Acqua, il referendum tradito
Autore : Redazione
foto coordinamento romano acqua pubblica
Pubblichiamo un documentato articolo di Luca Martinelli che ripercorre la storia del referendum per l’acqua pubblica, rimasto a oggi lettera morta. Anzi, secondo Martinelli, a livello governativo si assiste allo stravolgimento della legge per la ri-pubblicizzazione dell’acqua: il testo nato dalla proposta di iniziativa popolare del 2007 è stato approvato alla Camera, il 20 aprile scorso, in una versione che ne stravolge profondamente i contenuti. In calce aggiungiamo le risposte dei due candidati Sindaco Raggi e Giachetti alla domanda di Stefano Fassina: eletto sindaco, darà piena attuazione al referendum del 2011 sull’acqua mediante la costituzione di una società al 100% comunale dove collocare le attività idriche di Acea? (AMBM)
Acqua, nucleare: cosa resta dei referendum, 5 anni dopo Altreconomia 11 Giugno 2016 di Luca Martinelli
(da Eddyburg) «26 milioni di italiani hanno votato “Sì” a tre quesiti relativi ai servizi pubblici locali, tariffa dei servizi idrici e generazione di energia elettrica. Nel 2016, il Governo prepara leggi che considerano residuale la gestione pubblica, e le maggiori utility continuano ad aggregarsi».
Oltre ventisette milioni di cittadini italiani il 12 e 13 giugno del 2011 parteciparono a un referendum popolare, votando 4 quesiti. 25.935.372 dissero sì all’abrogazione di una norma volta ad obbligare le società che si occupano dei servizi pubblici locali ad affidare la gestione tramite gara a una società per azioni; 26.130.637 dissero sì a una modifica della tariffa del servizio idrico integrato, eliminando la componente “remunerazione del capitale investito”; 25.643.652 dissero sì all’abrogazione delle nuove norme che avrebbero consentito la produzione nel territorio nazionale di energia elettrica nucleare; 25.736.273, infine, dissero sì all’abrogazione della norma relativa al “legittimo impedimento” del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri a comparire in udienza penale.Tre dei quattro quesiti riguardavano, quindi, ambiente e diritti. E cinque anni dopo rispondiamo alla domanda “che cosa è successo?”.
Secondo Giulio Citroni, che insegna Scienza politica all’Università della Calabria, e da un dozzina di anni studia i processi di governance nei servizi pubblici locali, “il referendum del 2011 è stato forse in questi anni il punto di massima chiarezza e la fonte di massima stabilità normativa raggiungibile”, tanto che nel 2012 la Corte Costituzionale “emette una sentenza fondamentale, che stabilisce che i tentativi di reintrodurre l’obbligo di gara sono anticostituzionali perché contradicono lo spirito e la lettera del referendum” (
“Dismissioni! E poi?”, Guerini e associati, 2016). Chi ha votato il 12 e 13 giugno 2011, sostiene Citroni, lo ha fatto in modo non equivoco “contro l’obbligo di privatizzazione, contro la messa a profitto della gestione dei servizi idrici”.Cinque anni dopo, non è cambiato (quasi) niente. Anzi, a livello governativo si assiste allo stravolgimento della legge per la ri-pubblicizzazione dell’acqua: il testo nato dalla proposta di iniziativa popolare del 2007 è stato approvato alla Camera, il 20 aprile scorso, in una versione che ne stravolge profondamente i contenuti (
qui la nostra analisi).
Ma non c’è solo questo: il Governo guidato da Matteo Renzi ha deciso di muoversi lungo una direzione contraria al referendum, soprattutto con i decreti attuativi della legge Madia sulla riforma della pubblica amministrazione, i cui obiettivi espliciti, riportati nella relazione di accompagnamento, sono “la riduzione della gestione pubblica ai soli casi di stretta necessità” e il “rafforzamento del ruolo dei soggetti privati”.
Negli stessi decreti attuativi, inoltre, ritorna la previsione -per i servizi a rete- di “adeguatezza della remunerazione del capitale investito” nella composizione della tariffa: è l’esatta dicitura che oltre 26 milioni di cittadini avevano abrogato nel 2011.
Il Forum italiano dei movimenti per l’acqua, tra i promotori del referendum, è così oggi impegnato nella campagna “Stop Madia”. Il nuovo Testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale, decreto legislativo attuativo dell’art. 19 della L. 124/2015 (Legge Madia), è all’esame del Consiglio di Stato e della Conferenza unificata Stato-Regioni, e verrà approvato in via definitiva -con tutta probabilità- entro la fine del mese di giugno.
Sullo sfondo, continuano i processi di aggregazione, che vedono protagoniste le società quotate in Borsa (la lombarda A2a, la emiliano-romagnola HERA, la ligure-piemontese IREN, la laziale ACEA): a inizio luglio, però, l’Autorità garante per la concorrenza e il mercato dirà la sua sulla sostanzialmente fusione tra le multi-utilities A2a e LGH Group (società attiva nel lodigiano, nel cremonese e nel bresciano). La prima -di cui sono azionisti i Comuni di Milano e Brescia- potrebbe assumere una “posizione dominante”. La valutazione dell’Antitrust potrà offrire spunti importanti.
Solo a Napoli, con l’esperienza di ABC, e la trasformazione di ARIN spa in soggetto di diritti pubblico, si è pienamente realizzato ciò che la volontà popolare aveva espresso nel 2011, ovvero -prendendo in prestito l’interpretazione della Corte Costituzionale- “rendere estraneo alle logiche del profitto il governo e la gestione dell’acqua” (qui la storia di ABC Napoli, da Ae 172).
E qualcosa ha da insegnarci anche la vicenda romana, con le elezioni amministrative in corso: il Movimento 5 stelle ha paventato la possibilità di sostituire il management di ACEA, di cui il Campidoglio controlla il 51%; alcune società di analisti, però, sottolineano che un nuovo indirizzo alla politica industriale dell’azienda, prerogativa dell’azionista, potrebbe rappresentare un potenziale “pericolo” per gli altri azionisti, specie se questi interventi inseriscono in agenda temi come un aumento degli investimenti e una riduzione degli utili.
Nucleare, un risparmio di almeno 20 miliardi di euro
Cinque anni fa, ENEL aveva già individuato i siti in cui costruire quattro nuovi impianti nucleari, dal costo iniziale stimato di almeno 4,5 miliardi di euro: avrebbero dovuto consentire la generazione del 25% dell’energia elettrica prodotta ogni anno nel nostro Paese. Cantieri aperti nel 2013, si scriveva.
La vittoria dei “Sì” nel referendum, ha bloccato ogni investimento. E per fortuna, perché nel frattempo il mercato elettrico ha cambiato pelle. Basti pensare che le 4 nuove centrali nucleari avrebbero avuto una capacità complessiva di 6.400 Mw, mentre tra il 2013 e il 2014 le aziende proprietarie di centrali termoelettriche alimentate da carbone e gas naturale hanno chiesto la messa fuori esercizio, ovvero il distacco dalla rete, di una dozzina di impianti per una potenza complessiva di 7.788 Mw.
Anche ENEL -azienda quotata in Borsa, ma partecipata dallo Stato- si adattando al nuovo mercato elettrico: tra il 2015 e i primi mesi del 2016 ha diretto al ministero dello Sviluppo economico una richiesta di “messa fuori servizio esercizio” di 5 impianti, per una potenzia installata pari a 1.550 Mw, quasi quanto una centrale nucleare.
Che cosa è successo, nel frattempo? Nel 2009, l’anno in cui il governo iniziò a parlare di un ritorno al nucleare, il 74,8% dell’energia elettrica prodotta in Italia arriva da fonti non rinnovabili (gas naturale e carbone, su tutte); nel 2011, l’anno del referendum, la percentuale era scesa al 71,9%. Nel 2014 (ultimo dato aggregato disponibile), questa percentuale è scesa al 56,2%. A crescere sono state le fonti rinnovabili: +231,9% per l’eolico, +3294,6% per il fotovoltaico.
Nel 2008, inoltre, si stimava che tra il 2005 e il 2020 i consumi elettrici nel nostro Paese potessero crescere del 36,5%, fino a 423 Twh/anno. In realtà, i consumi sono cresciuti solo fino al 2007, e da allora sono scesi in termini assoluti del 10 per cento circa.
La domanda di Stefano Fassina: Eletto sindaco, confermerà l’attuale assetto proprietario di Ama, Atac, Acea, Farmacap e Assicurazioni di Roma e darà piena attuazione al referendum del 2011 sull’acqua mediante la costituzione di una società al 100% comunale dove collocare le attività idriche di Acea?
RAGGI Di Acea posso dire francamente che difenderò strenuamente il 51% pubblico. Riguardo al management si vedrà l’operato e si faranno le opportune valutazioni, sicuramente daremo attuazione al referendum del 2011. È evidente che a fronte degli annunci di privatizzazioni selvagge scanditi dal Pd, il MoVimento 5 Stelle non solo in campagna elettorale ma fin dalla sua nascita si è sempre espresso per preservare il bene pubblico: Ama, Atac e qualsiasi altra azienda che svolge servizi pubblici per noi deve restare in controllo pubblico, affiancando un lavoro di vigilanza affrinchè l’erogazione dei servizi risulti migliorare qualitativamente nel tempo.
GIACHETTI Non abbiamo in programma di intervenire sull’assetto proprietario di natura pubblica di Acea, Ama e Atac. Per quanto riguarda Assicurazioni di Roma e Farmacap, valuteremo. Riguardo queste due, terrò conto dei risultati incoraggianti degli ultimi mesi, tuttavia, è impensabile che aziende non strategiche con le loro perdite consumino risorse che potremmo utilizzare meglio altrove.
Vorrei, però, aggiungere qualche altra considerazione, vista l’importanza del tema. La questione delle partecipate romane è emblematica della trasformazione che ha avuto l’istituto. Società nate con una missione ne perseguono altre; realtà pensate per 30 dipendenti ne hanno, oggi, centinaia. Bisogna intervenire con linee chiare: quelle già individuate nel Piano di Rientro e quelle di un quadro nazionale che indica chiaramente la strada della semplificazione, della razionalizzazione, dello snellimento, della dismissione delle società partecipate che non hanno finalità strategiche per l’ente.
Questi obiettivi vanno perseguiti con azioni chiare: individuando in maniera trasparente manager competenti e dando loro pieno ambito di azione; prevedendo che l’assessore al bilancio si occupi in maniera esplicita di spending review; promuovendo una razionalizzazione del “Gruppo Comune di Roma” per evitare duplicazioni e sovrapposizioni tra le diverse società. Complessivamente, limitando l’intervento ai settori strategici per il comune – utilities, rifiuti, trasporti, turismo/cultura, patrimonio – si possono immaginare non più di 5 grandi società partecipate, generando contraccolpi non sui livelli occupazionali delle società dismesse o accorpate, ma sui privilegi e gli interessi particolari che attorno ad esse si sono costituiti a danno dei cittadini. La vendita delle società non strategiche genera guadagni o quantomeno riduzione di sprechi, con risparmi da destinare direttamente ai cittadini. Si può e si deve vendere ai privati, quindi, ovviamente adottando procedure competitive che garantiscano guadagni maggiori per le casse comunali, ma inserendo presidi di controllo efficaci che rendano migliori i servizi resi ai cittadini.
Quanto alla concessione per la gestione delle risorse idriche ad Acea, questa scade nel 2032. Decidere di modificare lo status quo prima di questa scadenza costerebbe miliardi di euro. Non credo i romani siano disposti a distrarre risorse dalle politiche sociali per coprire i costi di questa iniziativa.