DOMANDE E RISPOSTE SU STATO E FUTURO DELLA SANITÀ’ ITALIANA IN RELAZIONE ALL’AUTONOMIA REGIONALE DIFFERENZIATA
a cura di Loretta Mussi*
Come funziona la Sanità in Italia?
Il Servizio Sanitario Nazionale, è stato pensato e realizzato secondo principi di universalità, equità e solidarietà: cioè ogni cittadino di qualsiasi origine, dovunque risieda, ricco o povero, deve essere curato dallo Stato, nello stesso modo e gratuitamente. Questo era lo spirito originario della L.833/78[1]. Successivamente si è aggiunto il pagamento di una quota di partecipazione (ticket). E’ con le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale (tasse), che lo Stato italiano aveva previsto di rispondere ai bisogni di salute dei suoi cittadini. Sulla carta è ancora così, ma nella pratica non ci sono più né equità, né solidarietà. Non solo, da anni la Sanità Pubblica è sottoposta ad un processo di progressivo definanziamento che l’ha alleggerita di decini di miliardi, 37 dal 2012 al 2017[2] ed è è sempre più insidiata dal privato, in particolare dalla sanità integrativa, che non solo si sostituisce al pubblico, ma si avvantaggia attraverso la defiscalizzazione che lo stato le concede
Chi organizza oggi i servizi per la nostra salute e per le nostre cure?
Attualmente, la “tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” è garantita dall’Art.32 della Costituzione[3], mentre essendo, ai sensi dell’Art.117[4], una “materia concorrente” le competenze sono suddivise tra Stato e regioni. Allo Stato spetta la potestà legislativa per quanto riguarda la determinazione dei princìpi, livelli, soglie dei diversi parametri e liee guida principali, mentre alle Regioni spettano le altre competenze legislative e l’organizzazione dei servizi.
Da dove provengono le risorse finanziarie per la Sanità?
Il finanziamento avviene attraverso:
La fiscalità generale delle regioni, cioè l’IRAP (imposta regionale sulle attività produttive per la parte destinata al finanziamento della sanità) e l’IRPEF (addizionale regionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche).
Lo Stato, che garantisce il 65% del finanziamento per la Sanità attraverso l’IVA (imposta sul valore aggiunto)
Le entrate proprie delle aziende del Servizio sanitario nazionale (ticket e ricavi derivanti dall’attività intramoenia dei dipendenti)
La Compartecipazione, (in piccolissima parte), delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome di Trento e di Bolzano,
Come si calcola il finanziamento della Sanità e com’è distribuito tra le Regioni?
Il finanziamento del SSN si basa ancora sulla “spesa storica”[5]che considera come parametro principale l’età della popolazione. Da anni si sta dicendo che il sistema deve cambiare, a favore di un sistema più equo ma ciò non avviene perché mancano le risorse: non si può toccare la rendita consolidata di cui gode il Nord, ma non si vogliono neppure toccare risorse che sono su altri capitoli, e che permetterebbero di cominciare ad invertire la situazione del Sud.
Vi è quindi una grande iniquità nella distribuzione delle risorse finanziarie, dei mezzi e del personale tra le diverse Regioni e tra i territori. Possiamo fare alcuni esempi?
Le disparità di finanziamento negli anni hanno prodotto un grave arretramento del Mezzogiorno con forte aumento delle disuguaglianze che con l’AD aumenteranno ulteriormente (perché diminuiranno le risorse a disposizione).
Diseguito si tracciano solo alcune condizioni che già ora producono disuguaglianze tra le diverse regioni, ma anche all’interno dei territori di una stessa regione. Secondo gli ultimi dati disponibili del 2018, mentre un cittadino del Centro-Nord riceve 17.621 Euro, un cittadino meridionale ne riceve 13.613, con una differenza di 4008 Euro[6]. Se le risorse fossero distribuite uniformemente – ed equamente – lo Stato dovrebbe spendere nel Sud quasi 83 miliardi in più ogni anno per sanare la differenza di trattamento dei 20,697 milioni di cittadini meridionali.
Viste le maggiori entrate di cui dispongono le regioni settentrionali, sia proprie, che provenienti dallo Stato, hanno una la spesa pubblica pro capite è più alta: poco meno di 19 mila euro in Lombardia, poco meno di 18 mila euro in Piemonte; 16 mila euro in Veneto; mentre al Sud la Sicilia si attesta attorno ai 14 mila euro, la Calabria a 15 mila euro e la Campania a 13.700 euro. Le stime per il 2023 vedono addirittura un allargamento del divario: complessivamente 200 miliardi di euro per il Sud, 550 miliardi per il Centro-Nord[7].
Se poi passasse la proposta del Presidente del Veneto Zaia (Lega)[8] di trattenere il 90% delle tasse e dei tributi[9] delle regioni a Statuto Ordinario nei loro rispettivi territori, secondo la Rivista Economica del Mezzogiorno, su 751 miliardi di bilancio annuale dello Stato, ne verrebbero a mancare 190,5[10]. Quei 190,5 miliardi uscirebbero dal bilancio dello Stato nazionale per entrare nel bilancio di Veneto (41,2 miliardi) Lombardia (106,3 miliardi) ed Emilia Romagna (43 miliardi). Il divario tra Nord e Sud aumenterebbe moltissimo e la presenza dello Stato al Sud arretrerebbe drasticamente. Qualora non volesse aggravare il forte divario territoriale, lo Stato dovrebbe aumentare il proprio deficit di 190 miliardi l’anno. Anche l’ipotesi avanzata dal Presidente dell’Emilia Romagna Bonaccini (PD) di trattenere “solo” il 60% delle tasse e dei tributidelle regioni a Statuto Ordinario nei loro rispettivi territori, creerebbe comunque un ammanco nel bilancio dello Stato di 125 miliardi[11]
Nel Disegno di Legge del Ministro Calderoli approvato in Consiglio dei Ministri il 7 febbraio 2023 che giunge ora in Parlamento, è inserito genericamente che per il finanziamento dell’autonomia regionale è prevista una compartecipazione al gettito. Le tre regioni firmatarie delle prime pre-intese – Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – producono da sole il 40% di tutto il gettito IRPEF: se dovesse applicarsi quanto previsto nel Disegno di legge riguardo alla compartecipazione, le tre regioni da sole potrebbero prendersi tutto e resterebbe ben poco per finanziare le altre regioni.
Non vi è alcun accenno, nel Disegno di legge, all’applicazione dell’Art. 119 del Titolo V° (così come modificato nel 2001), che recita “La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. Di fatto tale fondo perequativo non è stato mai costituito, la perequazione è sempre stata parziale ed è una delle maggiori cause del definanziamento del mezzogiorno. Basti per chiarire la nota[12].
La scarsità di risorse influenza lo stato di salute nelle Regioni più svantaggiate?
Le regioni del Sud, ma anche alcuni territori del Nord, già ora si caratterizzano per scarsità di risorse, mancanza di lavoro, difficoltà nell’accesso all’istruzione, scarsità di servizi pubblici. Se a ciò si aggiunge l’insufficienza di risorse per la prevenzione primaria e secondaria, si ha un netto peggioramento nelle condizioni di salute nelle regioni più povere, come confermato dai dati del Ministero dalla Sanità. Alcuni esempi:
La speranza di vita alla nascita[13]. Nei tre anni precedenti la pandemia in Italia la vita media attesa alla nascitao aspettativa di vita era aumentata per gli uomini da 80,5 anni nel 2017 a 81,1 nel 2019, e per le donne da 84,9 anni a 85,4. La speranza di vita alla nascita più alta si concentrava nelle regioni del Centro Nord (al vertice la Provincia di Trento con 84,2 anni) rispetto al Sud dove la Campania è fanalino di coda con 80,9 anni (Dati Eurostat). La bassa speranza di vita al Sud, dove peraltro ci si ammala di meno per malattie croniche e tumori è dovuta al fatto che i servizi di diagnosi e cura sono più carenti.
La mortalità evitabile[14]. Nel 2019 sono decedute in Italia per cause evitabili 96.400 persone che rappresentano il 63% di tutti i decessi sotto i 75 anni di età. Sono morti molto di più gli uomini, quasi il doppio, e sia per gli uomini che per le donne questo tipo di mortalità ha visto tassi molto più bassi al Centro-Nord che al Sud. Anche in questo caso vi è la conferma che al Sud sono ridotti gli interventi di prevenzione primaria/secondaria, mancano i servizi per una assistenza sanitaria tempestiva ed efficace e i trattamenti sanitari non sono adeguati.
L’80% delle scuole, al Sud, è senza mensa e l’83% senza palestra. Fattori che, unitamente alla cattiva alimentazione, causano, soprattutto tra i bambini poveri, un’incidenza di obesità pari al 40% contro una media nazionale del 29%. E l’obesità è alla base di successive malattie.
Nel Sud solo un terzo dei Comuni offre degli asili nido, e quelli esistenti coprono appena il 5,4% dei bambini con età inferiore ai tre anni, a fronte del 16,3% al Nord e 18,6% al Centro. Secondo l’Istat, nel 2013, per gli asili nido, un bambino con meno di tre anni, se residente nel comune di Reggio Calabria aveva 31 euro l’anno, se residente nel comune di Bologna aveva 3400 euro.
Al Sud è maggiore la mortalità infantile[15]: la mortalità a Cosenza è del 5,6 per1000, a Pesaro-Urbino è di 0,44 per 1000. La mortalità infantile, come la morte evitabile segnala un parametro fuori dall’ordinario, cui è sottesa una causa particolare che segnala un malfunzionamento dei servizi.
Sindemia e disuguaglianze. Le malattie per cui In Italia si muore maggiormente sono i tumori, le malattie dell’apparato cardiocircolatorio e respiratorio e il diabete. E’ dimostrato che la maggiore mortalità per queste malattie è associata a minore istruzione e povertà e che questa associazione è maggiore al Sud[16] : così al Sud ci si ammala meno per tumore ma si muore di più perché i servizi sanitari non sono adeguati.
Liste di attesa. Mentre nel resto d’Italia, seppure a fatica, si stanno smaltendo le liste di attesa formatesi a seguito della pandemia che per tre anni ha avuto la precedenza, al Sud il problema resta pesante e non accenna a diminuire. Ciò è determinato dalla difficoltà di accesso ai servizi sanitari, deboli e poco diffusi, ma anche dalla scarsità di personale.
Ma il dato che più esprime la mancanza risorse per Sud e isole è la mobilità sanitaria verso il Nord: negli ultimi 10 anni le Regioni del Sud hanno versato 14 miliardi a quelle del Nord per far curare i propri cittadini. Le Regioni capofila dell’autonomia differenziata, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna sono le più attrattive e raccolgono il 94,1% del saldo attivo, mentre l’83,4% del saldo passivo si concentra in Campania, Lazio, Sicilia, Puglia, Abruzzo e Basilicata.
Così le regioni del Sud già prive di risorse per i servizi di salute essenziali, si trovano a dover pagare alle ricche regioni del Nordi servizi che non riescono a garantire nel loro territorio,di fatto garantendo consistenti introiti ai loro bilanci, in particolare a quelli di Lombardia ed Emilia Romagna.
Cosa possono ulteriormente chiedere le Regioni per l’Autonomia Regionale Differenziata in Sanità?
In base al comma 3 dell’Art. 116 della Costituzione, le Regioni a statuto ordinario possono chiedere “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” concernenti le materie di legislazione concorrente, praticamente 23 materie[17], e quindi possono chiedere tutte le competenze e le funzioni che informano la tutela della salute, che non hanno ancora. Le altre 23 materie sono in nota.
Che cosa succederà rispetto all’attuale organizzazione della Sanità se una o più Regioni chiederà l’autonomia differenziata per la sanità?
Se il Disegno di Legge Calderoli completerà il suo iter con i tempi annunciati, in un paio d’anni[18] potremo avere fino a 21 Servizi sanitari regionali completamente diversi tra di loro: ogni Regione infatti potrà legiferare e organizzare i servizi per la salute in base alla propria visione politica e alle risorse che deciderà di dedicare alla salute dei cittadini. Come si è visto, la distribuzione delle risorse non sarà semplice, e ci saranno problemi soprattutto per le Regioni con ridotte risorse fiscali, con il forte rischio che la carenza di risorse spinga ulteriormente verso la privatizzazione, nonostante sia provato che una sanità basata sul privato spenda di più (vedi Stati Uniti). Di fatto sarà cancellato il SSN, ogni Regione stabilirà le proprie tariffe, l’organizzazione dei servizi varierà da Regione a Regione e così sarà anche per l’erogazione delle diverse prestazioni. E per le prestazioni insufficienti al Sud continuerà la mobilità verso il Nord.
Ma lo Stato non ha stabilito dei Livelli Essenziali di Assistenza – LEA- che devono essere applicati dalle Regioni?
Con la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, furono introdotti i LEA, Livelli Essenziali di Assistenza[19], allo scopo di fornire alle Regioni il quadro per l’esercizio delle nuove competenze sanitarie trasferite dallo Stato e soprattutto di ridurre le disparità tra le Regioni ed evitare ulteriori divaricazioni tra Nord e Sud. I LEP[20], Livelli Essenziali delle Prestazioni, sono l’equivalente dei LEA, cioè sono le prestazioni di carattere sociale, che avrebbero dovuto essere stabiliti all’inizio degli anni 2000, ma che in più di venti anni non sono stati né individuati né approvati[21]. Va rilevato che in entrambi i casi si parla di limiti essenziali, cioè minimi, e non equi e uniformi. Nel DDL Calderoli licenziato dal CDM ed inviato al Parlamento, si dice che i LEP saranno definiti entro la fine dell’anno[22], con una procedura che arriva fino a ipotizzare l’intervento di un commissario straordinario[23], tuttavia appare difficile che possano essere individuati in un tempo così breve, anche perché richiedono una lunga mappatura, tempo e quantificazione delle risorse necessarie[24]. I servizi da prevedere e realizzare riguardano servizi sociali, asili e scuole, trasporti e mobilità nei e tra i comuni.
Dal punto di vista finanziario, come saranno ripartite le risorse tra le Regioni che chiederanno l’autonomia e tra quelle che non la chiederanno?
Le fonti di finanziamento continueranno ad essere quelle descritte nella prima parte (Irap, Irpef, IVA, entrate proprie), con il rischio che le Regioni che avranno raggiunto l’autonomia differenziata possano ottenere di trattenere la maggior parte del loro gettito fiscale, con la conseguenza che le risorse si ridurranno e non saranno disponibili per le altre regioni. A ciò si deve aggiunge il probabile scenario di una revisione al ribasso delle fonti regionali e statali che attualmente alimentano la Sanità. Ciò comporterà l’aumento del ricorso al privato e alla sanità integrativa, anche perché Governo, Ministri della sanità e dell’economia, continuano a ribadire che per la Sanità non ci sono risorse.
Se ciò avverrà, il risultato sarà che le Regioni più povere non avranno risorse per costruire ospedali, garantire i servizi sanitari, assumere personale, fare prevenzione. I cittadini più benestanti pagheranno di tasca propria, quelli del sud continueranno a migrare verso il Nord e molti non riusciranno a curarsi. Senza escludere il rischio che molte Regioni possano collassare.
Ci saranno effetti anche per il personale?
Con la frammentazione delle competenze sanitarie, non vi sarà più un unico contratto nazionale, ma vi saranno diversi contratti regionali (e quindi tutele e salari differenti), la ricomparsa delle gabbie salariali e la conseguente concorrenza al ribasso su salari e diritti: i lavoratori saranno meno tutelati, specie nel Mezzogiorno, con maggiori rischi di ricatto occupazionale e di sfruttamento. In generale, venendo meno una rappresentanza comune sovraregionale, potranno essere licenziati ancora più facilmente. In questa situazione le imprese e le multinazionali avranno interesse a delocalizzare nelle zone con mano d’opera a basso costo e sotto ricatto, a scapito anche dei territori più produttivi, per cui il danno sarà sia al Sud che al Nord.
Anche le scuole di specializzazione saranno regionalizzate?
Potrebbero prospettarsi due tipi di scuola. Una di primo livello, presso le Università, dotata di standard nazionali elevati e uniformi, una seconda, gestita a livello regionale, che si può immaginare avrà standard formativi volti a preparare manodopera da impiegare velocemente. Il rischio è che ci possano essere specializzandi di serie “A” e di serie “B” con un abbassamento della qualità e uniformità delle cure.
L’organizzazione degli ospedali e dei servizi territoriali resterà la stessa?
Già ora vi sono 21 Servizi Sanitari Regionali, diversi l’uno dall’altro, come conseguenza del trasferimento, in seguito alla Riforma del titolo V della Costituzione nel 2001, di molte delle competenze sanitarie dallo Stato alle Regioni. Con l’Autonomia differenziata le differenze aumenteranno. Vi è il rischio di tornare alla centralità dell’ospedale a scapito del territorio e di interrompere il lavoro di integrazione tra unità ospedaliere e servizi territoriali, tra assistenza ospedaliera e assistenza domiciliare/distrettuale, la cui sin sinergia è fondamentale per costruire quel cordone sanitario, che solo può fermare la diffusione delle malattie trasmissibili gravi, che in futuro sicuramente torneranno. Non si vede alcuna volontà in tal senso nonostante la pandemia abbia messo in evidenza come l’ecatombe delle prime settimane sia stata causata dall’assenza di presidi sul territorio, di personale e di operatori formati alla prevenzione e all’assistenza di prossimità.
E’ interessante osservare come Lazio e Lombardia, pur con due governi diversamente orientati politicamente, presentano gli stessi esiti rispetto alla presenza/prevalenza del privato: sommando i dati relativi a accreditamenti, convenzioni, servizi esternalizzati, per l’anno 2021 si ottiene una prevalenza del privato sul pubblico pari a: il 53,8 % per il Lazio e il 53,5 % per la Lombardia. Solo nel 2021 il privato era pari a 29,7% nel Lazio, mentre in Lombardia era 26,0 %. (Ragioneria generale dello Stato, Rapporto sulla spesa sanitaria)[25]
L’Autonomia Differenziata riguarda anche la politica del farmaco e i vaccini?
La regolazione di questa materia piuttosto complessa è affidata all’AIFA (Agenzia italiana del farmaco), che si coordina con l’EMA (Agenzia Europea per i farmaci). Se le Regioni avranno l’autonomia su questa materia si andrà incontro a forti disuguaglianze per la diversità delle tariffe, dei rimborsi, della determinazione dei farmaci equivalenti. Ci saranno anche difficoltà di approvvigionamento perché nei rapporti commerciali con una casa farmaceutica, che spesso è una multinazionale, lo Stato ha maggior forza rispetto ad una Regione, benché importante. Alcune Regioni, in particolare le tre che hanno già sottoscritto le pre-intese, sono fermamente intenzionate ad ottenere la competenza sui farmaci equivalenti, cioè decidere sulla abolizione dei brevetti[26] per determinati farmaci: questo significa creare diversificazioni e disuguaglianze rispetto ai cittadini delle Regioni dove non è richiesta la competenza su tale funzione, perché come è noto i farmaci generici, a parità di effetto, sono molto meno costosi.
Anche il controllo e la tutela degli alimenti potranno passare alle Regioni?
La tutela degli alimenti è già ora materia concorrente Stato – Regioni: sono le Regioni che, In attuazione della L.833/78, hanno individuato “Servizi per la vigilanza sugli alimenti” collocandoli nei Dipartimenti di prevenzione insieme ai Servizi veterinari. A tali servizi, attraverso i laboratori, competono i controlli di tutta la filiera, sulla base degli standard di qualità e salubrità fissati dallo Stato. Purtroppo, come accadde con tutte le attività di prevenzione primaria, anche le attività di controllo e vigilanza sugli alimenti incontrano parecchi ostacoli, sia per la carenza di operatori che per le difficoltà che vengono frapposte da aziende/mercati/centri vendita. Soprattutto faticano a svilupparsi sinergie con materie/competenze che intervengono a monte (es: allevamenti, agricoltura). Questo è uno di tanti esempi che evidenziano come le Regioni, anche sulle materie in cui hanno forti competenze non siano grado di garantire il corretto svolgimento dei loro compiti di controllo.
Vi sono altre materie concorrenti, all’interno della Sanità, che rischiano di passare alla competenza esclusiva delle Regioni?
Vi è tutto il Comparto della prevenzione e della sanità animale che sono già in carico alle ASL, come previsto dalla Legge 833/78 che diede alle regioni il compito di legiferare in materia, istituendo prima i servizi di prevenzione e per la sanità Animale e poi i Dipartimenti di prevenzione che le ASL (allora USL) dovevano organizzare per i Servizi per la prevenzione e per la sanità animale. I Servizi di prevenzione, per la tutela dell’ambiente, della salute sui luoghi di lavoro e negli ambienti di vita, e per la tutela delle specie animali, sono stati istituiti da parte delle Regioni negli anni ’80. Si trattava di competenze estese per la tutela della salute, che richiedono operatori, strumentazione e laboratori. Servizi che sono stati i primi a subire tagli e ad essere ridimensionati, fino ad essere praticamente eliminati verso la fine degli anni ’90, quando sulla spinta di Maastricht[27] anche l’Italia introdusse nella Sanità principi liberisti (pareggio di bilancio nella gestione sanitaria, subordinazione della spesa sanitaria alle disponibilità finanziarie dello Stato, gestione monocratica del Direttore aziendale, trasformazione delle USL in ASL, cioè in aziende). Le difficoltà per i servizi di prevenzione crebbero soprattutto dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, che consentì alle Regioni di agire pressoché in autonomia rispetto al Ministero.
Loretta Mussi, già medico di Sanità Pubblica
Per osservazioni e precisazioni: laboratoriocarteinregola@gmail.com
La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
https://www.senato.it/istituzione/la-costituzione/parte-ii/titolo-v/articolo-117: sono materie di competenza legislativa esclusiva statale (art. 117, comma 2, Cost.): organizzazione della giustizia di pace (lett. l); norme generali sull’istruzione (lett. n); tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, materie di competenza legislativa esclusivamente statale (lett. s); Venti materie sono di competenza legislativa concorrente (art. 117, comma 3, Cost.): quelle relative a: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.
[5] La spesa storica è un criterio secondo cui le risorse destinate a regioni, province e comuni sono stimate in misura pari alla spesa sostenuta dall’ente in quell’epoca. Trasferimenti che sono stati aumentati o diminuiti con percentuali fisse per tutti gli enti, sulla base degli andamenti economici che si sono verificati nel corso degli anni trascorsi. Così le regioni del Centro-Nord, che hanno storicamente una popolazione più anziana (che abbisogna di più servizi) ricevono più soldi di quelle del Sud, con una popolazione giovane, nonostante abbiano una aspettativa di vita minore, a causa delle precarie condizioni socioeconomiche che ne penalizzano la salute e l’accesso alle cure. Quindi storicamente Sud e isole ricevono molto di meno.
[8] Veneto, Lombardia a guida centro destra, e Emilia Romagna, a guida centro sinistra, nel febbraio 2018, 4 giorni prima delle elezioni politiche, hanno firmato delle pre intese con l’allora Governo Gentiloni (centrosinistra) per l’avvio del percorso dell’autonomia
Bur n. 113 del 20 novembre 2017 DELIBERAZIONE DEL CONSIGLIO REGIONALE n. 155 del 15 novembre 2017
Proposta di legge statale da trasmettere al Parlamento nazionale, ai sensi dell’articolo 121 della Costituzione dal titolo: “Iniziativa regionale contenente, ai sensi dell’articolo 2, comma 2, della legge regionale 19 giugno 2014, n. 15, percorsi e contenuti per il riconoscimento di ulteriori e specifiche forme di autonomia per la Regione del Veneto, in attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione” d’iniziativa della Giunta Regionale del Veneto. (Progetto di legge statale n. 43). [Riforme istituzionali]
(…) L’articolo 2 (Attribuzione di risorse ai sensi dell’articolo 119 Cost.) disciplina la modalità di finanziamento del nuovo assetto di competenze che, come si è anticipato, include fra l’altro la presa in carico da parte della Regione dell’intero finanziamento del servizio sanitario regionale e, in materia di istruzione, del personale insegnante. La disposizione è conforme a quanto dispone l’articolo 116, terzo comma, Cost., che impone il rispetto dell’articolo 119 Cost., il quale a sua volta prevede che compartecipazioni e tributi propri consentano “di finanziare integralmente le funzioni pubbliche” attribuite. La stima di queste funzioni porta a ritenere congruo che siano riconosciute alla Regione del Veneto le seguenti quote di compartecipazioni ai tributi erariali: nove decimi del gettito dell’Irpef, nove decimi del gettito dell’Ires, nove decimi del gettito dell’imposta sul valore aggiunto (Iva). La determinazione di dette quote è effettuata assumendo a riferimento indicatori od ogni altra determinazione idonea alla valutazione dei fenomeni economici che hanno luogo nel territorio regionale. Le seguenti quote, da un lato, si devono intendere sostitutive della attuale compartecipazione regionale all’Iva, dall’altro si aggiungono sia agli attuali tributi propri di spettanza della Regione (Irap, addizionale Irpef, ecc.), sia alle altre forme di fiscalità mirata indicate nell’articolato.
[11] Queste richieste sono state avanzate rispettivamente da Zaia e Bonaccini nelle proposte avanzate attraverso le pre-intese il 28 febbraio 2018
[12] La risposta è nelle parole dell’allora Presidente della commissione parlamentare di attuazione del federalismo fiscale Giancarlo Giorgetti nella seduta del 30/04/2015 sui criteri di riparto del fondo di solidarietà comunale per l’anno 2015. Giorgetti dopo l’audizione di Fabrizia Lapecorella, allora Direttore generale del Dipartimento delle finanze del Ministero dell’economia, disse alla stessa : «Sicuramente avrete nel vostro sistema la capacità di produrre questo tipo di dati, per cui vi pongo la seguente domanda. Se applicassimo non il 20 per cento, ma il 100 per cento della perequazione e non stabilizzassimo al 45,8 per cento, quale sarebbe l’effetto di una perequazione piena del sistema che abbiamo così faticosamente costruito? I dati probabilmente sarebbero scioccanti, magari ce li fate avere in modo riservato o facciamo una seduta segreta, come avviene in Commissione antimafia.». Insomma, poiché i dati sono scioccanti meglio secretarli. E i rappresentanti meridionali presenti muti.
[13] La speranza di vita è uno degli indicatori core per valutare lo stato di salute di una popolazione, consolidato a livello internazionale, che esprime i livelli di sopravvivenza considerando il numero medio di anni di vita attesa, alla nascita o a una data età̀ (per es., a 65 anni). Ormai da qualche decennio l’Italia si colloca tra i primi Paesi nel mondo per longevità̀. Anche se, come abbiamo visto, con l’esclusione della sua popolazione meridionale
[14] La mortalità evitabile si riferisce ai decessi delle persone sotto i 75 anni di età che avvengono per cause di morte contrastabili con stili di vita più salutari, con la riduzione di fattori di rischio ambientali e con adeguati e tempestivi interventi di diagnosi e trattamento della malattia. È una morte prematura.
[15] Mortalità infantile: numero di bambini morti entro un anno di età ogni 1000 nati vivi
[16]Atlante italiano delle disuguaglianze di mortalità per livello di istruzione (Istat, 2019) risulta che il 18,3 % della mortalità generale tra gli uomini e il 13,4% tra le donne è dovuta ad un basso livello d’istruzione. E che in Campania, Puglia e Sicilia tale quota sale oltre il 25%. Si verifica quella che ormai si chiama sindemia, cioè un concorso di fattori sociali, ambientali e patologici nella causalità e nell’esito delle malattie. Le regioni in cui è maggiore la relazione tra contesto ambientale e mortalità sono, per le donne: Liguria, Molise, Campania, Puglia, Sicilia, Basilicata; per gli uomini: Valle d’Aosta, Molise, Friuli Venezia Giulia. Tra le donne ad essere più colpite sono, ancora, quelle del Sud
[22] Secondo il DDL Calderoli i LEP saranno definiti “con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri” attraverso il procedimento introdotto dai commi della legge di bilancio n. 197/2022
[23] I commi della legge di bilancio n. 197/2022 prevedono l’istituzione di una “Cabina di regia” “presieduta dal Presidente del Consiglio dei ministri a cui partecipano, oltre al Ministro per gli affari regionali e le autonomie, il Ministro per gli affari europei, il Sud, le politiche di coesione e il PNRR, il Ministro per le riforme istituzionali e la semplificazione normativa, il Ministro dell’economia e delle finanze, i Ministri competenti” per le rispettive materie, insieme al ”presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome, il presidente dell’Unione delle province d’Italia e il presidente dell’Associazione nazionale dei comuni italiani, o loro delegati”. Tale cabina di regia ha il compito di “individuare le materie o gli ambiti di materie che sono riferibili ai LEP”, “sulla base delle ipotesi tecniche formulate dalla Commissione tecnica per i fabbisogni standard” e “predisporre uno o più schemi di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri con cui sono determinati, anche distintamente, i LEP e i correlati costi e fabbisogni standard”. Qualora le attività della Cabina di regia non si concludano nei termini stabiliti, il Presidente del Consiglio dei ministri e il Ministro per gli affari regionali e le autonomie nominano un Commissario.
[24] Si tratta di materie di peso, che richiedono spese ingenti, che vanno individuate nel bilancio dello Stato, ma difficile da reperire a meno che non si utilizzino altri capitoli: questo è uno dei motivi per cui i LEP, in 20 anni non sono stati mai finanziati, e perché i LEA non lo siano stati a sufficienza nelle regioni del Sud. Il rischio – ma si tratta di un’ipotesi assai probabile – è che le “ulteriori forme di autonomia alle Regioni” vengano conferite senza la definizione e il finanziamento dei LEP, ricorrendo, come si è fatto finora, alla forma più iniqua di finanziamento, cioè alla spesa storica, con il “calcolo disuguale”[24] prima descritto
[26] Su brevetti e vaccini vige il monopolio della casa farmaceutica per un periodo che va dai 10 ai 20 anni. Trascorso tale periodo e col benestare della casa farmaceutica, per garantire l’equivalenza il generico è sottoposto a vari passaggi per la verifica di qualità, efficacia e sicurezza. Quindi è autorizzato.
I Livelli essenziali di assistenza (LEA) sono le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale (SSN) è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket), con le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale (tasse).
Il nuovo Decreto sostituisce infatti integralmente il DPCM 29 novembre 2001, con cui i LEA erano stati definiti per la prima volta.
Il provvedimento, che rappresenta il risultato di un lavoro condiviso tra Stato, Regioni, Province autonome e Società scientifiche, è stato predisposto in attuazione della Legge di stabilità 2016, che ha vincolato 800 milioni di euro per l’aggiornamento dei LEA. Il DPCM 12 gennaio 2017 e gli allegati che ne sono parte integrante:
definisce le attività, i servizi e le prestazioni garantite ai cittadini con le risorse pubbliche messe a disposizione del Servizio sanitario nazionale;
descrive con maggiore dettaglio e precisione prestazioni e attività oggi già incluse nei livelli essenziali di assistenza;
ridefinisce e aggiorna gli elenchi delle malattie rare e delle malattie croniche e invalidanti che danno diritto all’esenzione dal ticket;
innova i nomenclatori della specialistica ambulatoriale e dell’assistenza protesica, introducendo prestazioni tecnologicamente avanzate ed escludendo prestazioni obsolete (fino all’entrata in vigore dei nuovi nomenclatori, per la specialistica ambulatoriale resta valido l’elenco di prestazioni allegato al DM 22 luglio 1996 e per la protesica quello allegato al DM n. 332/1999).
I Tre grandi Livelli individuati dal DPCM
Il DPCM individua tre grandi Livelli:
Prevenzione collettiva e sanità pubblica, che comprende tutte le attività di prevenzione rivolte alle collettività ed ai singoli; in particolare:
sorveglianza, prevenzione e controllo delle malattie infettive e parassitarie, inclusi i programmi vaccinali;
tutela della salute e della sicurezza degli ambienti aperti e confinati;
sorveglianza, prevenzione e tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro;
salute animale e igiene urbana veterinaria;
sicurezza alimentare – tutela della salute dei consumatori;
sorveglianza e prevenzione delle malattie croniche, inclusi la promozione di stili di vita sani ed i programmi organizzati di screening; sorveglianza e prevenzione nutrizionale;
attività medico legali per finalità pubbliche.
Assistenza distrettuale, vale a dire le attività e i servizi sanitari e socio-sanitari diffusi sul territorio, così articolati:
assistenza sanitaria di base;
emergenza sanitaria territoriale;
assistenza farmaceutica;
assistenza integrativa;
assistenza specialistica ambulatoriale;
assistenza protesica;
assistenza termale;
assistenza sociosanitaria domiciliare e territoriale;
assistenza sociosanitaria residenziale e semiresidenziale.
Assistenza ospedaliera, articolata nelle seguenti attività:
pronto soccorso;
ricovero ordinario per acuti;
day surgery;
day hospital;
riabilitazione e lungodegenza post acuzie;
attività trasfusionali;
attività di trapianto di cellule, organi e tessuti;
centri antiveleni (CAV).
Nel testo del DPCM il Capo IV è dedicato specificatamente all’Assistenza sociosanitaria, il Capo VI è dedicato all’Assistenza specifica a particolari categorie.
Le Regioni, come hanno fatto fino ad oggi, potranno garantire servizi e prestazioni ulteriori rispetto a quelle incluse nei LEA,utilizzando risorse proprie.
Aggiornamento e monitoraggio dei LEA
Per garantire l’aggiornamento continuo, sistematico, su regole chiare e criteri scientificamente validi dei Livelli essenziali di assistenza, è stata istituita la Commissione nazionale per l’aggiornamento dei LEA e la promozione dell’appropriatezza nel Servizio sanitario nazionale.
Inoltre, con decreto del ministro della Salute del 21 novembre 2005 è stato istituito, presso il Ministero, il Comitatopermanente per la verifica dell’erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza (Comitato LEA), cui è affidato il compito di verificare l’erogazione dei LEA in condizioni di appropriatezza e di efficienza nell’utilizzo delle risorse, nonché la congruità tra le prestazioni da erogare e le risorse messe a disposizione dal Servizio Sanitario Nazionale.