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C’è voglia di comunità e di quartiere

(dal Giornale dell’Architettura 8 ottobre 2021) Crisi sanitaria e crisi climatica s’intrecciano pericolosamente e impongono scelte radicali, come sostenuto da una folta schiera di scienziati ai quali fanno eco Greta Thunberg e i giovani di Friday for future. Ma la rivoluzione ecologica non potrà realizzarsi se, alle misure che dovranno essere prese dall’alto, dai governi e dalle industrie, non si accompagneranno misure prese dal basso su iniziativa di comunità consapevoli e attive.

“Comunità” oggi e… ieri

“Comunità” è un termine che affiora con sempre maggiore frequenza nel dibattito pubblico: nel mondo della scuola si formano “comunità educanti”; crescono le esperienze di community organizing per dare voce e rappresentanza alle istanze civiche che emergono dal territorio; il PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza) finanzia la realizzazione di 1228 “Case della Comunità”, strutture sanitarie decentrate, tanto invocate nel corso della pandemia, che avranno il compito d’integrare la cura e la prevenzione, gli specialismi tecnici della scienza medica con il mutualismo sociale, in una visione olistica e partecipata dalla salute collettiva.

Il pensiero comunitario dominò la cultura e la pratica urbanistica del primo dopoguerra grazie all’iniziativa di Adriano Olivetti, che fondò il “Movimento di Comunità” e, in qualità di presidente delI’INU, influenzò la progettazione dei piani INA casa nei quali si cercò di creare le condizioni materiali per lo sviluppo di relazioni di tipo comunitario. Olivetti si adoperò per la realizzazione di una rete di comunità né troppo piccole né troppo grandi, né delle dimensioni di un piccolo paese né delle metropoli che atomizzano l’uomo e lo depersonalizzano.

Il pensiero di Lewis Mumford

La rivista “Comunità” diede voce a urbanisti, architetti, sociologi e storici italiani, tra i quali Bruno Zevi e Ludovico Quaroni, e statunitensi, tra i quali Lewis Mumford, il quale pubblicò sulla rivista un articolo che indicava nel quartiere l’unità di riferimento progettuale. In quegli anni pubblicò anche Il quartiere spontaneo e l’unità di vicinato in “The Town Planning Review”, nel quale fa una disamina del progettare per quartieri che sorprende per le numerose analogie con le considerazioni sulla città della prossimità (o città dei 15 minuti).

Sulle dotazioni dei servizi essenziali per la vita di quartiere, oltre a mercati e negozi locali, servizi scolastici e per il tempo libero, Mumford indica l’opportunità che lavoro e occupazione siano sviluppati localmente per la maggior parte possibile degli abitanti. Un’ipotesi che oggi possiamo tradurre in coworking. Lo studioso statunitense denuncia inoltre lo spreco di tempo ed energie o per spostamenti non necessari o per raggiungere una biblioteca, un ambulatorio o un cinema che si trovano al di fuori del proprio quartiere. Egli indica la necessità di “fissare la distanza massima dalla casa più lontana al parco o al campo da gioco, o alla scuola, stabilire che le grandi arterie di traffico debbano essere deviate tutte attorno al quartiere e non attraverso ad esso”. Quello che oggi viene conteggiato in termini temporali (15 minuti), Mumford lo definisce in termini spaziali; deviare le arterie di traffico è il tema dei superblocchi di Barcellona e delle isole ambientali.

La scuola elementare, struttura istituzionale sempre presente, deve essere munita di spazi adeguati, secondo Mumford, sia per i bambini che per gli adulti, e operare sull’arco di tutta la giornata. In Italia la “scuola aperta” è una realtà che opera da anni nella prospettiva del centro civico. A Parigi il programma dei 15 minuti investe la scuola locale del ruolo di “capitale del quartiere”, aperta tutto il giorno alla vita di comunità.

Progettare per quartieri, una necessità per la rigenerazione urbana

Ma progettare per quartieri non porta a una frammentazione difficile da ricomporre in un quadro unitario? Nessun tipo di organizzazione sociale, dalla famiglia allo Stato, è autosufficiente, sostiene Mumford. Le funzioni per le quali può essere autosufficiente riguardano le attività domestiche e quelle derivate.

Durante la pandemia, nell’ambito del proprio quartiere, è stato sperimentato il mutualismo di vicinato: sono sorte forme elementari di abitare condiviso, sperimentazioni di coworking. Se da un lato la pandemia ha aggravato disagio e isolamento delle persone svantaggiate, accentuando egoismi e solitudini, dall’altro ha fatto emergere l’interesse generale, embrioni di comunità attive e consapevoli. La globalizzazione dell’informazione e delle tecnologie digitali genera luoghi virtuali ai quali fa da contrappeso psicologico un luogo fisico ben definito, circoscritto, nel quale radicarsi e dare più valore alla vita quotidiana: il quartiere.

C’è stata, negli anni passati, la stagione dei contratti di quartiere che andrebbe rivista, rivisitate le esperienze di Urban, dei laboratori di quartiere e dei contratti di quartiere a schema libero intesi come piani strategici di sviluppo locale condivisi con gli stakeholder (si vedano alcuni esempi di contratti di quartiere a Roma).

Se nella città in espansione la progettazione per quartieri poteva essere un’opzione possibile, nella rigenerazione urbana s’impone naturalmente per iniziativa delle comunità locali, che nella maggior parte dei casi circoscrivono le loro proposte al quartiere di appartenenza.

Ci vorranno anni per la realizzazione della città della prossimità, che non potrà realizzarsi compiutamente se non ci sarà una profonda innovazione della macchina amministrativa, l’integrazione delle competenze settoriali, la capacità di lavorare per obiettivi, l’inserimento e la formazione di personale specializzato nella comunicazione e coprogettazione con le comunità attive sul territorio. E sarebbe utile un’Università rinnovata, meno autoreferenziale, più vicina al concreto operare delle comunità e delle amministrazioni locali, che stemperi il pessimismo della ragione con l’”ottimismo della pratica”, per dirla con Franco Basaglia. (Visited 131 times, 18 visits today)

Mario Spada

Laureato in Architettura nel 1971 presso il Politecnico di Torino, membro dell’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica) ha svolto lavori in campo architettonico, in particolare nell’edilizia scolastica. E’ stato docente e coordinatore di cantieri scuola presso il CEFME (Centro Formazione Maestranze Edili di Roma). In qualità di esperto del Ministero degli Esteri ha lavorato per programmi di formazione e sviluppo in Africa. Tra il 1998 e il 2001 è stato direttore dell’USPEL (Ufficio Speciale Partecipazione e Laboratori di quartiere) del Comune di Roma, incaricato di promuovere l’urbanistica partecipata e comunicativa e l’Agenda 21 locale. Tra il 2001 e il 2007 è stato direttore della Unità Organizzativa 4 (Sviluppo locale sostenibile partecipato) del Dipartimento XIX (Sviluppo e recupero delle periferie) del Comune di Roma, incaricato di realizzare programmi innovativi nelle periferie, in particolare i contratti di quartiere. Ha coordinato dal 2011 al 2019 la Biennale dello spazio pubblico, di cui è presidente onorario.

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