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Bottini: Donald Trump sfreccia sulla Pedemontana

quadro del pittore scultore Marco Ariè

quadro del pittore scultore Marco Ariè

(da Eddyburg) Donald Trump sfreccia sulla Pedemontana
di Fabrizio Bottini 02 Ottobre 2016

«Le città? Devono stare zitte a cuccia e non chiedere più soldi». Così si esprimeva con una terminologia diventata leggendaria (Drop Dead! proprio come si dice ai cani) il peraltro dimenticato presidente americano Gerald Ford, inopinatamente succeduto a Nixon dimessosi per lo scandalo Watergate. Il suo linguaggio duro e sprezzante arrivava nel pieno della politica di disinvestimento urbano, ed esprimeva in sintesi una precisa linea conservatrice di sviluppo economico e sociale, iniziata in sordina a cavallo dell’ultima guerra, ma che dopo la stagione dei diritti civili e delle rivolte degli afroamericani nelle grandi metropoli aveva subito una forte accelerazione. Ovvero la fuga dei ceti medi dalle città centrali, lasciate in balia della dismissione industriale, di mostruose operazioni di urban renewal analoghe a certe grandi opere, inclusa la matrice autostradale, del formarsi di sacche di indicibile degrado sociale e umano, ambientale, magari di fianco a iniziative di speculazione edilizia terziaria, eccezioni a ribadire la regola.

Certo le grandi città erano tutt’altro che morte e sepolte, come dimostra ancora oggi quello straordinario filmato sulla «Vita sociale nei piccoli spazi urbani» composto dal sociologo William Whyte, ma la narrazione corrente, comprese certe strampalate teorie accademiche sulla cosiddetta «Integrazione spaziale», vendeva come ineluttabile quella dispersione territoriale suburbana delineata negli anni ’30 dalla Broadacre autostradale di F.L. Wright, col suo vago sogno intellettuale di ritorno alla nuova frontiera, l’automobile invece del cavallo, il centro commerciale invece del saloon di qualche film di serie B. Curioso che proprio in quel periodo il padre di Donald Trump guadagnasse magnificamente lucrando proprio su quella narrazione di degrado e abbandono, accaparrandosi terreni nelle zone classificate hic sunt leones dall’immaginario collettivo, e poi gestendo la loro trasformazione in qualche palazzo per uffici o altro.

La suburbanizzazione era, come detto, un progetto economico, con tutto il suo strascico di consumi privati coatti, di ciò che la tradizione urbana considerava collettivo: dall’auto individuale, alla piscina, allo stesso verde del giardino alternativo a quello di quartiere, ai riti del fine settimana e via dicendo. Ma era anche un progetto politico, di natura sottilmente conservatrice per non dire peggio, con quel puntare tutto sul nucleo familiare, sullo slogan «I migliori vicini sono quelli separati da una solida recinzione», sulla trasformazione della casa e tutto ciò che conteneva nel cosiddetto castello del capofamiglia. Non a caso, le rilevazioni dei flussi elettorali appena qualcuno iniziò a porsi il problema, cominciarono a confermare l’ipotesi: le concentrazioni urbane erano più progressiste, la dispersione suburbana votava a destra. Vuoi per i partiti che tradizionalmente si presentano con quell’etichetta, vuoi su istanze specifiche, locali, referendarie o altro. Certo, difficile stabilire qualche tipo di scientifica corrispondenza fra cose come la densità edilizia, o le superfici a parcheggio pro capite, o la distanza di commercio e servizi dalle residenze, o i km di autostrada per abitante, e quel voto orientato in un senso o nell’altro. Ma agli studiosi il trend appariva e appare evidente.

E adesso arriva, se necessario, la conferma del discorso ufficiale di accettazione della candidatura di Donald Trump alla presidenza per i Repubblicani. Di quello stesso Trump che ereditato denaro e mestiere dal padre è diventato un simbolo di tante cose, che con quel dualismo territoriale e politico hanno a che fare: dalle «riqualificazioni» nelle zone centrali, a quel genere di lottizzazioni surreali progettate in aperta campagna da campioni di golf, e rivendute proprio come percorsi sportivi nel verde, quando altro non sono se non gated communities della peggiore e più esclusiva specie. Cos’ha detto, Trump, nel suo discorso alla Convention? Certo, lui parlava di questioni di ordine pubblico e sicurezza del cittadino, ma mettiamo in fila: caos e violenza per le strade; incremento degli omicidi soprattutto nei grandi centri ad esempio «nella Chicago da cui viene il nostro attuale presidente». E poi le infrastrutture che vanno a pezzi, vetuste, autostrade e aeroporti da terzo mondo (sic). Il che evoca e ribadisce, quasi esattamente, i medesimi scenari di quarant’anni fa, in cui Gerald Ford diceva, alle città che votavano in prevalenza Democratico e progressista: «a cuccia, niente soldi», e implicitamente «ci sono quelli degli investitori privati».
Foto F. Bottini

Oggi, letto nella prospettiva di quanto accaduto e ancora in corso nelle trasformazioni territoriali, lo scenario del candidato populista reazionario televisivo si legge più o meno, semplificando al massimo: grandi opere stradali di colonizzazione suburbana, a rilanciare la nuova frontiera dello sviluppo infinito di villette, centri commerciali, office park, zone industriali, ovvero ad alimentare i bacini naturali di voto alla propria area politica; e intervenire col ferro e il fuoco militare nell’orrore e degrado urbano, preparando la tabula rasa della riqualificazione speculativa, magari nella forma dei nuovi quartierini per giovani scapoli delle professioni rampanti, o quelle sacche di lusso a macchia di leopardo autogestite dalle imprese tecnologiche come intravisto a San Francisco, dove i pullman di Google attraversano blindati i quartieri «degradati» per portare in ufficio i manager. Normale, che la politica ragioni anche così, riproducendo nelle proprie scelte e strategie il medesimo brodo di coltura che le garantisce consenso. Lo si dovrebbe considerare anche da questo punto di vista, quando qui da noi si contestano i tracciati autostradali, gli «sprechi in opere inutili»» che invece paiono utilissime proprio allo scopo di coltivarsi quel brodo sociale introverso, che prima o poi, al momento giusto, darà il proprio consenso alle medesime scelte chiuse, privatistiche, particolari. Tutto si tiene, basta farci caso.

Fabrizio Bottini 

 

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