Cinquemila clienti presero d’assalto il primo grande magazzino a Roma il giorno della sua inaugurazione. Era il dicembre 1887 e in via del Corso apriva la seconda sede, dopo quella di Milano, dei grandi magazzini Alle città d’Italia, poi ribattezzati Rinascente. I fratelli Bocconi, commercianti di abiti diventati imprenditori, avevano importato il modello parigino del grande spazio per la vendita di abbigliamento preconfezionato e a prezzi fissi.
Palazzo Bocconi era innovativo sotto ogni punto di vista: una specie di grande scatola di cinque piani con ampie vetrate ad arco, organizzata su una pianta centrale e con otto colonne per reggere il peso. In tutti i piani, collegati con i primi ascensori in funzione a Roma, gli spazi espositivi erano ben illuminati grazie al lucernario. Tutto poteva essere colto con un unico sguardo: il consumatore era il centro dello spettacolo delle merci. Nuovi spazi di vendita, come la vicina galleria Colonna inaugurata nel 1922, collegavano parti di città attraverso i negozi. Il commercio usciva dalle piccole botteghe, diventava un’esperienza visuale, e ridisegnava lo spazio urbano.
Negli anni sessanta i grandi magazzini, meta di un ceto medio in crescita, toccarono l’apice del successo. Negli ultimi decenni il proliferare delle multinazionali del fast-fashion – con i loro vestiti alla moda e a basso prezzo in grado di annientare la concorrenza, e per questo chiamati anche category killer – ha accelerato il tramonto dei grandi magazzini. Marchi come Gap, Zara e H&M hanno aperto punti vendita giganteschi, spesso su più piani, contribuendo all’omologazione dell’offerta in molte città del mondo. Dal 2018 palazzo Bocconi ospita proprio Zara, uno dei marchi del gruppo spagnolo Inditex. La Rinascente ha cambiato target, riposizionandosi nel settore del lusso, e si è trasferita a qualche isolato di distanza.
Un settore in difficoltà Nel 2020 la pandemia, l’assenza di turismo, i lockdown e il lavoro da remoto hanno generato una perdita di venti miliardi di euro di consumi in abbigliamento. Secondo laFederazione moda Italia la crisi porterà alla chiusura di ventimila negozi di abbigliamento, quasi il 20 per cento dei punti vendita in Italia, con ricadute occupazionali su cinquantamila addetti. Anche molti dei negozi delle catene di fast-fashion stanno chiudendo, lasciando grandi vuoti urbani. L’azienda H&M ha annunciato la chiusura di 350 negozi, di cui otto in Italia, due nel centro di Milano. Nel giugno 2020 la Inditex ha annunciato la chiusura di più di mille punti vendita in tutto il mondo. La Disney ha fatto una scelta ancora più radicale, chiudendo tutti e 15 i negozi in Italia.
Il commercio al dettaglio e il settore della moda, però, erano da tempo in difficoltà. “Le chiusure sono in atto da quasi un decennio”, nota Luca Zanderighi, docente di marketing dell’università Statale di Milano e fondatore della ditta di consulenza e analisi TradeLab. Le chiusure hanno riguardato i marchi e i negozi medi, a metà tra il low-cost e il lusso. Secondo la Confcommercio tra il 2012 e il 2020 in Italia sono spariti 77mila negozi, con una riduzione del 15 per cento nei centri storici, mentre nelle stesse zone affitti brevi e ristorazione sono cresciuti del 14 per cento.
“Le crisi economiche del 2008 e del 2013, il cambiamento del comportamento di acquisto del consumatore e lo sviluppo dell’ecommerce avevano già posto la questione di cosa fare degli spazi vuoti”, afferma Zanderighi, che si è occupato del tema della rigenerazione delle grandi superfici commerciali. “La razionalizzazione delle reti di vendita dei grandi marchi era già in atto in Europa e negli Stati Uniti. Da noi questa tendenza è arrivata dopo, fino all’anno scorso l’ecommerce in Italia cresceva lentamente”. La pandemia di covid-19 ha accelerato processi già in atto: nel maggio 2017 l’H&M aveva chiuso i suoi negozi a San Babila e in corso Buenos Aires, a Milano. La Inditex aveva abbandonato tre grandi spazi in via del Corso, a Roma.
Durante il lockdown il marchio Zara ha scoperto che pochi lavoratori possono gestire molte vendite online
Secondo l’Osservatorio e-commerce del Politecnico di Milano nel 2020 in Italia le vendite online di prodotti sono cresciute del 45 per cento, con una spesa complessiva di 25 miliardi di euro. Quelle della Inditex sono cresciute del 50 per centro nel primo trimestre 2020 e del 95 per cento rispetto all’aprile 2019, mentre i costi operativi sono diminuiti del 21 per cento. Il Censis dice che il 71,7 per cento delle famiglie ha fatto acquisti online durante il lockdown.
“La pandemia ha rafforzato l’ecommerce. L’investimento in questo settore è diventato una scelta strategica”, sostiene Zanderighi. Nel 2020 la Inditex ha annunciato un piano biennale di investimento di 2,7 miliardi di euro per integrare i negozi fisici con le piattaforme per la vendita online, puntando soprattutto ad aumentare il giro d’affari su queste ultime. Una strategia seguita anche da altri grandi marchi e che prevede la chiusura dei punti vendita più piccoli.
La Inditex prevede che nel 2022 il 25 per cento delle sue vendite avverrà online, il doppio rispetto al 2019. A permetterlo sarà la Inditex’s open platform, che consentirà di integrare l’inventario della merce in magazzino con quello nei negozi, il tutto in tempo reale. Gli ordini online sono già ora spediti sia dai negozi sia dai magazzini. Nel 2021 il marchio Zara ha lanciato un’applicazione che permette ai consumatori di verificare la disponibilità dei prodotti nei negozi fisici, prenotare i camerini, trovare i capi e pagarli dal telefono saltando la fila alle casse. La strategia della Inditex si basa sulla completa integrazione tra la filiera logistica e quella della vendita, che consente di accorciare i tempi e di intensificare l’attività. L’offerta si rinnova in continuazione: al posto delle tradizionali collezioni, i nuovi modelli arrivano nei negozi di Zara ogni due settimane, in sole 48 ore.
A Roma Zara ha due magazzini, nel centro commerciale Porta di Roma e a Castel Giubileo. Nel febbraio 2020 circa novanta magazzinieri, quasi tutti egiziani, hanno scioperato contro il passaggio dal contratto nazionale della logistica, ottenuto nel 2019, a contratti di lavoro interinale nel settore del commercio, appaltati alla cooperativa ManPower. Uno dei punti contestati dai magazzinieri era l’obbligo di svolgere le mansioni dei commessi. “Mentre i magazzinieri scioperavano Zara ha provato a sostituirli con i commessi”, racconta Massimo Civitani di Si Cobas, che ha seguito la vertenza. “Poi, durante la chiusura dei negozi nel 2020, sono stati i magazzinieri a fare tutto il lavoro. E Zara ha scoperto che pochi lavoratori possono gestire molte vendite online”.
Il rapporto The state of fashion 2021 dell’azienda di consulenza McKinsey spiega che il lavoro dei commessi sarà sempre più flessibile per gestire la vendita su più canali. Molte aziende starebbero riallocando il budget verso la digitalizzazione dei processi di distribuzione e vendita, tagliando i costi per il personale e investendo nella sua formazione per nuove mansioni. I negozi fisici non spariranno. Piuttosto, saranno sempre più ibridi: punti di acquisto ma anche magazzini, punti di ritiro e cambio di merce ordinata e pagata online. Luoghi che proveranno a offrire ancora qualche emozione, così come provavano a fare i grandi magazzini.
Oggi che i confini tra consumo, cultura e intrattenimento sono sempre più sfocati, si parla di retailtainment: cioè di vendita al dettaglio che diventa intrattenimento e usa le tecnologie per coinvolgere emotivamente le persone. Ma se l’acquisto vero e proprio avverrà sempre più attraverso i siti, quale sarà il parametro per valutare la produttività e il valore dei negozi?
Bandiere Negli ultimi anni il centro storico di Roma si è svuotato di abitanti e di attività commerciali. Dalla stazione Termini al Vaticano, passando per via Nazionale e corso Vittorio, aumentano le file di serrande abbassate. Sembrano sopravvissute solo banche e agenzie immobiliari, negozi di souvenir e minimarket. In via del Corso le cose vanno meglio, ma in centro molti negozi storici e a gestione familiare faticano a sopravvivere. Le vie del lusso, intorno a via dei Condotti e piazza di Spagna, sono invece immuni alla desertificazione commerciale e hanno resistito perfino alla pandemia.
I negozi delle grandi maison del lusso, infatti, seguono logiche diverse. Sono dei flagship store, usati come bandiere del marchio. I costi di affitto – fino a 10.500 euro al metro quadro in via Monte Napoleone a Milano, fino a 9.430 in via dei Condotti – possono essere visti come investimenti nella comunicazione. Anche i negozi del fast-fashion come Zara e H&M sono diventati strumenti di comunicazione dei marchi, oltre che spazi di acquisto di merci, con una funzione di comunicazione integrata, se non subordinata, al canale di vendita online. McKinskey dice che i negozi fisici saranno valutati come i contenuti web, in base ai click e alle visualizzazioni, con l’attribuzione a ogni negozio di percentuali di vendite online e di valore mediatico.
Quello che manca Tuttavia, gli spazi lasciati vuoti sono destinati ad aumentare. Il 25 per cento dei tradizionali spazi commerciali nei cosiddetti mercati maturi occidentali sarebbe obsoleto di fronte alla sfida della vendita multicanale, secondo l’azienda di servizi immobiliari Jones Lang LaSalle. Sono circa 450 i negozi medio-grandi in affitto e in vendita nel centro di Roma, e quasi altrettanti nelle zone più centrali di Milano. Da Immobiliare.it fanno sapere che negli ultimi dodici mesi (dal maggio 2020 al maggio 2021) il numero di annunci di negozi con una superficie superiore ai 250 metri quadrati in affitto è aumentato del 17 per cento a Milano, del 35 per cento a Roma.
“Non si può parlare di riqualificazione urbana senza pensare a come riempire gli spazi vuoti, senza riflettere su quali sono le attività che mancano, le infrastrutture, il verde pubblico”. Alberto Marchiori della Confcommercio spiega che è necessario elaborare strategie complessive di rigenerazione urbana come leva di rilancio socioeconomico delle città. “Questo non vuol dire, come spesso si pensa, demolizione e ricostruzione di edifici. Questa non è rigenerazione urbana. Lo sviluppo delle città è un interesse collettivo e sociale. Le scelte politiche degli anni passati non sono state il frutto di questo tipo di ragionamenti, quanto piuttosto l’espressione di interessi particolari”.
A Roma nell’ultimo decennio il turismo è stato l’unico settore economico a crescere
Per Marchiori, che ha partecipato al comitato scientifico per la rigenerazione urbana dell’Associazione nazionale comuni italiani (Anci), la legislazione in tema di commercio e rigenerazione, affidata alle regioni, andrebbe rivoluzionata al livello nazionale. Nel 2015 è stato firmato un protocollo d’intesa, ma non ha prodotto grandi novità
A Roma nell’ultimo decennio il turismo è stato l’unico settore economico a crescere, sostenendo i canoni d’affitto e i valori immobiliari nel centro storico, dove, con la pandemia e la crisi del turismo, moltissimi negozi hanno sofferto, dice Lorenzo Tagliavanti, presidente della Camera di commercio della capitale. “Il centro e le aree dove ci sono molti uffici e negozi hanno subìto anche l’impatto dello smart working, che ha invece rianimato aree residenziali e periferiche”. La crisi sanitaria ha svelato una nuova geografia economica, al contrario della “crisi del 2008-2009, che aveva salvaguardato le aree centrali della città e penalizzato il resto del territorio”. L’aumento dei valori immobiliari di case nelle aree suburbane riflette questa dinamica.
La pandemia ha accentuato la forza delle piccole realtà. “Sono state la nostra salvezza. Dobbiamo rafforzarle con meccanismi incentivanti”, commenta Marchiori. “Dobbiamo favorire il ritorno di alcune attività nei centri urbani e nelle periferie, a partire dall’abbattimento dei canoni d’affitto: con agevolazioni per i proprietari, favorendo la cedolare secca (un regime di agevolazione fiscale che prevede una tassazione fissa al 10 per cento, ndr), una riduzione dell’Imu e della tassazione locale per determinati settori merceologici ritenuti strategici. Queste sono sperimentazioni già fatte altrove in Europa con esiti positivi. Bisogna intervenire nei confronti dei proprietari che chiedono affitti eccessivi, e che se non li ottengono lasciano gli edifici vuoti, spesso in totale abbandono. Siamo a favore dell’interesse privato, ma quando va contro quello della comunità, il pubblico deve intervenire. E i proprietari che non riescono ad affittare gli spazi potrebbero concederli in comodato d’uso gratuito, per determinati periodi di tempo, in cambio del pagamento delle spese fisse”.
Gli spazi vuoti rendono evidente il divario tra gli interessi della rendita immobiliare e quelli delle attività che potrebbero aprire e far ripartire l’economia urbana, il lavoro, il tessuto produttivo, lo sviluppo della città. Con l’eccezione di Milano, nell’ultimo decennio affitti e valori immobiliari sono calati ovunque. Nel 2020 molti proprietari – circa il 75 per cento, principalmente nel settore del lusso – hanno accettato di ricontrattare i canoni. Ma non basta.
“Nel centro storico bisogna incentivare il ritorno delle librerie e degli artigiani. La sfida è capire quali strumenti mettere in campo per calmierare gli affitti”, afferma Marta Leonori, consigliera e presidente del gruppo Pd alla regione Lazio. Leonori ricorda il caso della libreria Feltrinelli nella galleria Colonna: nel 2015 rischiava di chiudere e si è salvata con la riduzione del canone di affitto del 25 per cento. Una scelta puramente etica, non di mercato, secondo la proprietà della galleria.
“Sono pochi gli spazi commerciali davvero grandi nel centro di Roma, come quelli oggi occupati da Zara e H&M”, sostiene Leonori. Nel 2019 la regione ha aggiornato la legge sul commercio per diminuire l’impatto delle grandi strutture di vendita, già in crisi, e favorire le attività di vicinato, ovvero il commercio al dettaglio in negozi fino a 150 metri quadrati. Sono stati approvati alcuni articoli quadro per permettere ai comuni di proteggere i centri storici; e una legge per la tutela delle botteghe storiche “perché la loro chiusura è irreversibile”. Se il pubblico può condizionare il mercato con l’offerta di spazi gratuiti e a prezzi accessibili, “il problema nel centro storico, però, è la domanda, perché mancano i residenti”.
Tagliavanti pensa che gli spazi vuoti, sia commerciali sia residenziali, dovrebbero essere trasformati in un’occasione di riqualificazione delle aree centrali. “Potrebbe essere avviata una politica di acquisizioni per assegnare abitazioni a condizioni agevolate a giovani coppie che rianimarebbero intere zone. Inoltre, si potrebbero acquisire spazi commerciali abbandonati da affidare ad attività artigianali o comunque non caratterizzate dalla standardizzazione dell’offerta, così come vuole il turismo mordi e fuggi. Sono politiche già avviate in varie città europee, che a Roma potrebbero avere ancora più impatto. Anche il patrimonio pubblico potrebbe essere ripensato per migliorare l’area centrale dal punto di vista sociale e urbanistico”. Lo spazio vuoto insomma è anche una nuova possibilità, un’occasione, se colta in tempo.
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