Le forze politiche che hanno partecipato alle elezioni del 4 marzo hanno cominciato a rendicontare l’ammontare delle donazioni ricevute con l’elenco dei soggetti che hanno finanziato la campagna elettorale. Ma sappiamo già che quei numeri sono molto incompleti, perché la legge n.13 del 21 febbraio 2014, voluta dal Governo Letta sull’onda di un clima ostile a qualsiasi ulteriore concessione economica ai partiti politici, è nata monca per la fretta di legiferare. Abolendo i finanziamenti pubblici a pioggia bocciati anche da un referendum popolare, la legge ha introdotto un finanziamento privato tutt’altro che a prova di trasparenza come sta ora emergendo dall’inchiesta sulle presunte tangenti elargite dal costruttore Parnasi alle forze politiche. Quella legge ha limiti talmente macroscopici che ne compromettono l’intera efficacia.
Indipendentemente dal fatto che si propenda per il finanziamento pubblico o per quello privato – ed io sono convinto che in entrambi i casi possano profilarsi problemi e rischi – un cambiamento così epocale che ha portato la politica italiana a dover reperire risorse direttamente sul mercato dei donatori, andava preparato con maggior cura prevedendo una riforma organica che istituisse anche una legge sulle lobby e un sistema di controlli rafforzati e rigorosi.
Così non è stato purtroppo: si è scelto di rendere pubbliche online solo le donazioni al di sopra dei 5.000 euro. Benissimo, se non fosse che la legge, nel bilanciamento tra privacy e trasparenza (che in questo caso si traduce con la necessità di sapere chi sostiene quelle forze politiche che dovranno poi assumere decisioni che potrebbero riguardare direttamente gli interessi e le attività dei soggetti erogatori), si è dato più peso alla privacy. In questo modo, qualunque soggetto abbia donato tra i 5.000 e i 100.000 euro può decidere di non dare il consenso a rendere pubblico il proprio nome. E in assenza dei decreti attuativi inizialmente previsti, neppure le autorità competenti potranno conoscere quei nomi.
Se questo aspetto dovesse già procurarvi qualche turbamento, sappiate che oggi i soldi in politica non passano quasi più attraverso i partiti come hanno ammesso gli stessi aspiranti parlamentari che alle ultime politiche hanno aderito alla campagna #CandidatiTrasparenti di Riparte il futuro; di fronte alla domanda sulle fonti di finanziamento della loro campagna elettorale, i 172 candidati che hanno dichiarato di aver potuto contare su fondi esterni a quelli personali, solo il 18% ha sostenuto di aver ricevuto denaro da partito e lista, mentre a prevalere sono state le elargizioni di “amici”, sostenitori, cittadini, aziende. In pochi hanno dichiarato di aver ricevuto denaro da fondazioni e associazioni politiche che però stanno diventando una delle fonti privilegiate di finanziamento alla politica.
Tornando alla nostra legge Letta sui finanziamenti ai partiti, l’errore più grossolano è stato quello di limitarsi a regolamentare (male) il finanziamento ai partiti senza avere l’ambizione di riformare complessivamente quello alla politica, prevedendo prescrizioni anche per candidati, fondazioni, associazioni, think tank e movimenti. Che, oggi, non hanno gli stessi elementari obblighi di trasparenza dei partiti e non sono perciò vincolati a presentare un bilancio, a evidenziare chi paga e in che modo sono utilizzati i soldi ricevuti. Perché, come ha più volte richiamato Raffaele Cantone, Presidente dell’ANAC, e come ha messo in evidenza lo scandalo sullo stadio della Roma, i finanziamenti passano oggi soprattutto tramite fondazioni e associazioni politiche (o vanno direttamente ai candidati) la cui contabilità è però del tutto opaca. In assenza di linee guida, think tank, fondazioni e associazioni proliferano: la Fondazione Openpolis ne ha censite 102 per il 2017 (erano 62 nel 2015) spesso non direttamente riconducibili a un partito o a un’area politica ma semmai a correnti interne o a singoli esponenti politici. C’è un tratto comune a tutte queste organizzazioni, sempre più numerose: solo il 10,75% mette online il bilancio e solo il 6,45% pubblica l’elenco dei finanziatori. Nella scorsa legislatura ben quattro disegni di legge – presentati da parlamentari di diverso colore politico – hanno tentato di colmare il gap, proponendo regole per fondazioni e associazioni politiche. Nessuno è stato discusso in Aula.
Il rischio, in assenza di trasparenza e senza una legge che regolamenti l’attività di lobbying – delimitando cioè i confini di quel che è lecito fare per rappresentare gli interessi e influenzare le decisioni pubbliche – è che le forze politiche siano soprattutto dipendenti da finanziamenti di aziende, corporation e soggetti che potrebbero voler condizionare le loro attività, aspettandosi qualcosa in cambio del loro sostegno finanziario. Come spiegano Raffaele Picilli e Marina Ripoli nel loro volume “Come raccogliere fondi per la politica” (Rubbettino 2017) i partiti dovrebbero attrezzarsi a incamerare microdonazioni che li renderebbero indipendenti e senza alcun padrone.
I dati sul 2 per mille, nato proprio per stimolare i cittadini a sostenere le forze politiche, a oggi non sono molto incoraggianti. E se nel 2017 si è registrato un incremento nel numero (e nell’entità) delle donazioni, il tasso di partecipazione resta ancora molto basso (solo 3 cittadini su 100 hanno optato per il 2 per mille), chiaro segnale della disaffezione dei cittadini per la politica, ma anche dello scarso interesse dei partiti verso questa forma di contribuzione. Per fare un paragone con gli Stati Uniti, paese in cui notoriamente girano molti soldi in politica, oltre l’80% del finanziamento al ciclo elettorale è costituito da piccole donazioni a titolo personale; oltre 20 milioni di persone effettuano donazioni alla politica (più del 10% degli aventi diritto al voto) con un importo medio di circa 115$.
Ma c’è un altro elemento che la legge italiana ha del tutto trascurato: quello del finanziamento da parte di paesi o società straniere. Mentre la Federal Elections Commission statunitense vieta qualsiasi donazione fatta da stranieri nel contesto politico americano (ne parla Francesco Galietti nel suo “Sovranità in vendita“, Guerini e associati 2017), in Italia non c’è nessun esplicito richiamo a questo aspetto che potrebbe assumere tratti inquietanti, soprattutto con l’emergere sempre più frequente di scandali frutto di finanziamenti arrivati a partiti occidentali da regimi illiberali desiderosi di condizionarne la linea politica.
Il “caso Parnasi” ha scoperchiato un vaso di Pandora: agli addetti ai lavori era già evidente, purtroppo, che la legge sul finanziamento ai partiti fosse piena di lacune. Speriamo che l’indignazione popolare seguita all’ennesimo scandalo di corruzione porti questa volta governo e Parlamento a legiferare bene, con attenzione, promuovendo davvero trasparenza e integrità in politica.
(1) art 5, comma 3: “Gli obblighi di pubblicazione nei siti internet di cui al quinto e al sesto periodo del presente comma concernono soltanto i dati dei soggetti i quali abbiano prestato il proprio consenso, ai sensi degli articoli 22, comma 12, e 23, comma 4, del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196”) Proposte per rendere più trasparente finanziamento pubblico ai partiti sono ferme in parlamento. Ci riferiamo, in particolare, al disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati l’8 giugno 2016, risultante dall’unificazione di più disegni di legge presentati da diversi deputati. Disegno di legge che non risulta essere mai stato approvato dal Senato. Ebbene anche in questo disegno di legge viene comunque posto un limite (art. 6 comma 9) legato a consenso che l’erogante deve prestare ai sensi del codice in materia di protezione dei dati personali. La proposta illustrata dai 5 stelle ad aprile 2016, che prevedeva di dare massima trasparenza abolendo tetti e permessi e di estendere gli obblighi alle fondazioni, presentata come disegno di legge alla Camera il 7.4.2016, il risulta “coordinata” nel testo risultante dall’unificazione dei disegni di legge approvato dalla Camera dei deputati l’8 giugno 2016 che, come detto, non risulta però approvato dal Senato. Risulta in esame alla commissione il 27.6.2017: http://www.senato.it/leg/17/
Per le fondazioni si limita alle prescrizioni contenute nell’art. 5 comma 4 che prevede l’obbligo di trasparenza solo relativamente alla pubblicita’ degli statuti e dei bilanci e solo in certe condizioni (erogazione di contributi per più del 10% dei proventi della fondazione.