La domanda rimbalza da anni nel settore degli studi urbani e interpella architetti e urbanisti, sociologi, geografi ed economisti. E l’abituale identificazione fra l’urbano e la città vacilla, fino a cadere fiaccata: possono diffondersi nel territorio case, anche palazzi, centri commerciali e centri logistici, stabilimenti industriali e paradisi del divertimento, possono distribuirsi (quando va bene) infrastrutture, strade e linee ferroviarie. Ma non è detto che questo faccia città — e città distinta nettamente dalla non-città.
Il fenomeno va avanti da qualche decennio. Ma faticano le sistemazioni teoriche e, soprattutto, è incerto come si possa fronteggiare un processo che genera affanno, spreco, alimenta individualismi e solitudine. Insorge l’espressione post- metropoli, coniata dal geografo Edward Soja, scomparso nel 2015. Un analista coinvolto su questo fronte d’indagine è il sociologo Neil Brenner, docente ad Harvard, fra i più innovativi e anche radicali analisti delle trasformazioni urbane, alle quali oppone l’idea che «un’altra urbanizzazione è possibile, alternativa a quella imposta dall’ideologia neoliberista». Di Brenner, che spesso si richiama alla Scuola di Francoforte, è uscita in Italia una raccolta di saggi ( Stato, spazio, urbanizzazione, introduzione di Teresa Pullano, Guerini associati, pagg. 190, euro 18,50) e Brenner stesso è atteso a un convegno domani a Roma.
Brenner punta a dimostrare come l’urbanizzazione investa l’intero globo e sia figlia di un capitalismo fortemente finanziarizzato. Ma non basta ad attestarlo la migrazione di popolazione verso i centri urbani, che una stima Onu colloca oltre il 75 del totale nel 2050. No, insiste Brenner, a parte l’attendibilità dei dati, occorre cambiare prospettiva «perché è la città che è esplosa. Ed è anzi azzardato parlare di città riferendosi a quelle forme di urbanizzazione che un po’ si concentrano, un po’ si diradano, si spalmano in maniera non pianificata o secondo logiche economiche, tutte private, ma che non è più possibile ripartire fra urbano, rurale e persino periferico».
Centro e periferia, per esempio, è una coppia di concetti che perde peso. Questa urbanizzazione avviene mescolando funzioni diverse «residenziali, ma non solo, ci sono reti infrastrutturali e di trasporto, stabilimenti industriali inquinanti, discariche», spiega Brenner. «Non esiste un modello unico», aggiunge il sociologo, «la mia intenzione è di provocare una riflessione generale su quali forme assume l’urbanizzazione planetaria».
E in Italia? Alessandro Balducci, urbanista del Politecnico di Milano, per un anno assessore nella giunta Pisapia, ha avviato una ricerca insieme ad altre università (Piemonte orientale, Iuav di Venezia, Firenze, La Sapienza a Roma, Alghero, Federico II di Napoli, Palermo). Ne è nato un Atlante (www.postmetropoli.it) che mostra come, in maniera differente che altrove e con marcate diversità al suo interno, anche in Italia si assiste a un’espansione dell’urbano che non fa città (già dagli anni Novanta si parla di “città diffusa”, grazie agli studi di Francesco Indovina e Bernardo Secchi). «È però preoccupante», lamenta Balducci, «che una delle forme di governo più recenti di queste realtà, le aree metropolitane, sia completamente inadeguata. Pensiamo nel XXI secolo di governare con strumenti del XX secolo entro confini del XIX».
Ma quali indicazioni fornisce l’Atlante? «Una condizione post- metropolitana caratterizza le regioni che hanno conosciuto una fase metropolitana in passato », spiega Balducci. «Penso a Milano e, in misura diversa, a Napoli. Qui l’urbanizzazione non si dirada a mano a mano che si esce dal centro e anche dalla periferia novecentesca, andando verso i nuovi insediamenti. Proliferano nuove centralità in luoghi periferici, e la popolazione è anziana, si riducono i componenti del nucleo familiare e c’è un forte incremento di immigrati, tutti fenomeni che fino a ieri avevano caratterizzato solo le aree centrali dei contesti metropolitani».
Diversa è la situazione in Veneto o in Toscana, dove, sostiene Balducci, «non c’è mai stata una fase metropolitana e prevale una forma “polinucleare”». Il Veneto è uno dei primi laboratori della “città diffusa”, con una crescita dissennata dell’edificato che ha saturato molti spazi, ora intasati di capannoni vuoti. Qui, ma anche in Toscana, le urbanizzazioni «attraversano i confini delle vecchie province», dice Balducci, «e non sono né Firenze né Venezia il fulcro intorno al quale ruotano le dinamiche territoriali».
Altra storia ancora è quella di Roma, messa a fuoco in un volume di saggi curato da Carlo Cellamare, docente alla Sapienza ( Fuori raccordo, Donzelli, pagg. 357, euro 34) che applica alla capitale il tema della post-metropoli. Una capitale in cui intorno al Grande raccordo anulare, il Sacro Gra indagato da Niccolò Bassetti e portato al cinema da Gianfranco Rosi, è cresciuta un’urbanizzazione che conta un milione di abitanti.
All’inverso di Milano o di Napoli, più ci si allontana dal centro più i nuovi insediamenti si diradano fino a toccare densità talmente basse da non essere più pertinenti a una dimensione di città. Una densità che non consente un decente livello dei servizi, in particolare del trasporto pubblico. Fallimentare è stato il tentativo di costruire nuovi centri direzionali. Mentre, ricorda Giovanni Caudo, urbanista di Roma 3 ed ex assessore con Marino, «in tutti i comuni della provincia di Roma e in quelle di Viterbo, Terni e L’Aquila, si sono trasferiti centinaia di migliaia di romani, creando un insediamento fatto di cerchi concentrici, attraversati da un pendolarismo quotidiano».
Non c’è città meno città di Roma, dove più di un terzo delle persone vive in una sommatoria di brandelli. E dove si registra un’altra delle condizioni analizzate da Brenner: l’aumento del disagio e delle diseguaglianze che producono conflitti e, appunto, insiste il sociologo, «la richiesta di un “diritto alla città” — una città come spazio comune, prodotta e condivisa da tutti, tendenzialmente più egualitaria e democratica. Per questo penso che il progetto di subordinare l’assetto urbano a una logica di puro profitto è sempre controverso e contraddittorio e incontra una crescente resistenza ».