Il mesto epilogo della vendita di Palazzo Nardini
Autore : Redazione
Una recente sentenza del Consiglio di Stato, ribaltando la pronuncia del TAR del Lazio di un anno fa, stabilisce che il pregiatissimo complesso storico nel cuore di Roma è “alienabile”. Pubblichiamo un commento di Vittorio Emiliani su Emergenza cultura. In calce la cronologia degli avvenimenti di Carteinregola, che da sempre segue la vicenda, la sentenza del CDS e la sentenza del TAR del 2019, commentata da Lexambiente.(AMBM)
(da Emergenza cultura 3 luglio 2020) Palazzo Nardini, la perla del ’400 si può vendere
di Vittorio Emiliani
Con una sentenza clamorosa, in senso negativo, la IV Sezione del Consiglio di Stato ha quasi totalmente cancellato quella del Tar del Lazio che invece tutelava integralmente tutta la cittadella di Palazzo Nardini vietandone di fatto la vendita intervenuta per miseri 18 milioni di euro fra la Regione Lazio, proprietaria, e la società partecipata al 70% Invimit, e quindi la possibilità per quest’ultima di rivenderla “per fare cassa” per oltre 26 milioni di euro alla società privata Armellini Lemong Green srl. Il mondo si è rovesciato: anni fa quando il Tar bocciava i ricorsi di Italia Nostra e di altre associazioni per la tutela, si confidava sul fatto che il Consiglio di Stato, e proprio la IV Sezione, l’avrebbe riformata in modo illuminato. E così avveniva. Tutto il contrario.
La questione fondamentale era ed è: il complesso detto di Palazzo Nardini – che in realtà copre a partire dall’ultimo Medio Evo un’area vastissima fra la Via del Governo Vecchio, via del Corallo, via di Parione, via della Fossa per 6500 mq, dei quali poco meno di 4000 coperti – era e quindi è “alienabile”?
Una curiosità storica. Già il suo edificatore il cardinale di Milano Stefano Nardini di Forlì, primo governatore pontificio di Roma per incarico di Sisto IV, nel testamento aveva stabilito che potesse essere affittato, ma mai venduto. Talché anche il cardinale Francesco Sanseverino nel 1508 poté solo affittarlo, per 250 ducati d’oro l’anno. Altro dato fondamentale: durante gli ingenti lavori complessivi di restauro e di consolidamento di Francesco Vespignani (durati fino al 1920), in esso potevano essere ospitate 3 Preture, 3 Conciliatori, la Pretura urbana, le Guardie di Sicurezza e Nazionali. Nel maggio 1890 il ministro Giuseppe Fiorelli, archeologo, uno dei padri della tutela, scriveva che “è una delle case più originali di Roma (…) merita quindi che la sua originale struttura sia conservata come si trova”. Come si trova. E difatti anni dopo venne vincolata.
Ma era vendibile? No. O soltanto se si sosteneva che essa non aveva una sua identità e quindi non caratterizzava quella della Roma prima del Barocco. Tesi da buttarsi per terra dal ridere. Come affermare che Palazzo Taverna-Orsini o Palazzo Madama non sono un pezzo fondamentale della storia urbanistica di Roma. Eppure quella tesi della Regione Lazio e di Invimit passò, insieme all’avallo alla vendita del bene. La segreteria della apposita Commissione ministeriale nel 2016 (segretaria l’attuale soprintendente di Roma, Daniela Porro) non obiettò nulla e quindi la Soprintendente dell’epoca, Federica Galloni, attuale direttore generale del Mibact, avallò.
Un passo indietro però. Nel 2004 parte una campagna di denuncia: i tetti di Palazzo Nardini sono in parte crollati e il cortile centrale è il regno dei topi (morti spesso) e delle zanzare. L’assessore alla Cultura della Regione Lazio (Giunta Marrazzo) Giulia Rodano riesce a far stanziare 6 milioni di euro e altri 2 abbondanti ne mette il MiBACT (ministro Francesco Rutelli) rinforzando gli ultimi piani per i più grandi pesi (archivio, biblioteca, museo di statue). Si scoprono affreschi di pittori tedeschi nella sala dei convivi. Le strutture del Palazzo sono sane. Quando la Regione Lazio lo mette all’asta per 18 milioni, una miseria, Invimit in una pubblicità lo definisce addirittura “restaurato”.
Soffre molto, è vero, la facciata principale dove la plastica che chiudeva le finestre senza imposte non c’è più (e tutti se ne infischiano da anni) e dove alcune caditoie delle grondaie sono tagliate a metà e fanno marcire la facciata (e tutti alla Regione se ne fregano). Ma il soprintendente Francesco Prosperetti non ci sta e decide, con l’avallo del Ministero, di estendere e rafforzare i vincoli e quindi l’inalienabilità all’intero complesso nardiniano. Ovvio il ricorso Regione Lazio-Invimit e l’acquirente Armellini, società Lemon Green. Respinto con perdite dal Tar.
Torniamo a oggi. Poiché la molto argomentata sentenza del Tar ha messo in difficoltà gli acquirenti, ma il blocco imposto dalla pandemia ha impedito la possibilità di una “composizione bonaria della controversia” la stessa Avvocatura dello Stato è d’accordo su un rinvio “con fissazione di una nuova udienza”. Del tutto inaspettatamente la IV Sezione del Consiglio di Stato va invece a sentenza, subito, il 28 maggio. Perché tanta fretta? Perché tanta precipitazione? Un interrogativo che non trova risposta.
In ogni caso il vincolo generale rimane e la società acquirente* dovrà scontrarsi con esso se vorrà, come pare, farne una residenza per grandi ricchi americani o arabi. Dove farà bagni e servizi, camere da letto, cucine, servizi? Come “squarterà” la dimora cardinalizia?
PER OSSERVAZIONI E PRECISAZIONI: laboratoriocarteeinregola@gmail.com
vedi al scheda di Carteinregola Palazzo Nardini – I Municipio
Vai alla pagina del sito di Lexambiente con la sentenza del TAR del 5 giugno 2019
scarica la sentenza del Consiglio di stato palazzo nardini sentenza CDS luglio 2020
9 luglio 2020
* nell’originale il nome della società
CONTRIBUTI
Il vincolo di inalienabilità dei beni culturali “per riferimento” o “per testimonianza”Nota a sentenza del Tribunale Amministrativo per la Regione Lazio, Sez. II-quater, 5 giugno 2019, n. 7308,
di Caterina PELAGALLI
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Il fatto
Nel centro storico di Roma è ubicato “Palazzo Nardini”, un agglomerato di unità, site rispettivamente in via del Governo Vecchio, in via del Corallo, in via di Parione e in via della Fossa. Il palazzo veniva dichiarato bene culturale nel 1954, a conferma del proprio pregio storico-artistico già accertato negli anni 1909 e 1939, ed entrava a far parte del demanio culturale nel 1980 quando passava in proprietà al Comune di Roma.
Acquistato, successivamente, dalla Regione Lazio, quest’ultima decideva di destinarlo nel Fondo comune di investimento immobiliare, gestito da INVIMIT SGR. A tal fine e ai sensi dell’art. 55 d.lgs. 42/2004, l’ente regionale chiedeva l’autorizzazione all’alienazione al MiBaCT e il parere sulla stessa rispettivamente alla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per il Comune di Roma, alla Provincia di Roma e a Roma Capitale.
Il 23 dicembre 2014 il MiBaCT autorizzava l’alienazione dei manufatti siti in via del Governo Vecchio e in via Parione, ad esclusione del plesso c.d. “Casa delle donne”. Quest’ultima presentava, secondo la Commissione Regionale per la tutela del Patrimonio Culturale del Lazio, un rilevante interesse storico-culturale, pertanto appariva opportuno che rimanesse nel demanio culturale. A seguito di tale parere il Ministero adottava un nulla osta preventivo all’alienazione e apriva un procedimento volto alla ridefinizione del vincolo culturale, da concludere entro il 27 aprile 2016.
Palazzo Nardini, dopo essere trasferito, nella sua interezza, nel fondo immobiliare il 31 marzo 2016, veniva aggiudicato e ceduto a un privato il 22 ottobre 2017.
L’11 settembre 2018 la Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio di Roma dichiarava Palazzo Nardini di particolare interesse culturale, ai sensi dell’art. 13 d.lgs. 42/2004.
INVIMIT impugnava l’atto di avvio del procedimento e quello di certazione, proponendo due censure.
Ad avviso della ricorrente entrambi gli atti violano la legge, ai sensi dell’art. 21octies L. 241/90, in quanto l’amministrazione, contrariamente agli artt. 53 e 54 d.lgs. 42/2004 apponeva il vincolo di inalienabilità a un bene che non appartiene più a un ente pubblico, ma a un soggetto di diritto privato.
Inoltre, l’INVIMIT lamenta il vizio dell’eccesso di potere e quello di violazione di legge, in quanto la dichiarazione di interesse culturale è un ripensamento dell’autorizzazione ad alienare, quindi costituisce una forma di autotutela amministrativa, impropriamente esercitata ai sensi dell’art. 21nonies L. 241/90.
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La decisione
Il Tribunale Amministrativo per la Regione Lazio annulla la parte della dichiarazione di interesse culturale riguardante le unità site in via Parione e in via del Governo Vecchio, in quanto contrasta con l’art. 21 nonies L. 241/1990.
L’amministrazione, in luogo di annullare le autorizzazioni ad alienare secondo i canoni dell’art. 21nonies L. 241/90, ovverosia entro un termine di diciotto mesi e con rivalutazione degli interessi e dei controinteressi, adotta una nuova dichiarazione di interesse culturale.
Ex adverso , la parte di dichiarazione di interesse culturale, che concerne la porzione immobiliare “Casa delle donne” è valida, piuttosto sono illegittimi l’atto di apporto al Fondo di investimento e il connesso contratto di alienazione.
Per la “Casa delle donne”, differentemente dagli altri plessi immobiliari, il MiBaCT non ha rilasciato l’autorizzazione ad alienare, bensì un nulla-osta preventivo di natura interlocutoria, essendo in corso un procedimento di ridefinizione del vincolo. L’atto di conferimento al fondo è viziato, perché, viola gli artt. 54 e 55 d.lgs. 42/2004, in quanto la Regione Lazio, non attendendo la conclusione del procedimento, ha ceduto l’immobile senza la necessaria autorizzazione con le relative prescrizioni.
Pertanto, è nullo il conseguente contratto di alienazione stipulato tra INVIMIT e il terzo, ai sensi dell’art. 164 d.lgs. 42/2004.
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I beni culturali “per riferimento” o “per testimonianza identitaria”
Il pronunciamento del tribunale capitolino fornisce occasione per riflettere sui beni culturali “per riferimento” o “ per testimonianza”.
Sono beni culturali “per riferimento” ovvero “ di interesse storico indiretto”, ai sensi dell’art. 10, comma III, lett. d), d.lgs. 42/2004, quelli che, « rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere ».
Si tratta di beni che, seppure non dotati di per sé di uno spiccato valore artistico, archeologico o etnoantropologico, sono di interesse culturale essendo testimonianza di accadimenti storici, oppure di correnti artistico-letterarie, ovvero della scienza, dell’industria o della tecnica. Ciò che rileva, quindi, non è il loro intrinseco pregio artistico, archeologico o etnoantropologico, ma la loro colleganza col contesto storico o il ricordo di civiltà che essi riaccendono nella memoria della collettività.
A titolo esemplificativo, si immagini una penna stilografica priva di interesse tecnico-industriale con la quale, però abbia scritto un celeberrimo poeta, oppure ancora, un immobile sprovvisto di interesse artistico o architettonico, ma nel quale sia stato stipulato un importante armistizio.
Sono beni culturali “per testimonianza”, ai sensi dell’art. 10, comma III, lett. d) d.lgs. 42/2004, quelli che « rivestono un interesse particolarmente importante (…) quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose».
Sono tali quei beni che per l’uso che ne è stato fatto nel corso del tempo sono diventati simboli di una storia culturale. Pertanto, il loro valore culturale non è intrinseco, ma estrinseco, determinato dalla funzione ch’essi hanno svolta.
Si prenda per esempio un immobile privo di valore artistico e architettonico, però da illo tempore sede dell’amministrazione comunale o dell’attività cinematografica.
La specie dei beni culturali “per riferimento” o “per testimonianza” ricomprende oltre ai beni dall’interesse culturale solo estrinseco, anche quelli dal valore estrinseco ed intrinseco 1.
Quest’ultima ipotesi avviene quando il bene presenta delle caratteristiche strutturali, che non rilevano in sé, ma quali espressione di un movimento culturale radicato nella società in un determinato arco temporale. In tale caso la storia influenza il bene sul piano intrinseco, determinandone la struttura e sul piano estrinseco, essendone la chiave di lettura e la ragione della rilevanza culturale.
Orbene, quest’ultima ipotesi non va confusa col bene culturale per solo valore intrinseco, di cui all’art. 10, comma III, lett. a), d.lgs. 42/2004, ovverosia col bene connotato da sé da un accentuato interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico. Qui, il valore culturale è un’attitudine propria e interna del bene e non un riflesso dell’esterno. È vero che il genio dell’artista, dello scienziato o del letterato è condizionato dal periodo storico in cui vive, ma l’opera da esso realizzata ingloba tali influenze al punto da farne una circostanza marginale.
Ne consegue che la categoria dei beni culturali per solo valore intrinseco è diversa e non sovrapponibile a quella dei beni culturali “per riferimento” o “per testimonianza”.
La distinzione tra le due categorie non è mero esercizio dommatico, riflettendosi essa sul regime circolatorio quando il bene culturale sia immobile e appartenga alla pubblica amministrazione.
In particolare, il bene culturale “per riferimento” o “per testimonianza” soggiace al vincolo di inalienabilità assoluta, ai sensi dell’art. 54, comma I, lett. d-bis), d.lgs. 42/2004, pertanto esso è vendibile solamente al venire meno dell’interesse culturale.
Mentre, il bene culturale per solo valore intrinseco, appartenente al demanio culturale e non riconducibile alle ipotesi di cui all’art. 54, comma I, d.lgs. 42/2004, è alienabile con autorizzazione del Ministero, ai sensi dell’art. 55, comma I, d.lgs. 42/2004; dunque, la vendita non è subordinata alla perdita dell’interesse culturale e provoca come effetto la sdemanializzazione del bene, ai sensi dell’art. 55, comma III- quinquies, d.lgs. 42/2004, ancorché quest’ultimo continua ad essere sottoposto alle disposizioni sulla tutela di cui al Titolo I del d.lgs. 42/2004.
Non si ravvisa un diverso regime di circolazione quando la proprietà dei beni culturali è privata, in quanto sia il bene culturale per riferimento o per testimonianza, che quello per valore intrinseco possono essere alienati, salvo il diritto di prelazione a favore dello Stato, di cui all’art. 60 d.lgs. 42/2004.
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