Per fare fronte all’aggravarsi della crisi dei rifugiati siriani e al collasso dello stato libico, l’Italia e l’Unione europea avrebbero dovuto accompagnare questo primo passo, di tipo umanitario, con riforme strutturali delle loro politiche migratorie, che comprendessero l’apertura di canali sicuri e regolari per rifugiati e migranti, in misura adeguata alla gravità della situazione. Ciò avrebbe potuto limitare il numero di persone che, nella pressoché totale assenza di opportunità di ottenere un visto per entrare in Europa regolarmente, rischiavano la vita nella pericolosissima traversata del Mediterraneo centrale. Purtroppo, le continue richieste in questo senso da parte del mondo non-governativo e dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, rimasero inascoltate. L’Italia, spalleggiata dagli altri governi europei, preferì investire su politiche di chiusura. Alla fine del 2014, Mare Nostrum fu sostituita con operazioni europee di carattere securitario e militare (Triton e, dall’estate 2015, EunavForMed Sophia), per le quali il salvataggio in mare, pur rimanendo tra i compiti necessari perché imposti dal diritto internazionale, non costituiva più la finalità principale della missione. Dal 2016, Italia ed Europa iniziarono a investire nel rafforzamento della capacità delle autorità marittime libiche di pattugliare le loro coste, intercettare in mare rifugiati e migranti diretti verso l’Europa e riportarli in Libia, oltre che a stringere accordi informali con milizie coinvolte nel traffico dei rifugiati e migranti. Questa strategia ha prodotto i risultati che si prefiggeva, riducendo partenze e arrivi: da luglio 2017, il numero di rifugiati e migranti approdati in Italia è diminuito drasticamente, passando dai 182.877 registrati nei 12 mesi precedenti (agosto2016 – luglio 2017), ai 42.700 dei 12 mesi successivi (agosto 2017 – luglio 2018). Al minor numero di partenze è corrisposto anche, logicamente, un numero minore di vittime in mare. Gli effetti di questa politica sono però stati drammatici per le persone riportate in Libia, non solo perché le autorità libiche non sono ancora in grado di tutelare le persone che intercettano in mare e spesso le maltrattano (come nel caso di Josefa, la donna ritrovata in mare dalla Ong Proactiva Open Arms lo scorso luglio) ma soprattutto perché quelle persone vengono sbarcate in Libia e immediatamente trasferite in centri di detenzione, dove vengono trattenute arbitrariamente e a tempo indefinito, in assenza di un ordine e di qualunque controllo giurisdizionale, e dove sono sistematicamente esposte a condizioni agghiaccianti oltre che a torture, stupri, maltrattamenti e sfruttamenti di ogni tipo. Violazioni dei diritti umani, queste, di cui l’Italia si è resa complice perché, pur conoscendo la situazione, ha continuato a offrire aiuto materiale a chi le perpetra e non ha richiesto alle autorità libiche di porre fine agli abusi, come condizione previa per la fornitura di tale assistenza. A partire dal 2017, la guardia costiera libica, forte del decisivo supporto italiano e dell’Unione europea, è stata in grado di intercettare in mare una fetta crescente di coloro che partivano. Migliaia di donne, uomini e bambini sono stati poi riportati nei centri di detenzione in Libia e sottoposti a maltrattamenti spietati.