Il tempo stringe. Se la proposta Calderoli – quella che, da “legge di attuazione”, dopo il vertice di Governo è stata degradata ad “appunti” – dovesse essere portata in Consiglio dei ministri entro la metà di dicembre, come Calderoli stesso ha affermato, la sua tabella di marcia (concludere l’iter dell’autonomia differenziata entro un anno) potrebbe non subire ritardi. Esistono alcune incognite. Anzitutto la necessità di un percorso parallelo con il presidenzialismo , fortissimamente voluto da Fratelli d’Italia, che per certi versi ne rappresenta il complemento. E, poi, il comportamento delle forze di opposizione. Soprattutto del PD, ora in grande difficoltà, dopo essere stato fino a ieri sostenitore del regionalismo differenziato, in particolare con Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia Romagna (una delle tre regioni che hanno già stipulato pre-intese) e candidato alla segreteria del partito. Letta ha affermato all’assemblea del Partito di sabato 19 novembre, in cui si è stabilità la data delle primarie: «Sono passate poche settimane e già viene presentato il grande pasticcio istituzionale che la destra vuole rifilare al paese, la somma di autonomia differenziata e presidenzialismo […]. Noi non consentiremo, lo dico da subito. Siamo fortemente contrari a questo tentativo di stravolgere la Costituzione, di modificarla e di renderla ingestibile». Non una parola di autocritica, ma siamo abituati ai funambolici cambi di posizionamento spacciati come pensiero autentico e originario: è da capire come i sedicenti difensori della Costituzione faranno i conti con le proprie contraddizioni. E c’è il M5S, che nel corso della passata legislatura ha tenuto un profilo basso sul tema (salvo aver appoggiato nel 2017 i referendum consultivi di Veneto e Lombardia e aver consentito l’inserimento dell’autonomia differenziata al punto 20 del “contratto” alla base del Governo giallo-verde), ma che ora, forte dell’importante risultato elettorale al Sud e di una innegabile virata degli equilibri politici interni, sta ridefinendo la propria identità come forza interprete della sofferenza sociale: in quest’ottica, come molti auspicano, il M5S non potrà che battersi contro l’autonomia differenziata; lo dimostra anche il question time alla Camera del 23 novembre con l’interrogazione dei deputati Caso e Sportiello. Ci sono infine De Luca e Emiliano, presidenti di due importanti regioni del Sud che finalmente, dopo averne accarezzata l’ipotesi in salsa locale, tuonano a gran voce contro l’autonomia differenziata.
I “Comitati per il ritiro di ogni autonomia differenziata, l’unità della Repubblica, l’uguaglianza dei diritti” lavorano da quattro anni per contrastare questo progetto eversivo. I sedicenti “governatori” di Emilia Romagna, Veneto e Lombardia rivendicano l’autonomia differenziata come concretizzazione di quanto previsto in Costituzione con la riforma del Titolo V, quella che il compianto Gianni Ferrara definì «un monumento di insipienza giuridica e politica». Con altre e altri abbiamo da tempo lanciato l’allarme su questa emergenza democratica, nel silenzio complice dei media e nella letargia di tanti che hanno sottovalutato il problema. Rivendichiamo il ritiro di qualunque autonomia differenziata in nome dei principi fondamentali della Carta, in particolare gli articoli 2, 3 e 5. Esiste forse un modo di esigere solo in parte il dettato costituzionale e i principi su cui esso si fonda? Si può pensare che tali principi possano essere esigibili parzialmente? Si può arrivare a un punto di mediazione, ritenendo che alcune materie possano essere disponibili per le rapaci mire dei poteri regionali e altre no, alterando così – in ogni modo e comunque – l’unità della Repubblica e l’uguaglianza dei diritti? Secondo noi, no. Il comma 3 dell’art 116 della Costituzione (revisionata nel 2001) prevede che le regioni a statuto ordinario possano chiedere potestà legislativa esclusiva fino a ben 23 materie, tra cui scuola, sanità, infrastrutture, beni culturali, ricerca scientifica, ambiente e altre, altrettanto incisive sulla vita di cittadine e cittadini. Sarebbe forse meno grave – quand’anche si espungessero le materie più pericolose – se le regioni ottenessero potestà legislativa esclusiva su, per esempio, commercio con l’estero, rapporti internazionali e con l’UE, professioni, alimentazione, giustizia di pace (materie, tra le 23 disponibili, quasi mai citate, eppure di innegabile peso e pericolo)? Non si aprirebbe, comunque, uno spazio per profili di una cittadinanza a marce differenti, fondata non più sul patto repubblicano, ma sul certificato di residenza, tipo: dimmi dove vivi e ti dirò che diritti avrai?
All’orizzonte si profilano ormai venti “signorie” più o meno potenti, con servizi – ma anche diritti universali e garanzie – diseguali: cittadini e cittadine di serie A, B e persino Z. Come tacere davanti a una visione proprietaria e famelica, in cui nascere e vivere in una zona privilegiata sono rubricati come merito e diritto legittimo ad avere di più? Come non immaginare che dietro la realizzazione di quanto previsto dalla de-forma del Titolo V non si nasconda l’ennesimo smacco, in particolare per i cittadini e le cittadine del Sud, già indeboliti da spesa storica, da lustri e lustri di finanziamenti contingentati, da sistemi sanitari sull’orlo della dismissione, da infrastrutture che già 40 anni fa apparivano obsolete? Come non cogliere che concedere ulteriore autonomia alle regioni significa affidare maggior forza a centri di potere burocratici e politici, sede di centralismo, verticismo e lentezza? Ovvero, allontanare ulteriormente donne e uomini dalla partecipazione democratica alla vita del Paese?
L’autonomia differenziata liquida definitivamente tutto ciò che è “pubblico”,cioè finalizzato all’interesse generale, destinato a diminuire le differenze tra ricchi e poveri.Principi e diritti sociali previsti nella prima parte della Costituzione di fatto vengono annullati, aprendo praterie per allargare alla privatizzazione in ogni settore e a contratti di lavoro regionali. Ogni Regione farebbe da sé, con i propri fondi, trattenendo la maggior parte del proprio gettito fiscale. Ai Livelli essenziali di prestazione (LEP), da molti indicati come la soluzione del problema e quindi grimaldello per l’autonomia differenziata, ma che rischiano di definire servizi minimi costituzionalizzati, a cui poi le singole Regioni aggiungeranno più ricche funzioni, vanno sostituiti dei livelli uniformi di prestazione. Solo così sarà possibile evitare che chi può ce la fa, e gli altri si arrangino. Dal “prima gli italiani”, al “prima i veneti, i lombardi, gli emiliani”: triste articolazione del razzismo nostrano. Non è l’art. 3 della nostra Costituzione.
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1 Responses to Autonomia differenziata, unità della Repubblica e uguaglianza dei diritti di Marina Boscaino