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Il Governo impugna la legge regionale sarda scempia-territorio davanti alla Corte costituzionale.

Pubblichiamo l’articolo del gruppodinterventogiuridicoweb 21 dicembre 2023

Il Governo Meloni ha deciso di impugnare la legge regionale Sardegna 23 ottobre 2023, n. 9 (Disposizioni di carattere istituzionale, ordinamentale e finanziario su varie materie), il c.d. collegato alla finanziaria regionale, davanti alla Corte costituzionale (art. 127 Cost.) per conflitto di attribuzioni.

Così il comunicato stampa del Governo, relativo alla seduta del Consiglio dei Ministri del 19 dicembre 2023:

Comunicato stampa del Consiglio dei Ministri n. 62

Il Consiglio dei ministri si è riunito martedì 19 dicembre 2023, alle ore 11.38, a Palazzo Chigi, sotto la presidenza del Vicepresidente Antonio Tajani. Segretario, il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano.

omissis

Il Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per gli affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli, ha esaminato trentasei leggi delle regioni e delle province autonome e ha quindi deliberato di impugnare:

  1. la legge della Regione Sardegna n. 9 del 23/10/2023, recante “Disposizioni di carattere istituzionale, ordinamentale e finanziario su varie materie” in quanto talune disposizioni, eccedendo dalle competenze statutarie e ponendosi in contrasto con la normativa statale in materia di ambiente e paesaggio, di ordinamento civile, di ordine pubblico e sicurezza, di produzione, trasporto e distribuzione dell’energia, di tutela della salute, di coordinamento della finanza pubblica, di governo del territorio ed assetto territoriale, violano gli articoli 9 e 117, primo e secondo comma, lett. h), l) ed s), 117, terzo comma e 133, secondo comma, della Costituzione”.
  2. L’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG) aveva chiesto con motivate istanze (20 e 25 ottobre, 18 dicembre 2023) al Governo Meloni di impugnarla davanti alla Corte costituzionale (art. 127 Cost.) per lesione delle competenze statali in materia di salvaguardia dell’ambiente (artt. 9 e 117, comma 2°, lettera s, Cost.) ed esprime soddisfazione per la decisione presa.

Contiene, infatti, alcune norme decisamente sciagurate – oltre che illegittime – per la corretta gestione del territorio isolano.

piano paesaggistico regionale – P.P.R., area Piscinas – Scivu

In sintesi, sono stati segnalati:

* l’art. 13, che prevede la possibilità di fatto di un esproprio gratuito delle terre a uso civico in favore dei progetti di impianti produttivi di energia da fonti rinnovabili.   

I terreni a uso civico (legge n. 1766/1927 e s.m.i., legge n. 168/2017, regio decreto n. 332/1928 e s.m.i.,  legge regionale Sardegna n. 12/1994 e s.m.i.), raccolti nei demani civici di ben il 92% dei Comuni sardi, sono di proprietà collettiva dei residenti, ma con questa norma potrebbero essere consegnati – previa delibera a maggioranza qualificata dei rispettivi Consigli comunali o per silenzio assenso – alla speculazione energetica.    In realtà, per legge, i diritti di uso civico sono inalienabili, indivisibili, inusucapibili e imprescrittibili, mentre i demani civici sono tutelati con il vincolo paesaggistico;

* l’art. 78, che prevede il taglio di circa 1.600 ettari dal parco naturale regionale di Gutturu Mannu per la gioia dei cacciatori locali sulla base di una deliberazione del Comune di Pula del giugno 2020 adottata su richiesta di una petizione del mondo venatorio locale.

Una vera e propria follìa, comunque approvata in assenza di quel necessario coinvolgimento degli Enti locali (tutti quelli costituenti il parco, non il solo Comune di Pula), punto cardine per le aree naturali protette stabilito dalla legge quadro nazionale (art. 22 della legge n. 394/1991 e s.m.i.) e più volte ritenuto imprescindibile dalla giurisprudenza costituzionale;

* l’art. 80, che prevede l’apertura della caccia alla Tortora selvatica (Streptopelia turtur) al 1 settembre, in contrasto con l’art. 18 della legge n. 157/1992 e s.m.i., che individua l’ambito della relativa stagione venatoria dalla terza domenica di settembre al 31 dicembre. Già la sentenza Corte cost. n. 536/2002 aveva dichiarato illegittima analoga disposizione, in quanto l’indicazione delle specie cacciabili, i periodi di caccia previsti dalla legge-quadro nazionale fan parte di quel nucleo minimo uniforme di tutela faunistica a cui Regioni e Province autonome non possono derogare;

* gli artt. 130 e 132, che prevedono la possibilità di ricostruzione dei ruderi anche nelle fasce costiere di massima tutela dei 300 metri dalla battigia “anche senza il mantenimento di sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente” e la possibilità di inserire negli strumenti urbanistici comunali aumenti volumetrici del 25% delle volumetrie nelle aree costiere per nuovi esercizi ricettivi di elevata categoria (5 stelle e più) e del 15% per ogni esercizio ricettivo esistente, anche nella fascia costiera di massima salvaguardia dei 300 metri dalla battigia marina.       

Aumenti volumetrici e costruzioni in palese eversione delle norme di conservazione costiera, del vigente piano paesaggistico regionale (P.P.R. – 1° stralcio costiero) e di quella necessità di pianificazione congiunta Stato – Regione già oggetto di sistematiche pronunce da parte della Corte costituzionale (vds. Corte cost. n. 24 del 28 gennaio 2022; Corte cost. n. 257 del 23 dicembre 2021; Corte cost. n. 101 del 20 maggio 2021), che hanno censurato pesantemente precedenti analoghi tentativi da parte delle maggioranze politiche mattonare sarde.

Particolare miseria politica emerge dall’approvazione di una norma che consentirebbe anche di depredare le terre collettive in favore della speculazione energetica (fra gli ultimi casi nella Marmilla di Collinas e sul Monte S. Antonio di Macomer e di Borore), proprio mentre i legislatori sardi affermavano di volersi impegnare per una moratoria delle autorizzazioni per nuovi impianti energetici eolici e solari. Annunci about:blank Segnala questo annuncioPrivacy

Il GrIG si è rivolto al Governo Meloni, forte del sostegno popolare dato da quasi 40 mila cittadini che hanno aderito  alla petizione per la salvaguardia delle coste sarde, per il mantenimento dei vincoli di inedificabilità costieri, i vincoli di inedificabilità nella fascia dei 300 metri dalla battigia marina, stabiliti dalle normative vigenti e dalla disciplina del piano paesaggistico regionale (P.P.R.).

Diverse segnalazioni ecologiste sono state prese in considerazione ed emerge un nuovo forte segnale in favore della salvaguardia ambientale e della tutela del territorio da speculazioni che dovrebbero esser definitivamente consegnate al passato.   

Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

dalla banca dati del Dipartimento per gli Affari Regionali e le Autonomie, 20 dicembre 2023

Disposizioni di carattere istituzionale, ordinamentale e finanziario su varie materie. (23-10-2023)

Regione: Sardegna

Estremi: Legge n.9 del 23-10-2023

Bur: n.54 del 24-10-2023

Settore: Politiche economiche e finanziarie

Delibera C.d.M. del: 19-12-2023 / Impugnata

La legge della regione Sardegna n. 9 del 23/10/2023 recante “Disposizioni di carattere istituzionale, ordinamentale e finanziario su varie materie”, presenta i seguenti profili di illegittimità costituzionale.

L’articolo 13, della legge regionale in oggetto (rubricato “Modifiche alla legge regionale n. 12 del 1994, in materia di usi civici, impianti di energie rinnovabili e istituzione di un tavolo tecnico. “), prevede testualmente:
“1. Alla legge regionale 14 marzo 1994, n. 12 (Norme in materia di usi civici. Modifica della legge regionale 7 gennaio 1977, n. 1 concernente l’organizzazione amministrativa della Regione sarda), sono apportate le seguenti modifiche ed integrazioni:
a) dopo il comma 5-bis dell’articolo 5 è aggiunto il seguente:
” 5-bis 1. Non sono passibili di provvedimento definitivo di accertamento i terreni che siano stati utilizzati per la realizzazione di Piani di riordino fondiario di cui al regio decreto 13 febbraio 1933,
n. 215 (Nuove norme per la bonifica integrale), muniti dell’autorizzazione di cui all’articolo 22, anche se non ancora approvati ai sensi dell’articolo 28, ma le cui opere di infrastrutturazione siano state realizzate antecedentemente al 5 luglio 2006. “;
b) dopo l’articolo 17 è aggiunto il seguente:
“Art. 17-bis (Mutamento di destinazione in caso di installazione di impianti di energie rinnovabili)
1. Per l’installazione di impianti di produzione di energie rinnovabili è obbligatorio richiedere il parere del comune in cui insistono le aree individuate, il quale si esprime, con delibera del Consiglio comunale a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti, entro venti giorni, decorsi i quali se ne prescinde.
2. Con deliberazione della Giunta regionale, adottata entro novanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge su proposta dell’Assessore regionale competente per materia, è istituito, senza nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio regionale, un tavolo tecnico interassessoriale, a supporto degli Uffici regionali, per la riforma organica dell’intera materia degli usi civici in Sardegna con particolare riguardo alla legge regionale n. 12 del 1994.
3) Il tavolo tecnico interassessoriale di cui al comma 2 è presieduto dall’Assessore regionale dell’agricoltura e riforma agro-pastorale ed è composto da:
a) un dirigente per ciascuno degli Assessorati regionali competenti in materia di agricoltura, ambiente, beni culturali, enti locali;
b) un docente universitario competente nelle materie oggetto di discussione, nominato dai vertici dell’Ateneo per ciascuna delle Università di Cagliari e di Sassari;
c) almeno un rappresentante per ciascun ordine professionale coinvolto in materia di usi civici;
d) due componenti del Consiglio delle autonomie locali, eletti dal Consiglio medesimo in modo tale da garantire la parità di genere;
e) i presidenti regionali dell’ANCI, dell’UPS, dell’UNCEM, dell’AICCRE, della Lega delle autonomie e dell’ASEL, costituenti il coordinamento delle associazioni degli enti locali della Sardegna.”

Nello specifico, le disposizioni di cui all’articolo 1, lett. b), del suddetto articolo 13, in materia di usi civici, che introducono l’articolo l7-bis, commi 1, 2 e 3, nel corpo della legge regionale 14 marzo 1994, n. 12 (rubricata “Mutamento di destinazione in caso di installazione di impianti di energie rinnovabili”), sono illegittime in quanto violano, rispettivamente:
– la competenza statale esclusiva in materia di ” tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” di cui agli articoli 9 e 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, le cui norme statali interposte sono recate dal decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (recante “Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137”) e, in particolare, dall’articolo 142, comma 1, lett. h);
– le competenze statali di legislazione concorrente in materia di “produzione, trasporto e distribuzione dell’energia” di cui all’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, le cui norme statali interposte sono recate dall’articolo 20, comma 8, del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199 (recante “Attuazione della direttiva (UE) 2018/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2018, sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili”);
– le competenze statali esclusive in materia di “ordinamento civile” di cui all’articolo 117, secondo comma, lett. l), della Costituzione, le cui norme interposte sono recate dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766 (di riordinamento degli usi civici) e dal relativo regolamento di attuazione, Regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332, nonché, da ultimo, dalla legge 20 novembre 2017, n. 168.
Quanto sopra tenuto, altresì, conto delle previsioni statutarie regionali:
– dall’articolo 3, dello Statuto speciale della Regione Sardegna, che prevede che l’ente territoriale ha potestà legislativa esclusiva, tra l’altro, in materia di “edilizia ed urbanistica” (lett. f) nonché in materia di “usi civici” (lett. n), che, tuttavia, deve essere esercitata ” (…) in armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e col rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica (…) “;
– dall’articolo 4, Statuto speciale della Regione Sardegna, che prevede che l’ente territoriale ha potestà legislativa concorrente, tra l’altro, in materia di “produzione e distribuzione dell’energia elettrica” (lett. e) che, tuttavia, deve essere esercitata, tra l’altro, “nei limiti del precedente articolo 3 e dei principi stabiliti dalle leggi dello Stato”.

Ciò posto, occorre segnalare, in via preliminare, che la legge regionale n. 12 del 1994, all’articolo 17 (rubricato ” Mutamento di destinazione”) ebbe a disciplinare le condizioni e le modalità procedurali richieste ai fini del mutamento di destinazione dei terreni soggetti ad uso civico.
Attraverso poi l’introduzione dell’articolo 17 -bis, comma 1, in esame, il legislatore regionale ha inteso inserire una disposizione di carattere speciale (peraltro molto semplificata rispetto alla disciplina di carattere generale illustrata nel precedente articolo 17), specificativa della particolare casistica di mutamento di destinazione dei terreni gravati da uso civico nel caso di installazione di impianti di energie rinnovabili, appunto prevedendo che “Per l’installazione di impianti di produzione di energie rinnovabili è obbligatorio richiedere il parere del comune in cui insistono le aree individuate, il quale si esprime, con delibera del Consiglio comunale a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti, entro venti giorni, decorsi i quali se ne prescinde. “.

Prima di passare in rassegna le singole censure in merito alle disposizioni introdotte, risulta necessario inquadrare l’ambito in cui si innesta la materia degli “usi civici” contenuta nell’articolo 3, comma 1, lett. n), dello Statuto sardo, risultante intimamente riconnesso alle previsioni del previgente articolo 117 della Costituzione, che attribuiva alle Regioni la competenza legislativa in materia di agricoltura e foreste. Secondo l’insegnamento della Corte costituzionale (Cfr. sentenza n. 178 del 2018) “(…) la materia “agricoltura e foreste” di cui al previgente art. 117 Cost., che giustificava il trasferimento delle funzioni alle Regioni e l’inserimento degli usi civici nei relativi statuti, mai avrebbe potuto comprendere la disciplina della titolarità e dell’esercizio di diritti dominicali sulle terre civiche” (sentenza n. 113 del 2018). La competenza regionale nella materia degli usi civici deve essere intesa come legittimazione a promuovere, ove ne ricorrano i presupposti, i procedimenti amministrativi finalizzati alle ipotesi tipiche di sclassiflcazione previste dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766 (…) e dal relativo regolamento di attuazione (Regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332 recante “Approvazione del regolamento per la esecuzione della legge 16 giugno 1927, n. 1766, sul riordinamento degli usi civici del Regno”), nonché quelli inerenti al mutamento di destinazione. Al contrario, “un bene gravato da uso civico non può essere (…) oggetto di alienazione al di fuori delle ipotesi tassative previste dalla legge n. 1766 del 1927 e dal r.d. n. 332 del 1928 per il particolare regime della sua titolarità e della sua circolazione, “che lo assimila ad un bene appartenente al demanio, nemmeno potendo per esso configurarsi una cosiddetta sdemanializzazione di fatto. L’incommerciabilità derivante da tale regime comporta che (…) la preminenza di quel pubblico interesse, che ha impresso al bene immobile il vincolo dell’uso civico stesso, ne vieti qualunque circolazione” (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 28 settembre 2011, n. 19792)” (sentenza n. 113 del 2018). (…)”.
Avuto ancora riguardo alla materia “usi civici”, si osserva che, nell’anno 2022, risulta essere stato sottoposto all’esame della competente Commissione paritetica di cui all’articolo 56, dello Statuto di autonomia, lo schema di decreto legislativo recante “Norme di attuazione dello statuto speciale per la Sardegna in materia di usi civici”, relative all’accertamento dei beni del demanio civico, nonché alla permuta ed al trasferimento dei correlati diritti, nei termini di cui alla legge n. 168 del 2017; l’iter per l’adozione del decreto in parola non risulta ancora concluso (cfr. Commissione parlamentare per le questioni regionali – audizione del 16 marzo 2022, pubblicata sul sito internet della Camera dei deputati). Risulta pacifico, quindi, che non sia mai passato nella sfera di competenza delle Regioni, neppure a statuto speciale, il regime civilistico dei beni civici e, quindi, siano di competenza esclusiva statale i profili dominicali dei beni rientrante nella materia dell’ordinamento civile di cui all’articolo 117, comma 2, lettera l), della Costituzione.

Specifici limiti alla competenza legislativa della Regione Sardegna risultano derivare, inoltre, dalle seguenti ulteriori disposizioni:
– articoli 2, 9, 42, secondo comma, e 43 della Costituzione;
– articolo 117, comma 2, lettera s), tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali;
– legge 20 novembre 2017, n. 168, recante “Norme in materia di domini collettivi”;
– regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332;
– d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, recante ” Attuazione della delega di cui all’art. 1 della L. 22 luglio 1975, n. 382. “, art. 66 (Agricoltura e foreste);
– legge 8 agosto 1985, n. 431, recante “Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 27 giugno 1985, n. 312, recante disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale. Integrazioni dell’art. 82 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977 n. 616 “;
– decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante ” Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137″;
– legge 20 novembre 2017, n. 168, recante “Norme in materia di domini collettivi.”.

Proprio con riferimento all’ultimo provvedimento normativo citato e in merito alla ricognizione dei caratteri del diritto di uso civico e di dominio collettivo, la Corte costituzionale nella recente sentenza n. 228 del 2021 ha precisato che “Attualmente la materia degli assetti fondiari collettivi trova la sua regolamentazione nella legge n. 168 del 2017, la quale ha introdotto nell’ordinamento la nuova figura dei «domini collettivi», senza eliminare la tradizionale categoria degli «usi civici», né abrogarne la fonte normativa (la legge 16 giugno 1927, n. 1766, recante «Conversione in legge del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l’art. 26 del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del R. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall’art. 2 del R. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751» di conversione del regio decreto n. 751 del 1924). (…). Innanzitutto deve considerarsi che dalla nuova legge – e già per effetto della nuova terminologia nella denominazione dell’istituto – emerge con evidenza il netto cambiamento di prospettiva con cui l’ordinamento statale ha provveduto alla regolamentazione della materia. Infatti, se la disciplina contenuta nella legge n. 1766 del 1927 era ispirata ad una chiara finalità liquidatoria […] al contrario la disciplina contenuta nella legge n. 168 del 2017, pur senza abrogare la precedente normativa, risulta orientata alla prevalente esigenza di salvaguardare le numerose forme, molteplici e diverse nelle varie aree territoriali, in cui si realizzano modalità di godimento congiunto e riservato di un bene fondiario da parte dei membri di una comunità, sul presupposto che esse sono funzionali non soltanto alla realizzazione di un interesse privato dei partecipanti, ma anche di interessi superindividuali di carattere generale, connessi con la salvaguardia dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio storico e culturale del Paese. Ciò costituisce il punto di arrivo di un’evoluzione progressiva nella normativa e nella giurisprudenza. Il legislatore ha recepito gli orientamenti costantemente espressi da questa Corte, che ha evidenziato la sussistenza di «uno specifico interesse unitario della comunità nazionale alla conservazione degli usi civici» nella misura in cui essa contribuisce alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio (sentenza n. 46 del 1995). Tale interesse è stato sancito, a livello legislativo, soprattutto dall’art. 1 della legge 8 agosto 1985, n. 431, disposizione poi replicata dall’art. 142, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’artico lo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), il quale ha sottoposto a vincolo paesaggistico le «aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici». La sovrapposizione tra tutela dell’ambiente e tutela del paesaggio, introdotta dalla legge n. 431 del 1985, si riflette in uno specifico interesse unitario della comunità nazionale alla conservazione degli usi civici, in quanto essi concorrono a determinare la forma del territorio su cui si esercitano, intesa quale «prodotto di una “integrazione tra uomo e ambiente naturale”» (sentenza n. 46 del 1995; nello stesso senso, sentenze n. 345 del 1997 e n. 133 del 1993). Più recentemente questa Corte ha affermato che «(i)l riconoscimento normativo della valenza ambientale dei beni civici ha determinato, da un lato, l’introduzione di vincoli diversi e più penetranti e, dall’altro, la sopravvivenza del principio tradizionale, secondo cui eventuali mutamenti di destinazione – salvo i casi eccezionali di legittimazione delle occupazioni e di alienazione dei beni silvo-pastorali – devono essere compatibili con l ‘interesse generale della comunità che ne è titolare» (sentenza n. 103 del 2017). Le istanze di conservazione e valorizzazione delle forme di godimento fondiario collettivo, derivanti dalla loro strumentalità alla salvaguardia di valori e interessi costituzionalmente rilevanti, sono state tradotte dalla nuova legge n. 168 del 2017 in enunciati di principio proclamati nell’art. 2, ove si afferma che la Repubblica tutela e valorizza i beni di collettivo godimento, in quanto: elementi fondamentali per la vita e lo sviluppo delle collettività locali; strumenti primari per assicurare la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale nazionale; componenti stabili del sistema ambientale; basi territoriali di istituzioni storiche di salvaguardia del patrimonio culturale e naturale,· strutture eco paesistiche del paesaggio agro-silvo-pastorale nazionale; fonte di risorse rinnovabili da valorizzare e utilizzare a beneficio delle collettività locali degli aventi diritto. La consolidata vocazione ambientalista degli usi civici e dei domini collettivi – che, per altro verso, chiama in causa la competenza esclusiva del legislatore statale in materia di «tutela dell’ambiente» e «dell’ecosistema» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. (sentenza n. 103 del 2017), oltre quella in materia di «ordinamento civile» di cui si dirà oltre (ai punti 5 e seguenti) – è ora chiaramente affermata dalla stessa legge n. 168 del 2017, nella parte in cui- nell’enunciare che i domini collettivi sono riconosciuti in attuazione, tra l’altro, dell’art. 9 Cost. (sentenza n. 71 del 2020) – stabilisce che, con l’imposizione del vincolo paesaggistico, l’ordinamento giuridico garantisce l’interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici per contribuire alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio ed aggiunge che «[t]ale vincolo è mantenuto sulle terre anche in caso di liquidazione degli usi civici» (art. 3, comma 6). Inoltre, la dichiarata connotazione dei domini collettivi come «comproprietà inter-generazionale» (art. 1, comma 1, lettera c, della legge n. 168 del 2017) mostra una chiara proiezione diacronica affinché l’ambiente e il paesaggio siano garantiti anche alle future generazioni. [… ]”.
Premesso l’ambito materiale in cui si innesta l’istituto degli usi civici, si rappresenta che la qui scrutinata disposizione regionale viola le competenze costituzionali statali in materia di ambiente e paesaggio di cui agli artt. 9 e 117, comma 2, lettera s), della Costituzione in quanto “le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici” sono tutelate ex lege con il vincolo paesaggistico, ai sensi e per gli effetti della norma interposta recata dall’art. 142, comma 1, lettera h), del decreto legislativo n. 42 del 2004, non essendo consentito unilateralmente alla Regione autonoma Sardegna né ad altra Regione o Provincia autonoma, decurtare tale ambito di tutela delle terre collettive (cfr., sul punto, Corte costituzionale, sentenza n. 178 del 2018, n. 103 del 2017,
n. 210 del 2014, n. 345 del 1997, n. 46 del 1995) né, tantomeno, disporre, di fatto, un esproprio gratuito in favore di soggetti privati esercenti impianti di produzione energetica da fonte rinnovabile, come invece ha previsto di fare il legislatore regionale.

Neanche la specialità dello Statuto regionale sardo sarebbe idonea a giustificare un intervento normativo del suddetto tenore, atteso che la potestà legislativa regionale in materia deve essere esercitata pur sempre in armonia con la Costituzione, con i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica, nel rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica, e quindi necessariamente anche nel rispetto delle previsioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio, dettate dallo Stato nell’esercizio della potestà legislativa esclusiva di cui all’ articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione.

Sul punto, infatti, la Corte costituzionale (sentenza n. 51 del 2006) ha chiarito che le norme fondamentali statali emanate in materia, come il Codice dei beni culturali e del paesaggio, continuano “(…) ad imporsi al necessario rispetto del legislatore della Regione Sardegna che eserciti la propria
competenza statutaria (…)”.
Anche più recentemente la Consulta (Cfr. sentenza n. 178 del 2018) ha rimarcato il ruolo e le attribuzioni del legislatore nazionale con riguardo alle previsioni dello Statuto speciale della Regione Sardegna, affermando che ” (…) Il legislatore statale conserva il potere di vincolare la potestà legislativa primaria dell’autonomia speciale attraverso l’emanazione di leggi qualificabili come «riforme economico-socia li». E ciò anche sulla base – per quanto qui viene in rilievo – del titolo di competenza legislativa nella materia «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., comprensiva tanto della tutela del paesaggio quanto della tutela dei beni ambientali e culturali”.

Con riferimento al suddetto comma 1 del neo-introdotto articolo 17-bis, si segnalano anche ulteriori perplessità di tipo prettamente sistematico. La previsione che il Consiglio comunale si esprima a maggioranza dei due terzi ed entro 20 giorni relativa mente all’istallazione degli impianti alimentati a fonti rinnovabili avrebbe dovuto, al limite, essere coerente con quella di cui al precedente articolo 17, comma 2, della legge regionale n. 12 del 1994, in base al quale “Le domande per ottenere l ‘autorizzazione al mutamento di destinazione di terreni soggetti ad uso civico ed alla correlativa sospensione dell’esercizio dell’uso sono presentate all’Assessore regionale dell’agricoltura e riforma agro – pastorale dal Comune interessato, in base a deliberazione adottata dal consiglio comunale a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti.” .
La norma, per coerenza sistemica, avrebbe potuto chiarire, quindi, che il parere del Comune è solo propedeutico rispetto alle valutazioni dell’Assessore che, nella Regione Sardegna, è il soggetto competente per le autorizzazioni di “mutamento di destinazione di terreni soggetti ad uso civico ed alla correlativa sospensione dell’esercizio dell’uso”.

In buona sostanza, a prescindere dai già acclarati profili di illegittimità costituzionale delle sopracitate disposizioni regionali, non sembra coerente che il Comune (e per esso il Consiglio comunale), attraverso la novella introdotta all’art. 17-bis, comma 1, abbia acquisito la potestà di autorizzare (anche mediante l’istituto del silenzio-assenso) il mutamento di destinazione dei terreni di uso civico oggetto di insediamento di impianti alimentati a fonte rinnovabile, senza passare attraverso l’Assessore regionale dell’ agricoltura e della riforma agro – pastorale, avente la funzione, in Sardegna, di ” commissario per la liquidazione degli usi civici”.

Coerentemente con le disposizioni di legislazione esclusiva già dettate in tema di tutela dell’ambiente e del paesaggio, che, per pacifica giurisprudenza (cfr., ad esempio, Corte costituzionale, sentenza n. 83 del 2016, n. 109 del 2011, n. 341 del 2010), costituiscono materia ” trasversale”, il legislatore statale ha inteso disciplinare le aree soggette ad uso civico anche nell’interesse allo sviluppo delle energie rinnovabili, rientrante nella materia concorrente della ” produzione, trasporto e distribuzione dell’energia ” di cui all’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, le cui norme interposte sono recate dall’ articolo 20, comma 8, del decreto legislativo n. 199 del 2021 recante la disciplina per l’individuazione delle superfici e delle aree idonee per l’installazione di impianti di energie rinnovabili.

Al riguardo va ricordato come il sopracitato articolo 20 del decreto legislativo 8 agosto 2021, n. 199, al comma 1, demandi a successivi decreti interministeriali, previa intesa in Conferenza unificata, la definizione dei principi e criteri omogenei per l’individuazione delle aree idonee per i suddetti fini, mentre, al comma 8, nelle more dell’emanazione di tali provvedimenti, contenga un’elencazione transitoria in cui figurano, tra quelle ritenute idonee, anche “le aree che non sono ricomprese nel perimetro dei beni sottoposti a tutela ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, incluse le zone gravate da usi civici di cui all’articolo 142, comma I, lettera h), del medesimo decreto, né ricadono nella fascia di rispetto dei beni sottoposti a tutela ai sensi della parte seconda oppure dell’articolo 136 del medesimo decreto legislativo. [ .. .]” (v. lett. c-quater), escludendo, così, a monte, in tali zone, alcun tipo di bilanciamento con interessi pubblici concorrenti.

Diversamente opinando, secondo l’impostazione data dal legislatore regionale attraverso il neo introdotto articolo 17-bis, al Comune, inteso come ente gestore dei beni di uso civico, sarebbe attribuito il potere di far prevalere il carattere di ” pubblica utilità, necessità ed urgenza ” delle fonti energetiche rinnovabili sull’inalienabilità, indivisibilità, inusucapibilità e perpetua destinazione agro silvo-pastorale dei terreni assoggettati ad uso civico.

Dunque, l’articolo 17-bis, comma 1, di nuova introduzione, incide sulle aree gravate da usi civici violando la normativa statale, atteso che queste ultime sono considerate ex lege inidonee per l’installazione di impianti a fonti rinnovabili.
La non idoneità di tali aree per l’installazione di impianti a fonti rinnovabili risulta d’altronde confermata dal decreto interministeriale di cui al comma 1, dell’articolo 20, del decreto legislativo 8 agosto 2021, n. 199, recante i principi e criteri omogenei per l’individuazione delle superfici e delle aree idonee e non idonee all’installazione di impianti a fonti rinnovabili, attualmente in fase di approvazione da parte delle competenti amministrazioni.

La violazione delle spettanze statali, inoltre, può apprezzarsi anche alla luce di quanto previsto dallo Statuto speciale della Regione Sardegna in merito alla necessità che la potestà legislativa dell’ente regionale – di natura esclusiva in materia di usi civici e di natura concorrente in materia di produzione e distribuzione dell’energia elettrica – sia esercitata in ogni caso nel rispetto della Costituzione, dei principi dell’ordinamento giuridico e delle norme delle riforme economico-sociali, nonché dei principi stabiliti dalle leggi dello Stato (v., rispettivamente, art. 3, lett. n), e art. 4, lett. e), della L.C. n. 3/1948).
A tal proposito, va evidenziato come recentemente, proprio in sede di scrutinio di talune previsioni dello Statuto sardo, la Corte Costituzionale abbia affermato che “Il legislatore statale conserva il potere di vincolare la potestà legislativa primaria dell’autonomia speciale attraverso l’emanazione di leggi qualificabili come «riforme economico-sociali». E ciò anche sulla base – per quanto qui viene in rilievo – del titolo di competenza legislativa nella materia «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cast., comprensiva tanto della tutela del paesaggio quanto della tutela dei beni ambientali e culturali” (cfr. sentenza n. 178/2018; cfr., altresì, Corte Cost., n. 238 del 2013).

Pertanto, la novella legislativa introdotta dall’articolo 13, della legge regionale Sardegna 13 settembre 2023 n. 9, prevede una disposizione in evidente contrasto con la disciplina di carattere nazionale che, come visto, esclude espressamente le aree soggette ad usi civici tra quelle considerate immediatamente idonee per l’installazione di impianti di produzione di fonti rinnovabili.

Neppure la specialità dello Statuto regionale sardo sarebbe idonea a giustificare un intervento normati vo del suddetto tenore, atteso che la potestà legislativa regionale in materia di “produzione e distribuzione dell’energia elettrica” deve pur sempre essere esercitata, tra l’ altro, ” [. ..] nel limite dei principi stabiliti dalle leggi dello Stato[…]”, dettati , nel caso di specie, dall’ articolo 20 del decreto legislativo n. 199 del 2021.

Sul punto, peraltro, anche la giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr., da ultimo, sentenza n. 69 del 2018) ha precisato che, in materia di potestà legislativa concorrente relativa a ” produzione, tra sporto e distribuzione nazionale dell’energia” , i princìpi fondamentali dettati dalla legislazione statale ” (…) non tollerano eccezioni sull’intero territorio nazionale (…)”.

Destano inoltre perplessità, per due ordini di considerazioni, anche il nuovo comma 2 (e conseguentemente il successivo comma 3) dell’articolo 17-bis , come introdotto dall’ articolo 13 della legge regionale Sardegna n. 9 del 2023, in base al quale: “Con deliberazione della Giunta regionale, adottata entro novanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge su proposta dell’Assessore regionale competente per materia, è istituito, senza nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio regionale, un tavolo tecnico interassessoriale, a supporto degli Uffici regionali, per la riforma organica dell’intera materia degli usi civici in Sardegna con particolare riguardo alla legge regionale n. 12 del 1994. “.
Orbene, la norma, nella sua attuale formulazione, sebbene apparentemente in linea con l’ articolo 3 dello Statuto speciale sardo, sembra assumere la materia degli usi civici ad esclusiva competenza regionale, quando, invece, la disciplina legislativa delle proprietà collettive e degli usi civici rientra pacificamente ( cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 113 del 2018, n. 228 del 2021, n. 236 del 2022) nella materie di legislazione esclusiva statale dell’”ordinamento civile” e della “tutela dell’’ambiente”, di cui, rispettivamente, all’articolo 117, comma 2, lett. 1) e lett. s), della Costituzione.

Spetta, pertanto, allo Stato la competenza esclusiva a disciplinare i casi relativi all’autorizzazione delle alienazioni, dei mutamenti di destinazione, delle legittimazioni, alla liquidazione di usi civici su terre private mediante concessione ai sensi degli articoli 5 e seguenti della legge 16 giugno 1927 n. 1766, alle eventuali sclassificazioni di beni che abbiano perduto irreversibilmente l’originaria destinazione agro-silvo-pastorale nei casi previsti dalla legge, allo scioglimento delle promiscuità, alle autorizzazioni paesaggistiche ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42, e alle altre funzioni previste dalla legge.
L’inciso in base al quale la Regione Sardegna possa procedere ad una ” [… ] riforma organica dell’intera materia degli usi civici […] ” non può essere ritenuto costituzionalmente legittimo, in quanto solo lo Stato può avere competenza a “riformare organicamente” tale materia, fermo restando che, in base allo Statuto speciale, la Regione autonoma Sardegna, avendo potestà legislativa in materia, potrà comunque esercitarla, nel rispetto, tra l’ altro, ” [. ..] delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica”.

D’altro canto, i commi 2 e 3 sopra citati del nuovo articolo, nel prevedere la composizione del tavolo tecnico finalizzato alla riforma organica dell’intera materia degli usi civici, escludono la partecipazione del Ministero della cultura.
Richiamando le considerazioni svolte con riferimento alla potestà legislativa dell’ente regionale in materia di usi civici, anche i citati commi 2 e 3 risultano pertanto lesivi delle prerogative statali nella misura in cui non prevedono alcun coinvolgimento del Ministero della Cultura all’interno della composizione del previsto tavolo tecnico, i cui lavori incideranno direttamente su aspetti connessi all’articolo 117, secondo comma, lettera s), Cost. e alla tutela paesaggistica cui sono soggetti gli usi civici ex lege, ai sensi dell’art. 142, co. 1, lett. h) del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Alla luce di tutto quanto sopra indicato e per i motivi ivi indicati, va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 13, comma 1, lett. b) e comma 2 e comma 3 della legge regionale in oggetto.


L’articolo 34, comma 1, lett. a) punto 2) recante “Modifiche alla legge regionale n. 24 del 2020 in materia di procedure di selezione, funzioni dell’ARES, liquidazione dell’ATS e disposizioni varie, sostituendo il comma 6, dell’articolo 3 della L.R. n. 24/2020, dispone, tra le altre cose, che «il Commissario liquidatore di ATS è nominato dalla Giunta regionale».
A tal riguardo, risulta necessario sottolineare che nel recente passato la Corte costituzionale ha già avuto modo di pronunciarsi sulla L.R. n. 24/2020, asserendo che le disposizioni in essa contenute intervengono sull’assetto degli enti del Servizio sanitario nazionale, la cui disciplina è già stata ricondotta dalla Corte Costituzionale alla competenza concorrente sulla «tutela della salute» (in tal senso di vedano le sentenze n. 192 del 2017, n. 54 del 2015, n. 207 del 2010, n. 181 del 2006 e n. 270 del 2005).
Posta tale premessa e tornando alla disposizione sopra richiamata, ne consegue che rispetto alla materia del conferimento degli incarichi di direttore generale degli Ente del Servizio sanitario nazionale è lo Stato a dovere determinare i principi fondamentali della materia in esame, al fine di meglio qualificare il profilo di tali dirigenti e di ridurre l’ambito di discrezionalità politica nella scelta degli stessi, a tutela dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione data l’incidenza che la disciplina di tali incarichi ha sulle prestazioni sanitarie rese agli utenti (in tal senso si vedano anche le sentenze n. 87 del 2019, n. 159 del 2018, n. 190 del 2017, n. 124 del 2015, n. 295 del 2009, n. 449 del 2006 e n. 422 del 2005).
Sotto questo profilo, il D.lgs. n. 171/2016, come modificato dal D.lgs. n. 126/2017, ha riscritto le modalità di individuazione e di nomina dei direttori generali delle aziende sanitarie, figure dirigenziali apicali sui generis che rappresentano una sorta di dirigenza speciale e specializzata, che non trova eguali nel panorama regolativo del pubblico impiego. Il decreto citato, in ossequio al principio della legge delega c.d. riforma Madia, non si limita, tuttavia, a introdurre limitati aggiustamenti alla pregressa procedura di nomina già prevista nel D.lgs. n. 502/1992 (come negli anni modificato), bensì individua un diverso assetto di fonti regolative della nomina dei manager della sanità che modifica radicalmente la natura giuridica dell’atto di nomina, come ricostruito dalla pregressa giurisprudenza di legittimità e amministrativa, valorizzando i profili contrattuali e riconducendo – in maniera ancora più chiara di quanto avessero fatto i precedenti legislatori – la nomina dei direttori generali alla materia del conferimento degli incarichi dirigenziali. In altri termini, il D.lgs. n. 171/2016 ha segnato un vero e proprio recupero di spazio della disciplina statale dell’organizzazione dei sistemi sanitari, marginalizzando il ruolo regolativo delle Regioni.
Più nello specifico, la nuova disciplina si struttura tramite una procedura bifasica, in cui si delinea una prima fase pubblicistica e una seconda fase contrattuale, quella relativa al conferimento dell’incarico, in cui la Regione – seppure nell’ambito di una ulteriore proceduralizzazione della fase di scelta del soggetto cui conferire l’incarico – agisce con i poteri del privato datore di lavoro. L’art. 1 del D.lgs. n. 171/2016 prevede, innanzitutto, una fase pubblicistica, finalizzata all’individuazione dei soggetti in possesso dei requisiti tecnico– professionali per l’inserimento nell’elenco nazionale dei soggetti idonei alla nomina di direttore generale.
Sulla scorta di tale fase pubblicistica presupposta (la creazione dell’albo nazionale), il legislatore ha ritenuto di individuare nell’art. 2 del decreto, una seconda fase privatistica finalizzata al «conferimento dell’incarico di direttore generale», che proceduralizza il potere della Regione di scegliere il soggetto cui attribuire l’incarico. Detta seconda fase prevede una procedura regionale di invito alla presentazione delle candidature da parte di soggetti già inseriti nell’albo nazionale, una valutazione da parte di una commissione di esperti e la costituzione di “rose” da cui la Regione potrà attingere ai fini dell’individuazione dei soggetti cui conferire l’incarico. Tale fase è suddivisa in due step procedurali espressione di un’attività in entrambe i casi discrezionale, in cui si valuta l’adeguatezza delle competenze professionali del candidato alla specificità delle aziende sanitarie presenti nel territorio regionale; un’attività discrezionale che si concretizza appunto nella creazione di “rose” di candidati adatti ai singoli contesti aziendali e che culmina con la scelta fiduciaria del soggetto cui conferire l’incarico. La procedura si chiude con il «provvedimento di nomina», che deve essere motivato e pubblicato sul sito internet della Regione, cui afferisce il contratto d’incarico in cui sono inseriti gli obiettivi, il cui raggiungimento deve essere valutato tenuto conto dei criteri di cui al comma 3, art. 2, D.lgs. n. 171/2016.
Alla luce di tutto quanto sopra e per i motivi ivi indicati, l’articolo 34, comma 1, lett. a) punto 2) va impugnato per contrasto con l’articolo 117, comma 3 Cost, in relazione alla disciplina dettata dal D.lgs. 171/2016.


L’art. 34, comma 1 lett. b) prevede che, nelle more dell’aggiornamento degli elenchi regionali degli idonei, l’incarico di direttore sanitario e direttore amministrativo sia affidato con nomina diretta senza alcuna procedura selettiva.
La predetta disciplina regionale non è in linea con la normativa statale in materia e, segnatamente, con l’art. 3 del D.lgs. n. 171 del 2016 a norma del quale il direttore generale nomina il direttore amministrativo, il direttore sanitario e, ove previsto dalle leggi regionali, il direttore dei servizi socio sanitari, attingendo obbligatoriamente agli elenchi regionali di idonei, anche di altre regioni, appositamente costituiti, previo avviso pubblico e selezione per titoli e colloquio, effettuati da una commissione nominata dalla regione.
Inoltre, il successivo art. 5 del medesimo decreto legislativo n. 171 del 2016 dispone che, fino alla costituzione del predetto elenco nazionale e degli elenchi regionali, si applicano, per il conferimento degli incarichi di direttore generale, di direttore amministrativo, di direttore sanitario e, ove previsto dalle leggi regionali, di direttore dei servizi socio-sanitari, delle aziende sanitarie locali e delle aziende ospedaliere e degli altri enti del servizio sanitario nazionale, e per la valutazione degli stessi, le procedure vigenti alla data di entrata in vigore del suddetto decreto. Nel caso in cui non sia stato costituito l’elenco regionale, per il conferimento degli incarichi di direttore amministrativo, di direttore sanitario e, ove previsto dalle leggi regionali, di direttore dei servizi socio-sanitari, le regioni attingono agli altri elenchi regionali già costituiti.
Le citate disposizioni statali che pongono principi specifici in materia di nomina dei direttori sanitari e amministrativi imponendo la necessità di esperire apposite selezioni tra gli aspiranti attraverso la formazione di elenchi, secondo il consolidato orientamento della Corte Costituzionale, si pongono come principi fondamentali da ricondursi alla materia «tutela della salute» (ex multiis sent. n. 139 del 2022, n. 129 del 2012, n. 233 e n. 181 del 2006), rilevando “la stretta inerenza che tutte le norme de quibus presentano con l’organizzazione del servizio sanitario regionale e, in definitiva, con le condizioni per la fruizione delle prestazioni rese all’utenza, essendo queste ultime condizionate, sotto molteplici aspetti, dalla capacità, dalla professionalità e dall’impegno di tutti i sanitari addetti ai servizi, e segnatamente di coloro che rivestono una posizione apicale (sentenza n. 371 del 2008).”
Alla luce di tutto quanto sopra indicato e per i motivi ivi indicati, va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 34, comma 1, lett. b) della legge regionale in oggetto per contrasto con l’articolo 32 Cost. e art. 117 Cost. in relazione all’articolo 3 ed all’articolo 5 del D.lgs. 171/2016.


L’art. 35 comma 1 prevede che “al fine di sopperire alla carenza di personale medico e infermieristico e di limitare il ricorso alle esternalizzazioni:
a) per le prestazioni aggiuntive di cui all’articolo 115, comma 2, del contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) dell’area della sanità, relativo al triennio 2016- 2018, dei dirigenti medici, sanitari, veterinari e delle professioni sanitarie dipendenti del Servizio sanitario nazionale, la tariffa oraria fissata dall’articolo 24, comma 6, del medesimo CCNL può essere aumentata fino a 100 euro lordi omnicomprensivi, al netto degli oneri riflessi a carico dell’Amministrazione. Restano ferme le disposizioni vigenti in materia di prestazioni aggiuntive, con particolare riferimento ai volumi di prestazioni erogabili, nonché all’orario massimo di lavoro e ai prescritti riposi;
b) per le prestazioni aggiuntive di cui all’articolo 6, comma 1, lettera d), del CCNL 2016-2018 del personale del comparto sanità dipendente del Servizio sanitario nazionale la tariffa oraria può essere aumentata a 60 euro lordi omnicomprensivi, al netto degli oneri riflessi a carico dell’Amministrazione. Restano ferme le disposizioni vigenti in materia di prestazioni aggiuntive, con particolare riferimento ai volumi di prestazioni erogabili, nonché all’orario massimo di lavoro e ai prescritti riposi”.
In merito, si fa presente che l’art. 11, comma 1, del decreto-legge 30 marzo 2023, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 maggio 2023, n. 56, ha previsto che “Per l’anno 2023 le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, per affrontare la carenza di personale medico e infermieristico presso i servizi di emergenza-urgenza ospedalieri del Servizio sanitario nazionale e al fine di ridurre l’utilizzo delle esternalizzazioni, possono ricorrere, per il personale medico, alle prestazioni aggiuntive di cui all’articolo 115, comma 2, del contratto collettivo nazionale di lavoro dell’Area sanità del 19 dicembre 2019, per le quali la tariffa oraria fissata dall’articolo 24, comma 6, del medesimo contratto collettivo nazionale di lavoro, in deroga alla contrattazione, può essere aumentata fino a 100 euro lordi omnicomprensivi, al netto degli oneri riflessi a carico dell’amministrazione, nonché per il personale infermieristico, alle prestazioni aggiuntive di cui all’articolo 7, comma 1, lettera d), del contratto collettivo nazionale di lavoro – triennio 2019-2021 relativo al personale del comparto sanità, per le quali la tariffa oraria può essere aumentata fino a 50 euro lordi omnicomprensivi, al netto degli oneri riflessi a carico dell’amministrazione, nel limite degli importi di cui alla tabella 8 allegata al presente decreto, pari a complessivi 50 milioni di euro per il personale medico e a complessivi 20 milioni di euro per il personale infermieristico per l’anno 2023. Restano ferme le disposizioni vigenti in materia di prestazioni aggiuntive, con particolare riferimento ai volumi di prestazioni erogabili nonché all’orario massimo di lavoro e ai prescritti riposi”.
Tanto premesso, le disposizioni regionali citate non sono in linea con la normativa statale vigente che prevede specifici limiti temporali e di ambito applicativo, nonché limiti massimi di tariffa delle prestazioni aggiuntive previste per il personale del comparto diversi da quelli indicati nella norma regionale di cui trattasi e, pertanto, violano il principio costituzionale di cui all’art. 117, secondo comma, lett. l), laddove si individua la competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile.


L’art. 35, comma 2, prevede l’utilizzo delle risorse ordinariamente destinate al reclutamento di personale, in caso di mancata attuazione del piano triennale dei fabbisogni, per incrementare il trattamento accessorio del personale stesso, anche oltre il limite previsto dall’articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75.
Sul punto, si segnala che il citato art. 23, comma 2 – oggetto di deroga da parte della disposizione de qua – anche allo scopo di assicurare l’invarianza della spesa, dispone che, a decorrere dal 1° gennaio 2017, l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, non può superare il corrispondente importo determinato per l’anno 2016. La norma statale, evidentemente volta al contenimento degli oneri, si pone, secondo il consolidato orientamento della Corte Costituzionale, come limite generale e si configura come principio fondamentale nella materia del coordinamento della finanza pubblica non derogabile dal legislatore regionale poiché incide su un rilevante aggregato di spesa quale quello costituito dalle due componenti della retribuzione dei pubblici dipendenti (Corte Cost. sent. nn 212/2021 e 20/2021).
Il legislatore regionale ancora, peraltro, la vigenza della disciplina derogatoria così posta al perdurare “dello stato emergenziale che si considera concluso con la saturazione dei piani triennali di fabbisogno di personale”.
Al riguardo, non può prescindersi dal richiamare la normativa statale dettata dall’art. 6 del d.lgs. n. 165 del 2001 in ordine al piano triennale dei fabbisogni da cui emerge che il predetto piano è finalizzato ad individuare le risorse finanziarie destinate all’attuazione del piano stesso, nei limiti delle risorse quantificate sulla base della spesa per il personale in servizio e di quelle connesse alle facoltà assunzionali previste a legislazione vigente.
Ne consegue che le previsioni del piano di che trattasi non involgono il trattamento accessorio del personale per il quale resta fermo il limite posto dal sopra richiamato art. 23, comma 2, del decreto legislativo n. 75 del 2017.
La norma regionale segnalata, pertanto, derogando alla citata normativa statale è illegittima per contrasto con i principi di cui agli artt. 117 e 81 Cost., in relazione all’articolo 23, comma 2, del d.lgs. 75/2017 in materia di coordinamento della finanza pubblica e ordinamento civile.


L’articolo 56 stabilisce disposizioni in materia di tetti di spesa per prestazioni sanitarie erogate da privati accreditati.
In particolare, tale articolo introduce una deroga ai limiti imposti dalle disposizioni di legge nazionali che prevedono la riduzione dell’acquisto di volumi di prestazioni sanitarie da privati accreditati per l’assistenza specialistica ambulatoriale e per l’assistenza ospedaliera.
A tal proposito, si segnala che l’art.15 comma14 D.L. 95/2012 ha individuato, in un’ottica di spending review, precisi obiettivi di spesa per la finanza pubblica per tutte le regioni e province autonome.
Tale articolo 15, non prevede deroghe per le regioni a statuto speciale eventualmente compensate da misure alternative su altre aree di spesa sanitaria.
A ciò si deve aggiungere che il D.L. 95/2012 introduce disposizioni che attengono ad una revisione della spesa pubblica alle quali, per gli ambiti inerenti la sanità, è corrisposto un coerente adeguamento dei livelli del fabbisogno sanitario nazionale standard. Il mancato rispetto di quanto previsto nel citato D.L., comporterebbe quindi rischi per la sostenibilità della spesa del servizio sanitario regionale.
Alla luce di quanto indicato, va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art.56 per la violazione del principio di coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art.117 Cost. in relazione all’art.15 comma 14 D.L. 95/2012.


L’articolo 75 (rubricato “Modifiche alla legge regionale n. 9 del 2006 in materia di bonifiche ambientali di competenza degli enti locali”), prevede testualmente quanto segue:
“1. Il comma 6 dell’articolo 59 della legge regionale 12 giugno 2006, n. 9 (Conferimento di funzioni e compiti agli enti locali), e successive modifiche ed integrazioni, è sostituito dal seguente:
“6. Sono attribuiti ai comuni le funzioni e i compiti amministrativi in materia di bonifiche ambientali indicati negli articoli 242 e 249 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), e successive modifiche ed integrazioni, per i siti ricadenti interamente nel territorio di competenza, e alle province e città metropolitane le medesime funzioni e compiti amministrativi per i siti ricadenti tra più comuni della stessa provincia o città metropolitana, ovvero:
a) la convocazione della conferenza di servizi, l’approvazione del piano della caratterizzazione e l ‘autorizzazione all’esecuzione dello stesso, di cui all’articolo 242, commi 3 e 13, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale);
b) la convocazione della conferenza di servizi e l ‘approvazione del documento di analisi di rischio, di cui all’articolo 242, comma 4, del decreto legislativo n. 152 del 2006;
c) l ‘approvazione del piano di monitoraggio, di cui all’articolo 242, comma 6, del decreto legislativo n. 152 del 2006;
d) la convocazione della conferenza di servizi, l’approvazione del progetto operativo degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza e delle eventuali ulteriori misure di riparazione e di ripristino ambientale e l’autorizzazione all’esecuzione dello stesso, di cui all’articolo 242, commi 7 e 13, del decreto legislativo n. 152 del 2006;
e) l’approvazione del progetto di bonifica di aree contaminate di ridotte dimensioni, di cui all’articolo 249 e all’allegato 4 del decreto legislativo n. 152 del 2006. La garanzia finanziaria, di cui all’articolo 242, comma 7, del decreto legislativo n. 152 del 2006 è prestata in favore del comune, della provincia o della città metropolitana titolare del procedimento per la corretta esecuzione ed il completamento degli interventi autorizzati. Il comune, la provincia o la città metropolitana provvedono anche alla verifica e all’accettazione della garanzia finanziaria. Sono conferiti, inoltre, alle province e città metropolitane le funzioni e i compiti amministrativi attribuiti alla Regione dall’articolo 250 del decreto legislativo n. 152 del 2006. “.
La novella, così come introdotta, risulta costituzionalmente illegittima in quanto viola le competenze statali esclusive nella materia “trasversale” della “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” di cui all’articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, le cui norme interposte, nel caso di specie, sono recate dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, Parte IV, Titolo V ( c.d. Codice dell’ambiente) e dal recente decreto-legge 10 agosto 2023, n. 104, convertito dalla legge 9 ottobre 2023 n. 136, (recante “Disposizioni urgenti a tutela degli utenti, in materia di attività economiche e finanziarie e investimenti strategici”), in particolare all’articolo 22 (rubricato “Conferimento di funzioni in materia di bonifiche e di rifiuti”).
Tale ultima norma ha conferito una serie di funzioni finalizzate, comunque, a consentire un’attività di verifica e controllo delle funzioni delegate, nonché misure organizzative per consentire agli enti locali l’effettivo esercizio delle funzioni, prevedendo che:
“1. Le Regioni possono conferire, con legge, le funzioni amministrative di cui agli articoli 194, comma 6, lettera a), 208, 242 e 242-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, agli enti locali di cui all’articolo I 14 della Costituzione, tenendo conto in particolare del principio di adeguatezza. La medesima legge disciplina i poteri di indirizzo, coordinamento e controllo sulle funzioni da parte della Regione, il supporto tecnico-amministrativo agli enti cui sono trasferite le funzioni e l’esercizio dei poteri sostitutivi da parte della Regione in caso di verificata inerzia nell’esercizio delle medesime. Sono fatte salve le disposizioni regionali, vigenti alla data di entrata in vigore della presente disposizione, che hanno trasferito le funzioni amministrative predette. “
Le modifiche introdotte dall’articolo 75 della legge regionale di cui trattasi prevedono una delega per le funzioni in materia di bonifiche ambientali, non solo per quelle di cui all’articolo 242 del decreto legislativo n. 152 del 2006, ma anche per quelle di cui agli articoli 249 (rubricato “Aree contaminate di ridotte dimensioni”) e 250 (rubricato “Bonifica da parte dell’Amministrazione”), queste ultime non espressamente contemplate all’articolo 22 del citato decreto-legge n. 104 del 2023, così introducendo un vulnus rispetto all’allocazione delle competenze stabilito dalla potestà legislativa esclusiva statale.
Le disposizioni regionali introdotte, peraltro, non sembrano trovare adeguata copertura nelle previsioni dello Statuto speciale che prevede una potestà legislativa, tra l’altro, in materia di “piccole bonifiche” (art. 3, comma 1, lett. d) e nelle previsioni di cui all’articolo 6 in base al quale “La Regione esercita le funzioni amministrative nelle materie nelle quali ha potestà legislativa a norma degli articoli 3 e 4, salvo quelle attribuite agli enti locali dalle leggi della Repubblica. Essa esercita altresì le funzioni amministrative che le siano delegate dallo Stato. “
Sul tema della legittimità della diversa allocazione, tramite legge regionale, delle funzioni ambientali di cui al decreto legislativo n. 152 del 2006, sono inoltre intervenute, tra l’altro, diverse pronunce della Corte costituzionale.
Con la sentenza n. 160 del 2023, ad esempio, richiamando la competenza dello Stato nell’esercizio della sua potestà legislativa esclusiva ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, il Giudice delle leggi è intervenuto a tracciare il perimetro delle competenze tra lo Stato e le Regioni sul riparto di competenze in materia ambientale e, segnatamente, nel caso di specie, nell’escludere la possibilità, per le Regioni, di attribuire le funzioni in materia di bonifiche di siti inquinati ai Comuni in difformità da quanto previsto dalle correlate disposizioni del Codice dell’ambiente, in considerazione delle ineludibili esigenze di protezione di un bene, quale l’ambiente, unitario e di valore primario e la valutazione di adeguatezza compiuta dal legislatore statale.
Con la precedente sentenza n. 189 del 2021 è stata invece dichiarata l’illegittimità costituzionale di una norma della Regione Lazio nel rilevato contrasto della delega della funzione amministrativa ivi conferita dall’ente regionale ai Comuni con la diversa allocazione di detta funzione, prevista dal Codice dell’ambiente in favore della Regione; in tale occasione, la Corte ha osservato che, con detta disposizione, la Regione Lazio aveva inciso, senza esservi abilitata dalla predetta fonte normativa statale, su una competenza ad essa attribuita dallo Stato nell’ esercizio della sua potestà legislativa esclusiva ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.
In sintesi, come già rimarcato dalla Corte, la potestà legislativa esclusiva statale ex art. 117, secondo comma, lettera s), esprime ineludibili esigenze di protezione di un bene, quale l’ ambiente, “unitario e di valore primario” (cfr. Corte costituzionale, sentenze n. 268 del 2017 e n. 641 del 1987), che sarebbero vanificate ove si attribuisse alla regione “[. ..} la facoltà di rimetterne indiscriminatamente la cura a un ente territoriale di dimensioni minori, in deroga alla valutazione di adeguatezza compiuta dal legislatore statale con l’individuazione del livello regionale”.
Alla luce di tutto quanto sopra indicato e per i motivi ivi indicati, va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 75 della legge regionale in oggetto.


L’art. 80, comma 1 lett. b) della legge regionale in oggetto, che modifica l’art. 49 della L.R. Sardegna n. 23 del 1998 (“Norme per la protezione della fauna selvatica e per l’esercizio della caccia in Sardegna) prevede che la specie tortora selvatica (“Streptopelia turtur’) possa essere cacciata “dal 1 settembre secondo il piano adottato dalla Conferenza Stato Regioni”, diversamente dalla data indicata per la medesima specie dall’art.18, comma 1 lett. a) della legge n. 157 del 1992, c.d. “legge quadro” sulla caccia, ovvero dalla terza domenica di settembre al 31 di dicembre.
In tal modo viene riproposta una questione già affrontata dalla Corte Costituzionale, con sent. n. 18-20 dicembre 2002, n.536, proprio in riferimento all’art. 49 della L.R. Sardegna n. 23 del 1998. Nella citata pronuncia, infatti, la Corte aveva stabilito che l’indicazione delle specie cacciabili e del relativo periodo di caccia (di cui alla legge quadro), servisse a garantire uno standard minimo e uniforme di tutela della fauna su tutto il territorio nazionale, in linea con la competenza esclusiva dello Stato in materia ambientale di cui all’art. 117, co. 2, lett. s) – nel cui ambito può essere ricondotta la tutela della fauna, che il Legislatore regionale non può derogare.
L’attuale formulazione dell’articolo in esame, invece, non definendo il periodo di cacciabilità della tortora selvatica nel perimetro fissato dal citato art. 18 della 1. 157 del 1992 (ne rimanda anzi l’individuazione del termine finale ad una disposizione del piano adottato dalla Conferenza Stato-Regioni), vi interviene in deroga, ponendo così i descritti rilievi di incostituzionalità.
Alla luce di tutto quanto sopra indicato e per i motivi ivi indicati, va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 80, primo comma, lett. b) della legge regionale in oggetto per violazione dell’articolo 117, secondo comma, lett. s) in relazione alla legge n. 157 del 1992.


L’articolo 86, rubricato “Investigazione sulle cause di incendio nei boschi e nelle campagne”, prevede l’istituzione e la formazione specialistica di nuclei, all’interno della struttura del Corpo forestale regionale, che svolgano anche funzioni di investigazione giudiziaria sul fenomeno degli incendi boschivi e nelle campagne, rispetto al quale si pone il problema della compatibilità con il sopra descritto combinato disposto delle norme costituzionali (concernenti il riparto di competenze legislative tra Stato e Regione Sardegna e la devoluzione di funzioni amministrative), in ordine alla possibilità di attribuire con legge regionale funzioni investigative/di polizia giudiziaria.
L’ambito di autonomia legislativa prevista dallo Statuto della Regione Sardegna (articoli 3 e 4) non contempla la possibilità di legiferare in tema di sicurezza pubblica e di ordinamento processuale penale, nel cui novero si inseriscono le funzioni di polizia giudiziaria, la quale, per contro, è attribuita in termini di esclusività, ex art. 117, co. 2 lett. h), allo Stato (in ragione della sua essenzialità, per garantire l’unitarietà all’ordinamento giuridico nazionale). Ne deriva quindi, che solo leggi dello Stato possono attribuire funzioni di polizia giudiziaria agli appartenenti ad enti e istituzioni all’uopo indicate (come in termini esemplificativi e non esaustivi prevede l’articolo 57 del c.p.p.).
Alla luce di tutto quanto sopra indicato e per i motivi ivi indicati, va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 86 della legge regionale in argomento.



L’articolo 87, rubricato “Modifiche alla legge regionale n. 26 del 1985 in materia di compiti del Corpo forestale e di vigilanza ambientale”, prevede che al Corpo forestale di vigilanza ambientale, nell’ambito del territorio regionale, siano attribuite:
a) funzioni di polizia giudiziaria e amministrativa, ai sensi della vigente normativa nazionale, e attività di vigilanza sul rispetto della normativa regionale, nazionale e internazionale, concernente la salvaguardia delle risorse forestali, agroambientali e paesaggistiche e la tutela del patrimonio naturalistico regionale, e sulla sicurezza agroalimentare, al fine di prevenire e reprimere gli illeciti connessi;
b) funzioni e compiti già espletati in campo nazionale dal soppresso Corpo forestale dello Stato.
In relazione al punto sub. a), benché i settori nei quali andrà a svolgersi l’attività di vigilanza da parte del Corpo forestale regionale siano coerenti con quelli attribuiti alla Regione Sardegna ai sensi dell’art. 3 del suo Statuto, rilievi di incostituzionalità sorgono in ordine all’attribuzione delle funzioni di polizia giudiziaria al relativo personale, per i quali valgono le considerazioni svolte a commento dell’art. 86.
In riferimento al punto sub. b), che il legislatore regionale ha inteso porre come norma di chiusura, rispetto alle attribuzioni del Corpo forestale regionale, va eccepito preliminarmente che l’estensione delle funzioni del soppresso Corpo forestale dello Stato al Corpo forestale regionale non può avere una connotazione di esclusività, in quanto le funzioni del Corpo Forestale dello Stato sono state acquisite dall’Arma dei Carabinieri, ai sensi del D.lgs. n. 177 del 2016 (e conseguentemente attribuite ai propri reparti di specialità, presenti nella Regione Sardegna, con il Centro anticrimine natura di Cagliari ed il relativo Nucleo investigativo di polizia ambientale, agroalimentare e forestale, il Nucleo CITES di Cagliari e i distaccamenti di tali strutture presso altri comuni del territorio regionale).
Inoltre, non tutte le funzioni del soppresso Corpo Forestale dello Stato, ancorché esercitate dai Reparti di specialità dell’Arma dei Carabinieri, sono attribuibili tramite legge regionale al Corpo forestale regionale, avuto riguardo ai limiti delle potestà legislativa, previsti dallo Statuto della Regione Sardegna, di cui ai citati articoli 3 e 4 della legge Costituzionale n. 3 del 1948 e dell’art. 117, co. 2 della Costituzione (in riferimento alla competenza legislativa esclusiva dello Stato nelle materie ivi indicate).
In particolare, non può essere compresa tra queste, l’insieme delle funzioni di controllo previste per il disciolto Corpo forestale dello Stato, dalla legge n. 150 del 1992 in tema di contrasto al commercio illegale, nonché controllo del commercio internazionale e della detenzione di esemplari di fauna e di flora minacciati di estinzione, ai sensi della Convenzione di Washington sul Commercio internazionale delle specie di fauna e flora minacciate di estinzione, più comunemente conosciuta come CITES, ora attribuite, ai sensi dell’ art. 7, co. 2 del d.lgs. 177 del 2016 all’ Arma dei Carabinieri.
La tutela dell’ambiente, inteso anche nella conservazione di specie animali e vegetali in pericolo di estinzione, rientra infatti tra le funzioni esclusive dello Stato a mente dell’art. 117, co. 2 lett. s), oltre a non essere coerentemente previsto dallo Statuto della Regione Sardegna, tra le discipline in cui il legislatore regionale può intervenire. Quindi, solo una legge statale può eventualmente disporre sul tema dei controlli CITES, in modifica di altra precedente legge di pari rango (nello specifico caso, la citata legge n. 150 del 1992 che, tra l ‘altro, già coinvolge, nel proprio impianto generale i Corpi Forestali regionali). La medesima legge n. 150 del 1992 si pone, poi, come esecuzione di obblighi assunti a livello internazionale rispetto ai quali, sempre in relazione all’ art. 117, co. 2 lett. a) della Costituzione, lo Stato ha competenza esclusiva. Infine, si evidenzia che l’attribuzione delle funzioni svolte dal disciolto Corpo Forestale dello Stato a quello della Regione Sardegna presuppone il possesso della qualifica di ufficiali/agenti di polizia giudiziaria del relativo personale, che, come argomentato in precedenza, non può essere concessa con legge regionale.
Alla luce di tutto quanto sopra indicato e per i motivi ivi indicati, va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 87 della legge regionale in argomento.


L’articolo 91, commi 1 e 2, della legge regionale in oggetto modifica la precedente legge 31 ottobre 2007, n. 12 in materia di bacini di accumulo di competenza regionale, disponendo la proroga al 30 settembre 2024 della possibilità di sanare le violazioni commesse da parte dei proprietari o dei gestori degli sbarramenti esistenti che, a seguito di controllo da parte del Corpo forestale e di vigilanza ambientale regionale, risultino sprovvisti di autorizzazione alla prosecuzione dell’esercizio e non abbiano presentato istanza per l’ottenimento della stessa. Tale disposizione opera estensivamente rispetto alla precedente legge del 2007, introducendo così un’ipotesi di sanatoria di opere realizzate in difformità dagli atti di assenso e in particolare di sbarramenti realizzati in assenza delle approvazioni previste dalla normativa vigente al momento della costruzione ovvero in difformità ai progetti approvati.
Sul punto, si evidenzia che con sentenza n. 201 del 28 settembre 2021, la Corte costituzionale ha dischiarato l’illegittimità dell’articolo 11 della legge della Regione Veneto 23 giugno 2020, n. 23 che, nel disciplinare la regolarizzazione degli sbarramenti di ritenuta e dei bacini di accumulo di competenza regionale esistenti e realizzati in assenza delle prescritte autorizzazioni, aveva previsto la facoltà di presentazione di istanza di regolarizzazione entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge. Sul punto, la Suprema Corte ha evidenziato come “Con tale disposizione, il legislatore veneto ha consentito che le opere di cui al precedente art. 10 – vale a dire le opere che “non siano state denunciate ovvero siano state realizzate in difformità dai progetti approvati” – siano regolarizzate previa presentazione, da parte del proprietario o del gestore, del progetto esecutivo completo dello stato di fatto e comprensivo della certificazione di idoneità statica. L’approvazione del progetto è riservata alla Giunta regionale, che vi provvede all’esito del procedimento già descritto nello scrutinio delle precedenti censure. Il dubbio di legittimità costituzionale discende dal fatto che, disciplinando la norma impugnata opere esistenti alla data di entrata in vigore della legge regionale, la stessa si porrebbe in contrasto con l’art. 167 cod. beni culturali, che dispone un generale divieto di sanatoria per gli interventi non autorizzati su beni paesaggistici, salvi i limitati casi di cui al comma 4, estranei alla presente fattispecie e che necessitano, comunque, del previo parere vincolante della soprintendenza”.
Alla luce di quanto sopra indicato, va dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione in esame per violazione dell’articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.



L’articolo 120 della legge regionale in oggetto introduce delle modifiche in materia di assetto territoriale.
Le modifiche apportate dall’articolo 120 riguardano sostanziali variazioni dell’assetto territoriale, senza prevedere il coinvolgimento delle popolazioni interessate alla riforma delle circoscrizioni territoriali delle province sarde e questo in violazione delle norme di seguito indicate:
-articolo 43, comma 2, dello statuto speciale (legge Costituzionale n.3/1948) che dispone: “Con legge regionale possono essere modificate le circoscrizioni e le funzioni delle province, in conformità alla volontà delle popolazioni di ciascuna delle province interessate espressa con referendum”;
– art.133 Cost. che al comma 2 prescrive “La Regione, sentite le popolazioni interessate, può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni”;
– art.15 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (TUEL) che dispone “A norma degli artt.117 e 133 della Costituzione, le regioni possono modificare le circoscrizioni territoriali dei comuni sentite le popolazioni interessate, nelle forme previste dalla legge regionale… “.
Si evidenzia che la Corte Costituzionale si è pronunciata con sentenza n. 68/2022 sul ricorso governativo proposto in relazione all’articolo 6 della precedente legge regionale n.7/2021 e ha dichiarato inammissibili , per contraddittorietà ed inidoneità dell’intervento invocato, le questioni di legittimità costituzionale, promosse dal Governo in riferimento all’articolo 43, secondo comma, dello statuto speciale, dell’articolo 6 della legge regionale Sardegna n.7/2021 che, nello stabilire un nuovo assetto complessivo degli enti di area vasta attraverso l’istituzione o la soppressione di taluni, prevede un referendum solo successivamente all’entrata in vigore della riforma e prevede un referendum consultivo quando una delibera consiliare sia intervenuta ma non abbia raggiunto l’unanimità. La Corte nella predetta pronuncia ha evidenziato che ogni considerazione di merito era preclusa dalla circostanza che il ricorso ha omesso di estendere la censura all’intera legge regionale, approvata in asserita lesione del procedimento rinforzato, limitandosi in modo contradditorio a impugnare il solo articolo 6.
Alla luce di tutto quanto sopra indicato e per i motivi ivi indicati, va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 120 della legge regionale in oggetto, per violazione dell’articolo 133, comma 2, della Costituzione, con riferimento all’articolo 15 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, in relazione all’articolo 43, comma 2, dello Statuto speciale della Regione Sardegna (legge Costituzionale n.3/1948), in quanto non è stata sentita la popolazione interessata alle variazioni apportate all’assetto territoriale dalla disposizione in esame.


L’articolo 123, comma 5, 6 e 11, e gli articoli 124, 125, 126, 127, 128, 130 e 133 del Capo XI “Norme in materia di recupero del patrimonio edilizio e urbanistica” della legge regionale in oggetto, sono illegittimi per i motivi di seguito indicati.
Preliminarmente, in tema, va ricordato che l’articolo 3, primo comma, lettera f), dello Statuto riconosce alla Regione Sardegna una autonomia più ampia di quella risultante dalla norma costituzionale generale di cui all’articolo 117, terzo comma, della costituzione, attribuendole potestà legislativa primaria nella materia dell’«edilizia ed urbanistica», entro la quale si collocano le disposizioni sopra indicate.
Va tuttavia precisato che la potestà legislativa primaria della regione, deve esplicarsi “in armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e col rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico sociali della Repubblica”, secondo quanto stabilito dal citato articolo 3 dello statuto regionale.
Di seguito, pertanto verranno evidenziati i profili di illegittimità costituzionale che assumono rilievo in quanto integrano violazioni dei parametri statutari sopra ricordati.
Tanto premesso, si evidenzia che tutte le norme regionali finalizzate a riconoscere deroghe agli strumenti urbanistici per recuperi abitativi, piani casa, incrementi volumetrici, etc., hanno carattere straordinario, si applicano, in genere, ai piccoli immobili residenziali (per lo più, unifamiliari e bifamiliari) e sono motivate anche da intenti essenziali di riqualificazione energetica, miglioramento della qualità delle costruzioni e di contrasto al consumo di suolo.
In passato si sono già verificate diverse pronunce di incostituzionalità di numerose norme regionali in materia.
La Corte Costituzionale (sentenza n. 219 del 23 novembre 2021) ha ribadito, quale principio di carattere generale, che “Nel consentire i richiamati interventi edilizi in deroga alla pianificazione urbanistica per un tempo indefinito, per effetto delle reiterate proroghe … le citate previsioni finiscono per danneggiare il territorio in tutte le sue connesse componenti e, primariamente, nel suo aspetto paesaggistico e ambientale, in violazione dell’art. 9 Cost.”.
Lo stesso principio è stato recentemente rinforzato con sentenza n. 229 del 15 novembre 2022 nella quale la Corte Costituzionale ha ribadito che “reiterate proroghe di una disciplina eccezionale e transitoria, volta ad apportare deroghe alla pianificazione urbanistica al fine di consentire interventi edilizi di carattere straordinario, possono compromettere l’imprescindibile visione di sintesi, necessaria a ricondurre ad un assetto coerente i molteplici interessi che afferiscono al governo del territorio ed intersecano allo stesso tempo l’ambito della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.)”.
Ciò premesso, con specifico riferimento alla legge in oggetto si evidenzia quanto segue.
L’articolo 123, comma 5, ai fini dell’ammissibilità degli interventi di cui ai commi 2 e 3 (riuso dei sottotetti esistenti) specifica che “… costituiscono quindi sottotetti:
a) gli spazi e i volumi delimitati inferiormente dall’ultimo solaio di chiusura di un volume urbanisticamente rilevante (residenziale o con altra destinazione compatibile con la destinazione della zona omogenea) e il solaio di copertura dell’immobile o dell’unità immobiliare, indipendentemente dall’attuale destinazione di tale spazio o volume come desumibile dall’ultimo titolo edilizio rilasciato per lo stesso;
b) le terrazze coperte e aperte su uno, due, tre o quattro lati, non rilevanti ai fini volumetrici dalle vigenti disposizioni di legge regionali e regolamenti comunali;
c) gli spazi e i volumi delimitati da altezza di imposta delle falde nulla.”.
Le previsioni di cui alle lettere b) e c) consentono di considerare sottotetti e quindi di “chiudere” spazi che possono anche non essere limitati lateralmente, cioè completamente aperti, sebbene coperti. In questo caso, appare evidente come la chiusura (laterale) determini un aumento di cubatura residenziale prima non esistente, di imprevedibile e incontrollabile consistenza, con un possibile e generalizzato aumento di carico urbanistico conseguente a nuova cubatura residenziale e abitanti insediabili, con possibilità di squilibrare gli standard minimi urbanistici degli strumenti di pianificazione generale.
Il comma 6 del medesimo articolo consente ulteriori ampliamenti volumetrici, anche esterni all’involucro geometrico del sottotetto esistente, realizzabili anche in zona A (territorio con agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale) ai sensi del comma 7.
Il successivo comma 11 prevede che il volume urbanistico, determinato dal volume geometrico del sottotetto, misurato all’esterno delle pareti perimetrali e all’intradosso del solaio di copertura, è ammesso anche mediante il superamento degli indici volumetrici e dei limiti di altezza previsti dalle vigenti disposizioni comunali e regionali.
Analoghe deroghe sono previste dall’articolo 124 per i seminterrati e piani pilotis e dall’articolo 125, che non considera come cubatura il riutilizzo di sottotetti che precedentemente non costituivano volume urbanistico.
Dalle disposizioni sopra richiamate emerge come gli interventi ivi previsti possano causare una distorsione e comunque una profonda alterazione degli standard urbanistici, previsti dalla normativa nazionale (decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444), ponendosi in contrasto con il principio fondamentale di pianificazione urbanistica unitaria del territorio e del suo necessario rispetto. Questo principio trova espressione nell’articolo 41-quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150 che, nel prevedere l’osservanza di limiti inderogabili nella formazione degli strumenti urbanistici, presuppone la necessaria sussistenza del sistema della pianificazione del territorio. Corollario di detto principio è che tutti i singoli interventi di trasformazione devono rinvenire la loro base in un presupposto atto di pianificazione (limitato dagli standard urbanistici di cui agli articoli 3, 4, 5, 7 e 8 del D.M. n. 1444 del 1968) e devono rispettarne le prescrizioni. Solo attraverso una visione integrata di una determinata porzione di territorio è infatti possibile garantirne un ordinato sviluppo.
Quanto precede non implica che le previsioni dei piani urbanistici siano assolutamente inderogabili. Infatti, lo stesso testo unico dell’edilizia di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 disciplina, all’articolo 14, un complesso procedimento di rilascio del permesso di costruire in deroga, per particolari e specifici interventi, la cui realizzazione è diretta a soddisfare un interesse pubblico che si ritiene prevalente, a determinate condizioni, rispetto all’assetto generale definito dal piano. Inoltre, l’ordinamento nazionale riconosce ipotesi di deroghe generali, relative a determinate tipologie di interventi edilizi (articolo 2-bis del testo unico), deroghe che anche le regioni possono introdurre con legge, nell’esercizio della loro competenza concorrente in materia di «governo del territorio».
Interventi regionali di questo tipo, tuttavia, sono ammissibili soltanto nel rispetto del citato principio fondamentale della materia e dunque solo in quanto essi presentino i caratteri dell’eccezionalità e della temporaneità e siano diretti a perseguire obiettivi specifici, senza tuttavia che assurgano a disciplina stabile, vanificando il principio del necessario rispetto della pianificazione urbanistica.
L’articolo 126 prevede, per le strutture ricettive alberghiere esistenti, la possibilità di chiusura con elementi amovibili, anche a tenuta, delle verande e tettoie coperte già legittimamente autorizzate, per un periodo non superiore a duecentoquaranta giorni. La disposizione appare ampliativa e in contrasto con l’articolo 6, comma 1, lettera e-bis) del testo unico dell’edilizia, che per le opere temporanee prevede, invece, un periodo massimo di centottanta giorni.
L’articolo 127, rubricato “Disposizioni edilizie in favore dei portatori di handicap gravi”, consente interventi funzionali di ampliamento volumetrico realizzati in continuità all’unità immobiliare interessata per un massimo di centoventi metri cubi, anche in deroga alle norme previste negli strumenti urbanistici vigenti, purché nel rispetto delle disposizioni del codice civile. Anche in questo caso, stante la genericità e indeterminatezza della previsione, valgono le considerazioni sopra espresse in ordine agli ampliamenti volumetrici in deroga agli strumenti urbanistici generali.
L’articolo 128 indica le condizioni di non ammissibilità degli interventi di cui agli articoli da 123 a 127. La fattispecie descritta alla lettera a) del comma 1, che considera ammissibili gli ampliamenti volumetrici di cui agli articoli da 123 a 127 anche qualora le unità immobiliari siano difformi da quanto assentito con regolare titolo abilitativo ma condonate o condonabili, ripropone, nella sostanza, la disposizione di cui all’articolo 11, comma 1, lettera a), della precedente legge regionale 18 gennaio 2021, n. 1, disposizione dichiarata incostituzionale con sentenza n. 24 del 28 gennaio 2022.
Si segnala peraltro, sul punto, che, se è vero che è espressamente previsto dalla norma in commento che gli interventi dagli articoli da 123 a 127, (ampliamenti volumetrici) non sono ammessi negli immobili privi di titolo abilitativo, la medesima norma ammette, nei casi di difformità al titolo abilitativo originario, ampliamenti anche nell’ipotesi di immobili oggetto di condono edilizio (oltre quindi i casi di accertamento di conformità), possibilità questa espressamente esclusa dalla Corte Costituzionale, nei casi di ampliamento volumetrico in deroga.
Inoltre, la lettera b) del comma 1 del medesimo articolo 128 prevede che la disposizione, ampiamente derogatoria e straordinaria per quanto sopra specificato, sia applicabile a tutti gli immobili esistenti alla data di entrata in vigore della legge, escludendo solo quelli “completati successivamente”, evidenziando così quanto possano risultare potenzialmente impattanti le cubature aggiuntive assentibili ad una vastissima platea di immobili, senza alcun riferimento alla pianificazione generale e alla dotazione minima degli standard minimi urbanistici.
L’art. 130 modifica l’art. 39 comma 15 della precedente legge regionale n. 8/2015 in materia di demolizione e ricostruzione, che già nella precedente formulazione presentava profili di incostituzionalità. In particolare, la disposizione oggi prevede che la ricostruzione dell’intera volumetria è assentibile unicamente ove il nuovo fabbricato determini un minore impatto paesaggistico secondo le indicazioni impartite dall’Amministrazione regionale con apposite linee guida adottate dalla Giunta regionale con deliberazione n. 18/15 del 5 aprile 2016 e, qualora l’edificio ricada in ipotesi di esclusione o in aree tutelate ai sensi degli artt. 136, comma 1, lettere c) e d), e 142 del D.lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), anche senza il mantenimento di sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente.
Al riguardo, la sentenza costituzionale n. 24/2022 aveva statuito che sin dall’originaria formulazione, la norma regionale consente di demolire gli edifici esistenti nella fascia dei 300 metri dalla linea di battigia marina e ricadenti nelle zone urbanistiche E (agricole), F (turistiche) e H (di salvaguardia), nonché nelle zone urbanistiche G, dedicate ai servizi generali, non contermini all’abitato. La ricostruzione dell’intera volumetria è assentibile, anche secondo l’originaria formulazione della norma.
La disposizione impugnata aggiunge: “senza l’obbligo del rispetto dell’ubicazione, della sagoma e della forma del fabbricato da demolire”. Su tale inciso vertono le censure proposte nell’odierno giudizio, riferite alla violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia della tutela dell’ambiente. La disposizione impugnata incide sulla fascia di 300 metri dalla linea di battigia, peraltro tutelata in maniera pregnante ai sensi dell’art. 142, lettera a), del D.Lgs. n. 42/2004, oltre che alla stregua del vigente piano paesaggistico regionale. La previsione in esame esenta gli interventi disciplinati dal novellato art. 39 della legge regionale n. 8/2015 dall’obbligo del rispetto dell’ubicazione, della sagoma e della forma del fabbricato da demolire. Né pone rimedio al vulnus la precisazione che il nuovo fabbricato deve determinare “un minore impatto paesaggistico secondo le indicazioni impartite dall’Amministrazione regionale con apposite linee guida adottate dalla Giunta regionale con atto n. 18 del 5 aprile 2016”. Il legislatore regionale ha travalicato i limiti della potestà legislativa sancita dallo statuto speciale, modificando unilateralmente – e per di più in senso deteriore – la disciplina della fascia costiera, bene paesaggistico assoggettato a rigorosa tutela, per la peculiarità delle caratteristiche naturali e ambientali.

Infine, l’articolo 133 disciplina la “Valorizzazione degli immobili della borgata di pescatori di Marceddì” attraverso un programma integrato di riordino urbano di cui all’articolo 40 della legge regionale n. 8 del 2015. La borgata in questione risulta caratterizzata dalla presenza di edificazioni abusive non sanabili, per cui appare contraddittorio che a seguito dell’approvazione del richiamato programma integrato, l’Assessorato regionale competente in materia di patrimonio debba procedere, nel rispetto della normativa vigente, all’avvio delle procedure di regolarizzazione dell’assetto occupativo degli immobili. Infatti, i programmi integrati di cui all’articolo 40 della legge regionale n. 8 del 2015, prevedono ampliamenti volumetrici del quaranta per cento, incrementabili ulteriormente del trenta per cento nei casi espressamente previsti. Si ritiene che tale previsione confermi ancora una volta quanto già rappresentato in ordine ai possibili gravi effetti di un ampliamento tanto rilevante e generalizzato sull’ordinato ed equilibrato sviluppo del territorio, fuori dalle logiche della pianificazione generale ed unitaria, voluta dal legislatore nazionale ed il cui rispetto è stato a più riprese richiamato dalla Corte Costituzionale.
In relazione all’art. 133, peraltro, nel prendere atto che del programma integrato di cui all’articolo 40 della legge regionale n. 8/2015 non potrà fare parte “l’edilizia spontanea” e quindi abusiva, residuano i profili di illegittimità della disposizione riguardanti la possibilità di ampliamenti volumetrici, nella fattispecie fino al 40%, senza che vengano esclusi gli immobili regolarizzati attraverso condoni edilizi (non di accertamento di conformità) ed il mero rimando al generico “incremento” della dotazione degli standards urbanistici e non al pieno rispetto di quelli minimi previsti dalla norma nazionale.
Con riferimento agli articoli 123, 124, 125 e 127, ed, in particolare, all’obbligo del rispetto del dettato normativo nazionale di cui al sopra citato articolo 7 del D.M. n. 1444/1968 in tema di incrementi volumetrici (recepiti in Sardegna dall’articolo 4 del decreto dell’Assessore regionale 22 dicembre 1983 n. 2266/U, rubricato “Limiti di densità edilizia per le diverse zone”) si segnala inoltre quanto segue.
L’articolo 7 sopra richiamato statuisce che i limiti di densità edilizia delle diverse zone territoriali omogenee sono posti a presidio del «primario interesse generale all’ordinato sviluppo urbano» (Consiglio di Stato, Sezione quarta, Sentenza 5 novembre 2018, n. 6250). Inoltre, si ricorda, come ribadito anche dalla Corte Costituzionale (Sentenza n. 217/2020), che i limiti fissati dal D.M. n.1444/1968 (compresi densità, altezze, distanze), trovano il proprio fondamento nell’articolo 41-quinquies, commi 8 e 9, della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica), ed hanno efficacia vincolante anche verso il legislatore regionale (Corte Cost. sentenza n. 232 del 2005), salvo quanto previsto oggi dall’art. 2-bis del D.P.R. n. 380 del 2001, costituendo principi fondamentali della materia.
Il richiamato articolo 2-bis prevede, al comma 1, che le leggi regionali possano derogare al D.M. n. 1444/1968, ma solo «nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali».
Lo stesso legislatore statale, al successivo comma 1-bis, prevede poi che tale principio debba orientare i comuni nella definizione dei limiti di densità edilizia, altezza e distanza dei fabbricati negli ambiti urbani consolidati del territorio. Si tratta di una norma che recepisce gli assunti della giurisprudenza costituzionale, secondo cui le leggi regionali possono derogare alle limitazioni fissate nel D.M. n. 1444/1968, ma solo a condizione che le deroghe siano recepite da strumenti urbanistici attuativi (funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio) e non riguardino singoli edifici (per tutte, sentenze della Corte costituzionale n. 41 del 2017 e n. 231 del 2016) come, del resto, già previsto dall’articolo 9, ultimo comma, del D.M. n. 1444/1968.
Si riporta al riguardo, quanto statuito sul punto dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 217/2020.
“È opportuno ricordare che, secondo questa Corte, i limiti fissati dal d.m. n. 1444 del 1968, che trova il proprio fondamento nell’art. 41-quinquies, commi 8 e 9, della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica), hanno efficacia vincolante anche verso il legislatore regionale (ad esempio, sentenza n. 232 del 2005), salvo quanto si dirà in relazione all’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001, costituendo essi principi fondamentali della materia, in particolare come limiti massimi di densità edilizia a tutela del «primario interesse generale all’ordinato sviluppo urbano» (Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 5 novembre 2018, n. 6250).
(……) si può osservare che, se gli artt. 7, 8 e 9 del d.m. n. 1444 del 1968 fossero derogabili, le leggi regionali potrebbero prevedere ampliamenti senza limiti percentuali determinati, salvo il controllo di ragionevolezza (dato che i limiti posti dall’art. 5, comma 14, del d.l. n. 70 del 2011 riguardano il caso di assenza di leggi regionali), e ciò sarebbe in evidente contrasto con la segnalata finalità di tutela del primario interesse generale all’ordinato sviluppo urbano presidiato dal principio fondamentale della legge statale.”
(……) L’art. 2-bis del testo unico, introdotto dall’art. 30, comma 1, lettera Oa), del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98, prevede, al comma 1, che le leggi regionali possano derogare al d.m. n. 1444 del 1968, ma solo «nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali». Si tratta di una norma che recepisce la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui le leggi regionali possono derogare alle distanze fissate nel d.m. n. 1444 del 1968 solo a condizione che le deroghe siano recepite da strumenti urbanistici attuativi (funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio) e non riguardino singoli edifici (per tutte, sentenze n. 41 del 2017 e n. 231 del 2016): come, del resto, già previsto dall’art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968. L’art. 2-bis, comma 1, peraltro, non riguarda solo le distanze, come risulta dall’art. 5 del decreto-legge 18 aprile 2019, n. 32 (Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici), convertito, con modificazioni, nella legge 14 giugno 2019, n. 55, che ha inserito nell’art. 2-bis il seguente comma 1-bis: «Le disposizioni del comma 1 sono finalizzate a orientare i comuni nella definizione di limiti di densità edilizia, altezza e distanza dei fabbricati negli ambiti urbani consolidati del proprio territorio».
La norma in commento al contrario prevede una deroga alle densità massime, che prescinde del tutto da una pianificazione attuativa e si collega solo ai titoli edilizi previsti dal dpr 380/01, violando l’art. 2-bis, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001.
Il principio del primario interesse generale all’ordinato sviluppo urbano presidiato dal principio fondamentale della legge statale non è rispettato nel caso di iniziative singole, puntuali scoordinate nel territorio e che incrementano senza alcun controllo e a regime le cubature urbanistiche esistenti anche oltre i limiti massimi previsti dalla pianificazione territoriale e dal dm 1444/68.
Solo attraverso una revisione di strumenti urbanistici, come richiesto dall’art. 2 bis , si ha la possibilità di valutare limiti dimensionali, effetti sul territorio, cubature preesistenti e incrementi volumetrici per il perseguimento di obiettivi di riduzione di consumo di suolo e di rigenerazione urbana, in ambiti predefiniti e compiutamente disciplinati anche attraverso differenziati limiti di densità edilizia ancorché superiori a quelli massimi o attraverso sistemi di perequazione o di rivalutazione delle possibilità edificatorie previste nel territorio alla luce degli incrementi volumetrici prevedibili. Soddisfare fabbisogni abitativi con il recupero volumetrico e il suo ampliamento, impone una riconsiderazione della edificabilità in aree libere o non completamente sature al fine di perseguire riduzioni del consumo di suolo, ciò è possibile solo attraverso una revisione della pianificazione che per un verso può incrementare i limiti di densità edilizia massimi ove ritenuti compatibili anche per finalità di rigenerazione urbana e contestualmente riduce o annulli quelli di aree ancora non edificate.
Tale, peraltro, è la conclusione assunta da un recente sentenza del TAR Emilia-Romagna (Sezione II, n. 261/2023) in relazione ad un contenzioso riguardante un permesso di costruire, tacitamente assentito, per la realizzazione di un intervento di ampliamento di un fabbricato esistente posto in essere sia attraverso la sua sopraelevazione sia edificando un ulteriore corpo di fabbrica, in un lotto libero adiacente, strutturalmente collegato all’edificio esistente.
La sentenza merita di essere segnalata in questo contesto in quanto viene statuito che:
– l’intervento assentito con il titolo edilizio, consistente in un ampliamento eseguito, non soltanto mediante l’ampliamento di un fabbricato preesistente, da attuarsi in un lotto libero, ma anche mediante parziale demolizione e ricostruzione del piano terra del preesistente edificio, avrebbe dovuto rispettare il limite di densità edilizia di 5 mc/mq. previsto per le zone B dall’articolo 7, comma 1, numero 2) del D.M. n. 1444/1968, calcolato secondo le definizioni tecniche uniformi;
– le disposizioni derogatorie regionali assunte ai sensi dell’articolo 2-bis, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, che prevedono per l’appunto deroghe ai limiti di densità edilizia, di altezza e distanza tra fabbricati previsti dal D.M. n. 1444/1968, debbono essere recepite da strumenti urbanistici attuativi con previsioni volumetriche e non possono riguardare singoli edifici (nello specifico, veniva in questione quanto previsto dall’articolo 7-ter, comma 3-bis, della legge regionale dell’Emilia Romagna n. 20/2020 che in relazione ad alcuni interventi di riqualificazione prevede che “Gli eventuali incentivi volumetrici riconosciuti per l’intervento possono essere realizzati con la soprelevazione dell’edificio originario, anche in deroga al D.M. n. 1444 del 1968, artt. 7, 8 e 9 nonché con ampliamento fuori sagoma dell’edificio originario laddove siano comunque rispettate le distanze minime tra fabbricati di cui all’art. 9 del medesimo decreto o quelle dagli edifici antistanti preesistenti, se inferiori”).
Ne consegue pertanto che, nella realizzazione degli interventi di riqualificazione del patrimonio edilizio in cui si intendano utilizzare anche incrementi volumetrici, occorre tenere in considerazione i seguenti punti evidenziati dalla pronuncia in commento:
– diretta precettività delle disposizioni contenute all’articolo 7 del D.M. n. 1444/1968, la cui verifica compete in primo luogo al progettista abilitato che, ai sensi dell’articolo 20, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, deve asseverare la conformità del progetto alla normativa incidente sulla disciplina dell’attività edilizia;
– possibilità di derogare a tali disposizioni, non attraverso interventi puntuali ma unicamente nell’ambito di strumenti urbanistici attuativi in cui siano approvate anche specifiche previsioni volumetriche.

Per quanto concerne l’articolo 126 della legge regionale in oggetto, relativo agli “Interventi nelle strutture destinate all’esercizio di attività turistico-ricettive” si aggiunge inoltre quanto segue in ordine alla temporaneità degli interventi consentiti dalla disposizione regionale in questione.
In particolare, sul punto, va ricordato che gli unici interventi realizzabili temporaneamente, previsti dal DPR 380/01, sono disciplinati dall’art. 6 comma 1 lett. e-bis) (che disciplina le opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee, come nel caso espressamente previsto dalla norma in questione).
Detti interventi, ai sensi dell’articolo art. 6 comma 1 lett. e-bis sopra citato, sono di edilizia libera in quanto non di particolare rilievo sotto il profilo urbanistico edilizio e devono essere rimossi entro un termine non superiore a centoottanta giorni.
Decorso tale termine, l’opera non può più considerarsi stagionale o temporanea e rientra nelle diverse tipologie di interventi, per i quali non è prevista dal D.P.R. 380/2001 la temporaneità e per i quali vige l’osservanza di tutti i limiti urbanistici ed edilizi previsti, indipendentemente dal titolo necessario sia esso SCIA o permesso di costruire.
Invero, e diversamente opinando, potrebbero individuarsi tempistiche per il mantenimento temporaneo di interventi soggetti a permesso di costruire o SCIA anche per anni e disimpegnarli dal rispetto dei parametri previsti dalle norme solo perché comunque si tratta di una permanenza temporanea.
Si fa d’altro canto presente che la disposizione regionale in esame non prevede che gli interventi siano soggetti a SCIA o altro titolo abilitativo richiesto, e tantomeno disciplina gli effetti dell’eventuale mantenimento delle opere oltre il termine temporale indicato.
Alla luce di tutto quanto sopra, ed in considerazione dei rilievi esposti, gli articoli 123, comma 5, 6 e 7, 124, 125, 126, 127 e 128, 130, 133 vanno dichiarati illegittimi in ragione della loro non compatibilità con le previsioni di cui all’articolo 3 dello Statuto speciale della regione Sardegna, nonché degli articoli 9, 117, primo comma e secondo comma, lettera s), della Costituzione.
Inoltre, le medesime disposizioni confliggono con il principio di leale collaborazione ex art. 120 Cost., per mancata osservanza dell’obbligo della pianificazione concertata e condivisa, prescritta dalle norme statali in quanto idonea a garantire l’ordinato sviluppo urbanistico e a individuare le trasformazioni compatibili con le prescrizioni statali del Codice dei beni culturali e del paesaggio.


L’ articolo 131 della legge regionale di cui trattasi (rubricato “Modifiche ed integrazioni alla legge regionale n. 23 del 1985 in materia di edilizia libera, sanzioni e piani di risanamento”) testualmente dispone:
” 1. Alla legge regionale n. 23 del 1985, e successive modifiche ed integrazioni , sono apportate le seguenti modifiche:
a) al comma 1 dell’’articolo 15:
1) dopo la lettera f) è aggiunta la seguente:
“f bis) interventi finalizzati al posizionamento di pergole bioclimatiche, intese come pergole aperte almeno su tre lati, coperte con elementi retraibili tipo teli o lamelle anche orientabili e motorizzabili, per consentire il controllo dell ‘apertura e della chiusura, tanto in aderenza a fabbricato esistente che isolate. “;
2) dopo la lettera j-quater) è aggiunta la seguente:
“j quater bis) gli interventi di realizzazione e installazione di vetrate panoramiche amovibili e totalmente trasp arenti , cosiddette VEPA, dirette ad assolvere a funzioni temporanee di protezione dagli agenti atmosferici, miglioramento delle prestazioni acustiche ed energetiche, riduzione delle dispersioni termiche, parziale impermeabilizzazione dalle acque meteoriche dei balconi aggettanti dal corpo dell’edificio o di logge rientranti all’interno dell’edificio, purché tali elementi non configurino spazi stabilmente chiusi con conseguente variazione di volumi e di superfici, come definiti dal regolamento edilizio-comunale, che possano generare nuova volumetria o comportare il mutamento della destinazione d’uso dell’immobile anche da superficie accessoria a superficie utile. Tali strutture devono favorire una naturale microaerazione che consenta la circolazione di un costante flusso di aria a garanzia della salubrità dei vani interni domestici ed avere caratteristiche tecnico-costruttive e profilo estetico tali da ridurre al minimo l’impatto visivo e l’ingombro apparente e da non modificare le preesistenti linee architettoniche. “;
b) dopo il comma 2 dell’’articolo 19 è aggiunto il seguente:
” 2-bis. Le sanzioni di cui al comma 1 non si applicano per tutta la durata dello stato di emergenza sanitaria da Covid-19. “;
c) dopo il comma 8 dell’articolo 37 è aggiunto il seguente:
“8-bis. All ‘intern o di tutti i piani di risanamento urbanistico, nell’ambito dell ‘edilizia contrattata e previa richiesta degli interessati , è consentita la sostituzione dei lotti destinati a standard urbanistici con lotti edificabili, a condizione che il lotto edificabile da sostituire come standard abbia maggiore o uguale superficie e che tale sostituzione non comporti aumento di volumetrie rispetto a quanto previsto dal piano attuativo, senza limiti di distanza. “

L’art. 15 della legge regionale Sardegna n. 23 del 1985 (rubricato “Interventi di edilizia libera”) testualmente recita:
” 1 . Nel rispetto delle prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico sanitarie, di quelle relative all’efficienza energetica e delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio , ai sensi dell’articolo 1O della legge 6 luglio 2002, n. 137), e successive modifiche ed integrazioni, i seguenti interventi sono eseguiti senza alcun titolo abilitativo edilizio. “

La novella introdotta dall’articolo 131, della legge regionale n. 9 del 2023, aggiunge all’elenco degli interventi soggetti ad “edilizia libera” la lettera f-bis (pergole bioclimatiche) e la lettera j quater bis (vetrate panoramiche amovibili – VEPA).
Relativamente a queste ultime, la legge 21 settembre 2022, n. 142, di conversione del decreto legge 9 agosto 2022, n. 115 , (cd. ” Aiuti bis” ) ha introdotto l’ art. 33-quater , che include, fra gli interventi eseguibili in edilizia libera, anche la realizzazione e l’installazione di vetrate panoramiche, le cosiddette ” VEPA” , così novellando l’articolo 6 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”).
L’articolo 131 della legge regionale Sardegna n. 9 del 2023, aggiungendo la lett.j quater bis, nel corpo dell’art. 15, comma 1, della legge regionale n. 23 del 1985, fa, quindi, aderente recepimento della predetta norma interposta statale e quindi, limitatamente alle VEPA, risulta costituzionalmente legittimo.
Lo stesso invece non può dirsi con specifico riferimento all’ introduzione, da parte del legislatore sardo, delle pergole bioclimatiche nel medesimo regime dell’edilizia libera di cui all’articolo 6 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, per i seguenti ordini di considerazioni.
Sul punto, infatti, occorre menzionare altresì le disposizioni di cui al D.M. 2 marzo 2018, recante “Approvazione del glossario contenente l’elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera , ai sensi del!’articolo I, comma 2, del decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 222 “.
Esso:
– precisamente alla voce n. 46, qualifica il “pergolato” come arredo delle aree di pertinenza degli edifici per cui è consentita installazione, a condizione che sia di limitate dimensioni e non stabilmente infisso al suolo;
– precisamente alla voce n. 50, qualifica la “pergola” come arredo delle aree di pertinenza degli edifici; è consentita installazione (non sono indicati termini quantitativi e qualitativi).

Le “pergole e i “pergolati” hanno la funzione di supportare piante rampicanti, per fornire soltanto ombreggiamento allo spazio sottostante, senza però offrire riparo dalle precipitazioni piovose, ed hanno struttura di sostegno puntiforme, cioè senza elementi strutturali a pareti; per cui, riprendendo la definizione adottata dalla giurisprudenza amministrativa (cfr., sul punto, Consiglio di Stato n. 5541 del 2018 e n. 4001 del 2018) si tratta, in buona sostanza, di” (…) un manufatto leggero, amovibile e non infisso al pavimento, non solo privo di qualsiasi elemento in muratura da qualsiasi lato, ma caratterizzato dalla assenza di una copertura anche parziale con materiali di qualsiasi natura, e avente nella parte superiore gli elementi indispensabili per sorreggere le piante che servano per ombreggiare: in altri termini, la pergola è configurabile esclusivamente quando vi sia una impalcatura di sostegno per piante rampicanti e viti (…)”.
Un’ulteriore sentenza del Consiglio di Stato (n. 4177 del 2018), che sembrerebbe liberalizzare le “pergole bioclimatiche”, riguarda, in realtà, strutture metalliche aperte su tutti i lati, e soprastante protezione a “carattere retrattile delle lamelle di alluminio”; tale configurazione qualifica l’opera come qualcosa di diverso da una tettoia perché l’opera è aperta su tutti i lati.
Le “pergole bioclimatiche”, tuttavia, non risultano menzionate nel Glossario per l’Edilizia libera di cui al D.M. 2 marzo 2018, ma la legge regionale n. 9 del 2023, qualifica le medesime come “(…) pergole aperte almeno su tre lati, coperte con elementi retraibili tipo teli o lamelle anche orientabili e motorizzabili, per consentire il controllo dell’apertura e della chiusura, tanto in aderenza a fabbricato esistente che isolate”.
Tuttavia, secondo gli insegnamenti della giurisprudenza amministrativa (cfr., sul punto, Consiglio di Stato, sentenza n. 5645 del 2019), quando una pergola non è aperta su tutti i lati, è qualificabile come “tettoia”, e, di norma, come tale, richiede il permesso di costruire, in quanto costruzione comportante trasformazione permanente del suolo.
Per tale motivo, la definizione di “pergola bioclimatica “, quale opera rientrante nell’edilizia libera data secondo l’impostazione datane dal novellato articolo 15 della legge regionale Sardegna n. 23 del 1985 ad opera dell’articolo 131 della legge regionale n. 9 del 2023, non risulterebbe coerente con la normativa nazionale recata dal d.P.R. n. 380 del 2001 e con l’interpretazione datane dalla giurisprudenza.
A supporto di tale tesi, si può citare altresì il caso di una struttura frangisole costituita da lamelle in alluminio poggiante su travi in legno ancorate al muro, sanzionata dal giudice penale per assenza di permesso di costruire (cfr., sul punto, Cassazione penale, sentenza n. 27575 del 2015).
Devesi rappresentare che nel Glossario per l’edilizia libera sono puntualmente menzionate, altresì, le “pergotende” che, notoriamente, sono costituite da strutture di copertura di terrazzi e lastrici solari, di superficie anche non modesta, formate da elementi montanti verticali ed elementi orizzontali di raccordo, sormontate da una copertura fissa o ripiegabile formata da tessuto o altro materiale impermeabile, che ripara dal sole, ma anche dalla pioggia, aumentando in tal modo la fruibilità della struttura e della superficie da essa coperta (cfr., sul punto, Consiglio di Stato, sentenza n. 306 del 2017, da cui è desunta tale definizione).
Tali ”pergotende” si distinguono dalle “tettoie” perché presentano una struttura alquanto più leggera; infatti, nella medesima voce n. 50 del Glossario per l’ edilizia libera sono menzionate, pure, le installazioni di “tende” e di “coperture leggere di arredo”, a loro volta non puntualmente identificabili con la tipologia delle “tettoie” (cfr., sul punto, Consiglio di Stato, sentenza n. 5645 del 2019).
Ad ogni modo, le “pergole bioclimatiche” non possono essere assimilabili alle “pergotende” in quanto non si servono di “tende” (ossia di un materiale leggero), finendo col ricadere, pertanto, nella tipologia della “tettoia”, che, per l’appunto non compare nel glossario.
In giurisprudenza la definizione di “tettoia”, è quella di una copertura sostenuta da pilastri o comunque da strutture verticali discontinue, aderente o meno al muro di un edificio, in grado di assolvere sempre e comunque alla funzione dì riparare e proteggere l’area di cui costituisce copertura (cfr., sul punto, Consiglio di Stato, sentenza n. 5645 del 2019 e n. 825 del 2015), anche se la mancata menzione di “tettoia” nel Glossario per l’edilizia libera lascia forzatamente, a tutt’oggi, al giudice il potere-dovere di accertare, caso per caso, la riconducibilità della realizzazione di tale tipologia di manufatto al regime del permesso di costruire di cui all’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001, oppure ai regimi della segnalazione certificata d’inizio di attività (SCIA) normati dall’art. 22 del medesimo d.P.R., anche se è chiaro che per la loro realizzazione risulti comunque necessario un qualche titolo abilitante, non ricadendo, esse, nell’ambito dell’edilizia libera.
Ad ogni modo, sì è affermata una giurisprudenza che ritiene che le “tettoie”, consistendo nell’aggiunta di un elemento strutturale dell’edificio, modifichino il suo prospetto, e perciò la loro costruzione necessiti del preventivo rilascio del permesso dì costruire, non essendo assentibile con semplice denuncia d’inizio di attività, anche in ragione della perdurante modifica dello stato dei luoghi e del loro utilizzo durevole nel tempo, diretto a soddisfare esigenze di carattere permanente (cfr., sul punto, Consiglio di Stato, Sentenza n. 5645 del 2019 e n. 319 del 2015).
Pertanto, non sussiste dubbio in merito al fatto che la previsione di aggiungere le suddette “pergole bioclimatiche” al novero delle fattispecie riconducili all’ambito dell’edilizia libera da parte della regione Sardegna invada le competenze statali ponendosi in contrasto con i dettami della normativa statale interposta recata dall’articolo 6 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Le disposizioni regionali introdotte, peraltro, non trovano copertura nelle previsioni dello Statuto speciale sardo che tuttavia prevede una potestà legislativa, tra l’ altro, in materia di “edili zia ed urbanisti ca” (art. 3, comma 1, lett. f), né dalla disposizione recata dall’ articolo 2, comma 2, del suddetto d.P.R. n. 380 del 2001 in base al quale le Regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano esercitano la propria potestà legislativa esclusiva, nel rispetto e nei limiti degli statuti di autonomia e delle relative norme di attuazione .
Deve a tal fine rammentarsi che, ai sensi del summenzionato articolo 3 dello Statuto speciale della Regione Sardegna , la potestà legislativa regionale deve svolgersi, pur sempre ” […] in armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e col rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica”.
Ad avviso della Corte costituzionale (sentenza n. 24 del 2022, relativa a una Regione a statuto speciale che esercita potestà legislativa primaria in materia di edilizia e urbanistica nel rispetto delle norme fondamentali di riforma economico-sociale stabilite dal legislatore statale) a queste ultime norme fondamentali “[ … ] devono essere anzitutto ricondotte – nei limiti e per i motivi che saranno illustrati – le previsioni del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia. (Testo A)». Come più volte affermato dalla Corte, “[. ..] le norme fondamentali di riforma economico-sociale sono tali, infatti, per il loro «contenuto riformatore» e per la loro «attinenza a settori o beni della vita economico-sociale di rilevante importanza» (sentenza n. 229 del 2017) “.
Gli interessi sottesi alla relativa disciplina postulano, giocoforza, una uniformità di trattamento sull’intero territorio nazionale (sentenze n. 170 del 2001, n. 477 del 2000 e n. 323 del 1998; da ultimo, anche sentenza n. 229 del 2017), circostanza che sarebbe frustrata nel caso in cui ogni singola regione assoggettasse a titolo abilitativo diverso stesse tipologie di manufatti.
Ad amplius, si osserva che la Regione Sardegna ha ampie zone costiere ed una forte vocazione turistica, ed in tale contesto una previsione come quella proposta dalla novella introdotta dall’articolo 131 della legge regionale n. 9 del 2023 potrebbe comportare il rischio di incidere fortemente sul paesaggio urbano alterando marcatamente i prospetti degli edifici; se le pergole bioclimatiche verranno collocate in aderenza agli edifici, ne cambieranno il prospetto, e, pertanto, non potranno giocoforza ricadere nell’ambito dell’edilizia libera.
Anche le “pergole bioclimatiche” aperte su tutti i lati non potranno ricadere nell’ ambito dell’ edilizia libera quando coperte da lamelle “anche orientabili” , in quanto possono costituire stabilmente un piano chiuso, configurandosi, di fatto, come una tettoia.
Alla luce di tutto quanto sopra indicato e per i motivi ivi indicati, va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 131 della legge regionale in oggetto.

§§§
Alla luce di tutto quanto sopra esposto, la legge regionale in parola, negli articoli sopra indicati, deve essere impugnata ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione.

Il Fatto Quotidiano, 21 dicembre 2023

Per osservazioni e precisazioni: laboratoriocarteinregola@gmail.com

23 dicembre 2023

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Al Consiglio regionale della Sardegna  sta per arrivare  un  disegno di legge, “Disposizioni per il riuso, la riqualificazione ed il recupero del patrimonio edilizio esistente e di materia di governo…

Redazione -15 Gennaio 20203 CommentsContinua#

Il nuovo “Piano casa” della Sardegna: l’allarme (e la petizione) del Gruppo di Intervento Giuridico

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Rilanciamo l’allarme  per il nuovo “Piano casa” della Regione Sardegna, “Disposizioni per il riuso, la riqualificazione ed il recupero del patrimonio edilizio esistente e di materia di governo del territorio”,…

Redazione -6 Gennaio 20203 CommentsContinua

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