Coronavirus, chi perde il lavoro perde anche il diritto ad ottenere la cittadinanza?
Autore : Redazione
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(da Redattoresociale 16 aprile 2020) Coronavirus, se perdo il lavoro perdo anche il diritto ad ottenere la cittadinanza?
di Eleonora Camilli
Per la naturalizzazione serve dimostrare un reddito minimo congruo. Ma cosa succede se colf, badanti, lavoratori del turismo o la ristorazione stranieri restano senza occupazione? Asgi: “C’è molta discrezionalità ma di questa emergenza si dovrà tenere conto”
ROMA – Celia ha 46 anni ed è originaria del Perù, ma da dodici vive in Italia con suo figlio, ora ventenne. Da quando è qui ha sempre lavorato come colf e baby sitter, qualche volta ha fatto anche la badante. Ma con l’emergenza sanitaria legata al coronavirus in corso ha perso il lavoro. Ad aprile due delle cinque famiglie per cui faceva le pulizie l’hanno licenziata, le altre tre le hanno detto di aspettare che passi il periodo di incertezza. Qualcuno ha paura del contagio, altri, stando in casa non hanno più bisogno di un aiuto domestico. “In questo momento non lavoro e ho paura per il futuro – racconta la donna -. Prima riuscivo ad arrivare a 800/mille euro al mese, lavorando per più persone, da aprile non ho reddito. Mi sto informando per un’indennità di disoccupazione, ma siccome mi hanno licenziato formalmente solo due famiglie, porterò a casa molto poco”. In attesa che il Governo approvi il nuovo decreto in cui dovrebbe essere compreso un bonus specifico per il lavoro domestico, Celia teme per i mesi a venire. Non solo per la difficoltà di avere uno stipendio sufficiente, ma anche perché che con l’abbassamento del reddito potrebbe non riuscire a fare domanda per ottenere la cittadinanza italiana, dopo aver atteso anni. Secondo la legge 91 del 92, che regola l’accesso alla cittadinanza per naturalizzazione, le persone possono farne richiesta dimostrando 10 anni di permanenza continuativa ma anche un reddito congruo pari a 8.263,31 per il richiedente senza coniuge né figli a carico e a 11.362,05 per il richiedente con coniuge a carico ( cui si aggiungono ulteriori 516 euro per altri figli a carico).
“Finora non ho mai potuto inoltrare la domanda perché non rientravo nei criteri, ma soprattutto il mio reddito non era adeguato – spiega – ora che avrei potuto diventare cittadina italiana temo di dover aspettare ancora anni. Per me è un problema, sono anni che sono qui, ho sempre lavorato speravo di riuscire ad ottenerla sia per me che per mio figlio, cresciuto qui”. Anche Jovana Kuzman ha paura che la possibilità di diventare italiana si allontani per qualche anno ancora. Arrivata dalla Serbia quando aveva solo due anni, è cresciuta qui e ora che ha 23 anni vorrebbe poter essere riconosciuta come cittadina. “La domanda l’ho già presentata e sto aspettando, le procedure sono lunghe, la prefettura ha chiesto un’integrazione dei documenti, nel frattempo devo mantenere lo stesso standard di reddito – spiega, la ragazza studentessa di Scienze Politiche -. Io non lavoro, quindi il reddito di riferimento è quello dei miei genitori, ma mia madre ha perso il lavoro: faceva la lavapiatti in un albergo, e ora con la chiusura delle strutture difficilmente troverà un’altra occupazione a breve. Mio padre ha una pensione di invalidità che non sarà conteggiata, mentre lei un sussidio di disoccupazione: troppo poco, rischio di perdere la possibilità di ottenere la cittadinanza”.
Jovana è tra i rappresentanti del Movimento italiani senza cittadinanza, formato da persone di seconda generazione che chiedono da anni una riforma della Legge 91/92, che tenga conto dei mutamenti della società italiana e renda più facile l’accesso per i figli dei cittadini stranieri, nati e cresciuti qui. “Tra i nostri genitori moltissimi lavorano nei servizi di cura, per esempio occupandosi degli anziani o nel turismo e la ristorazione- aggiunge -. Questi settori sono tra i più colpiti in questo periodo di crisi. Ci sono persone con situazioni gravi, dove la perdita del lavoro incide pesantemente. Per noi del Movimento chi cresce in Italia non dovrebbe dover dimostrare un reddito congruo, si dovrebbe tener conto della nostra storia. Noi non siamo venuti qui per lavorare, qui ci siamo cresciuti. E non poter essere riconosciuti come cittadini ci crea molti problemi: nel mio caso io non posso accedere ai concorsi pubblici dove è richiesta la cittadinanza, e questo può essere un ostacolo per il mio futuro lavorativo”. La paura è quella di un ulteriore rinvio per mancanza di criteri: “ho dovuto aspettare a lungo perché non avevamo i soldi necessari per recuperare tutta la certificazione necessaria: bisogna avere i certificati, come l’atto di nascita e il casellario giudiziario, farli tradurre, un’operazione che per me è costata circa 450 euro in totale. E ora che avevo messo da parte i risparmi per farlo rischio che vada tutto in fumo. E’ assurdo – aggiunge – sono cresciuta qui, non parlo bene neanche il serbo, spero che si prenda in considerazione il nostro problema”. Il Movimento italiani senza cittadinanza sta raccogliendo le segnalazioni in tutta Italia, le testimonianze serviranno per lanciare un appello al Governo e chiedere che siano tenute in conto le paure anche dei cittadini stranieri, che vivono e lavorano in Italia. “Questa è una situazione di emergenza per tutti – conclude Kuzman – Il criterio del reddito non dovrebbe essere considerato per noi che siamo cresciuti qui, ma in attesa che cambi la legge chiediamo che almeno i redditi del 2020 non vengano presi in considerazione”.
“Sono paure fondate e legate all’esercizio spesso eccessivo del potere di discrezionalità con il quale si giudicano le domande di accesso alla cittadinanza – sottolinea Simone Keremidtschiev, consulente legale e membro di Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) – ma sulla questione del reddito di quest’anno possiamo aspettarci una considerazione interpretativa che tenga conto della situazione di emergenza. Allo stato attuale è molto difficile fare previsioni, in ogni caso c’è da tenere presente che i redditi 2020 potranno essere richiesti e considerati a partire dal termine per la presentazione delle relative dichiarazioni fiscali e, dunque, non prima della metà del 2021. Per chi ha presentato da poco o sta per presentare la domanda di cittadinanza potrà al più essere a breve richiesta la documentazione relativa ai redditi 2019, pre coronavirus. Credo in ogni caso che in applicazione del criterio di “ragionevolezza”, al cui rispetto sarebbe (il condizionale è d’obbligo) tenuta l’amministrazione, uno scostamento reddituale per il solo anno 2020 non possa e, soprattutto, non debba determinare da sola il rigetto automatico della domanda – aggiunge -. La giurisprudenza è ferma nel considerare il requisito reddituale nella sua globalità, e dunque oltre ai tre anni precedenti alla domanda anche eventualmente gli anni dell’istruttoria che, dopo il dl Salvini sono passati da 2 a 4, valorizzando anche il dato evolutivo e prospettico, vale a dire l’eventuale costante incremento reddituale o eventuali modifiche migliorative quali, ad esempio, la sottoscrizione di un nuovo contratto di lavoro. Nei casi di rigetto, poi, sicuramente si potrà controbattere, soprattutto nel caso in cui si sia già presentata la domanda. La situazione sarà più delicata per chi deve ancora fare richiesta, cosa succederà non possiamo saperlo, bisognerà capire anche quali misure economiche saranno messe in campo”. Keremidtschiev ricorda che secondo la circolare interpretativa del ministero dell’Interno, relativa al dpcm del 17 marzo scorso, sono stati sospesi i termini per le richieste di cittadinanza per naturalizzazione e matrimonio dal 23 febbraio al 15 aprile e che le certificazioni relative restano valide fino al 15 giugno.
“Il problema però permane perché continuiamo a registrare dinieghi delle prefetture per i motivi più disparati: un cedolino che non si legge bene oppure per una documentazione che risulta mancante, nonostante si stata regolarmente presentata – spiega -. In alcuni casi il richiedente riceve un decreto di inammissibilità, altri ricevono solo due righe sul portale. Qualcuno fa ricorso di autotutela e nel 10 per cento dei casi viene accolto, altri si rivolgono al Tar, ma i tempi sono lunghissimi. Inoltre, molte persone non riescono ad affrontare economicamente i costi di un ricorso e preferiscono rifare la domanda da capo. Questo non permette di creare giurisprudenza sul tema e lascia zone franche in cui l’amministrazione agisce liberamente”. Nell’ultimo anno, secondo i casi seguiti da Asgi, c’è stata una vera e propria stretta sulle domande di cittadinanza, complice anche una circolare che ha implementato la modalità telematica per le domande, datata 25 marzo 2019. “Prima la domanda era accettata, rifiutata o accettata con riserva – aggiunge – ora quest’ultima dicitura non esiste più. La possibilità di integrare la documentazione con osservazioni o eventuali documenti mancanti, pur legalmente sempre formalmente presente, viene raramente attivata dall’amministrazione che preferisce definire negativamente la domanda ogni volta si presenti anche un debole spiraglio, venendo così meno ai principi di buon andamento e cooperazione. Non c’è un minimo di contraddittorio e sta diventando tutto più difficile”.
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