termini di competenze fra le due istituzioni, ambiguità ostative per l’esercizio delle primarie funzioni di tutela del vastissimo patrimonio archeologico, come pure per l’efficacia e la trasparenza dei servizi al cittadino (2).
A tutt’oggi l’istituzione Parco dell’Appia è priva di una sede adeguata, è stata gravemente carente per molti mesi sul piano del personale e continua a non avere archivi fotografici o laboratori di sorta, affidandosi, per le imprescindibili attività di tutela e gestione quotidiane, alla disponibilità di altre istituzioni dell’ex Soprintendenza Archeologica.
Eppure, nonostante questo, l’attuale direzione ha saputo sinora garantire non solo tutela e fruizione del patrimonio esistente, ma ha potuto concludere, con finanziamenti pregressi, progetti di scavo e ricerca che hanno condotto a risultati scientifici straordinari (come ai Quintili) ed è riuscita ad elaborare un progetto complessivo in cui vengono affrontati i problemi, gravissimi, semplicemente ignorati al momento della creazione del Parco, a partire da quello del traffico privato, sempre più invadente e coniugato ad una desolante carenza di trasporti pubblici.
Ma non solo, attraverso una trattativa non semplice, la direzione ha potuto proporre nei mesi scorsi al Ministero, l’acquisizione su prelazione, dell’importantissimo sepolcro di Sant’Urbano, che diventerebbe così, dopo anni di abusi da parte della proprietà privata, bene pubblico. E di recente, il Demanio ha offerto alla stessa direzione dell’Appia la cessione a titolo gratuito di un altro complesso storico di grande impatto architettonico, il Casino di caccia alla volpe situato sulla via Appia a poca distanza dall’aeroporto di Ciampino in uno dei luoghi più affascinanti.
Ci credereste? In entrambi i casi il Ministero ha di fatto sinora impedito le acquisizioni per asserita mancanza di risorse.
Poiché stiamo parlando, per Sant’Urbano, di costi equivalenti a quelli di un monolocale in centro storico, e per quanto riguarda il casino di caccia, di spese di manutenzione che verrebbero ampiamente recuperate tramite la messa a reddito dell’immobile (affitti) è evidente che si tratta non di problema economico, ma politico.
Appiattiti sui numeri di una redditività turistica di pronto riscontro e immediata spendibilità mediatica, gli inquilini del Collegio Romano ritengono evidentemente troppo faticoso invischiarsi in programmi di ampiezza men che lillipuziana.
Dunque, la regina viarum, uno dei luoghi di eccellenza del nostro patrimonio culturale, è stata di fatto abbandonata dai responsabili politici del Ministero che non ne sanno garantire condizioni di operatività adeguate alla sua importanza culturale e sociale e che si ritraggono di fronte all’opportunità di ampliare lo spazio del bene pubblico.
Eppure qui, sull’Appia, il luogo a difesa del quale Cederna tuonò per 40 anni contro abusi e speculazioni di ogni tipo, un’operazione di questo genere segnerebbe un’inversione di tendenza di grandissima importanza, rispetto a quella fin troppo prolungata fase di dismissione, in termini di competenze e di risorse, che ha caratterizzato il Ministero dei Beni Culturali (e la pubblica amministrazione centrale in generale) (3).
Un simbolo – e di quale potenza – della capacità di una pubblica istituzione del pieno esercizio delle proprie prerogative costituzionali.
In virtù dei molti e reiterati errori del suo predecessore, al neo responsabile del Ministero si offre ora un’occasione imperdibile per ribadire quelle prerogative e imporre un deciso cambio di rotta.
A partire proprio qui, dall’Appia, sinora protetta dallo spirito di Cederna e dalla passione di colei che non per caso, ma per destino, nel 1996 ne ereditò il testimone.
Se tutto rimarrà come ora, anche l’Archivio Cederna che fino a poco fa aveva perseguito una virtuosa e lungimirante politica di diffusione dei materiali in deposito attraverso la loro completa digitalizzazione, nel giro di pochi mesi sarà costretto a interrompere ogni attività.
E molte altre attività del Parco saranno gravemente compromesse.
Ma davvero il neo ministro dei beni culturali intende correre il rischio di essere ricordato come il becchino dell’Appia Antica?