Città e prossimità, a proposito della “città dei 15 minuti”
Autore : Redazione
da Urbanistica Informazioni – Rivista bimestrale dell’INU Istituto Nazionale di Urbanistica – Anno XLVIII Luglio-Agosto Settembre-Ottobre 2021
di Mario Spada
Il progetto“città dei 15 minuti” presentato nel 2020 dalla Sindaca di Parigi Hidalgo e ideato da Carlos Moreno docente della Sorbona ha fatto breccia in altre città e nei programmi elettorali di alcuni Sindaci . E’ una promessa, un impegno a realizzare un programma radicale di rigenerazione urbana incentrato sula qualità della vita quotidiana e sulla sostenibilità ambientale. La Sindaca non nasconde le difficoltà e dichiara che il progetto potrà compiersi nell’arco dei prossimi 20 anni . Per intanto moltiplica le piste ciclabili, piantuma nuovi alberi, promuove la centralità delle scuole per diffondere stili di vita sostenibili. Il cambiamento climatico non solo paventato dagli scienziati ma personalmente vissuto da tutti per la frequenza di fenomeni straordinari come aumento delle temperature, uragani, inondazioni hanno contribuito a modificare sensibilmente il sentire comune fondato sul dominio incontrastato dell’automobile e su un modello di sviluppo in continua crescita. Anche i lunghi lockdown nel corso della pandemia hanno generato l’idea abbastanza diffusa che la città potrebbe essere diversa , meno caotica, meno ansiogena, che si potrebbe vivere ,anche grazie agli strumenti digitali, senza correre in automobile da un capo all’altro della città per soddisfare bisogni primari, che si potrebbero costruire relazioni umane fondate sulla cooperazione e sul vicinato, che si potrebbe consegnare ai propri figli una città migliore e sostenibile.
15 minuti
E’ una promessa di città vivibile che non sempre si può ricondurre alla dimensione temporale dei 15 minuti. Altre città come Portland o Melbourne hanno costruito programmi analoghi stabilendo la soglia temporale ai 20 minuti. Ogni città ha dimensioni, funzionalità, storia di formazione che la distingue dalle altre città. Sono individuabili alcune caratteristiche comuni : le città compatte sono in buona parte dotate a scala locale di servizi primari, mentre nelle città diffuse, con aree periferiche rarefatte, raggiungere i sevizi essenziali non è possibile se non si è motorizzati. Pensiamo al caso di Roma che ha un dimensione amministrativa molto vasta e quasi un terzo del suo territorio è composto da insediamenti di origine spontanea, privi di servizi, per i quali il PRG prevede programmi di recupero che tuttavia sono difficili da realizzare in quanto comportano complesse procedure d’esproprio . Sono aggregati urbani, nella maggior parte dei casi, privi di marciapiedi per cui è preferibile e più sicuro usare l’automobile anche per brevi distanze. Un confronto tra le dimensioni amministrative di diverse città ( fg.1) è utile per capire come il parametro dei 15 minuti non è applicabile universalmente.
Roma ha una superficie di 1285 kmq e 2milioni 800 mila abitanti, dentro i suoi confini possono essere contenute 9 città medio-grandi . Basta questo raffronto per capire che a Roma al di là della città consolidata c’è una grande dispersione degli insediamenti. Bologna ha una superficie di 140 kmq, un po’ più piccola di Milano la cui superficie è di 180 kmq con la differenza che a Bologna risiedono 400mila persone mentre Milano conta 1 milione 400 mila abitanti. Parigi ha una superficie di 105 kmq e 2milioni e100 mila abitanti. Da questi dati si deduce intuitivamente che a Bologna ci sono aree periferiche abbastanza rarefatte mentre Milano e Parigi sono città molto compatte con quartieri periferici densi. Il parametro dei 15 minuti non è applicabile dovunque allo stesso modo. Si potranno individuare diverse tipologie di città alle quali applicare un comune denominatore temporale/ spaziale . Tuttavia la dizione “città in 15 minuti” non potrà rappresentare la complessità di quello che si configura come un passaggio epocale dalla città dell’automobile alla città della prossimità.
Comunità e quartiere
Per declinare la prossimità occorre mettere in relazione tre fattori: la città, il quartiere, la comunità insediata. Diversi fattori, non ultima la pandemia, hanno contribuito a fa emergere ne dibattito pubblico degli ultimi anni la parola “ Comunità” che storicamente è propria della cultura cristiana ma ha ispirato anche la cultura laica impegnata socialmente . Un fautore delle Comunità solidali e attive fu Adriano Olivetti che fondò negli anni 50 il “Movimento di Comunità”. Dopo una guerra disastrosa come ricostruire materialmente e idealmente il paese? Non assecondando, secondo Olivetti, un capitalismo aggressivo che genera egoismo e alienazione né affidandosi allo statalismo grigio e oppressivo del socialismo reale. In un documento interno al movimento di comunità del 1956 descrive in modo efficace la sua idea di Comunità: Noi siamo fermamente convinti che una civiltà sia solo possibile in piccole unità territoriali. La soluzione di certi problemi urgenti che nessuno strumento scientifico potrà misurare rimarrà sempre affidata all’intuizione intelligente e sensibile di u consiglio di uomini che una comunità pensosa e vigile avrà posto al loro governo. Perché attraverso nessun mezzo scientifico si potrebbe decidere se è meglio costruire una scuola o una fabbrica, un teatro o un ricovero per vecchi, se una casa vecchia e malsana deve essere distrutta o, con lo stesso prezzo, si debbano comprare dei pacchi-viveri per una popolazione sofferente.
Nel corso degli ultimi anni il concetto di comunità si è affermato anche a causa dell’indebolimento dei corpi intermedi. La riduzione progressiva di rappresentatività di partiti e organizzazioni sindacali è compensata da diverse forme dirette di rappresentanza sociale come comitati di quartiere, associazioni culturali, organizzazioni non governative, imprese sociali del terzo settore. Molte di queste organizzazioni si autodefiniscono comunitarie per ribadire unità d’intenti e specificità dell’obiettivo .
“Comunità Resilienti” è un progetto ospitato nel padiglione Italia della Biennale di Architettura di Venezia 2021 che ha focalizzato il tema del cambiamento climatico .
“Comunità energetiche “[1] è un progetto di gestione comunitaria delle risorse energetiche locali con l’obiettivo di promuovere l’autoconsumo e lo scambio interno di energia prodotta in loco a partire da fonti rinnovabili.
Le “Comunità educanti” hanno animato il mondo della scuola negli ultimi anni con la “scuola aperta”, e hanno orientato il piano scuola 2020-21 che presenta, nei documenti del Ministero dell’Istruzione, “ i patti educativi di comunità”.
E’ apparsa sul territorio nazionale la figura del community organizer organizzatore di istanze civiche secondo un modello importato dagli Stati Uniti. Vede protagonisti molti giovani per lo più delusi dalla politica e dalle organizzazioni sindacali. Le iniziative vanno dalla collaborazione a progetti a carattere strategico come i “contratti di fiume” al progetto romano periphery organizing che ha lo scopo di rendere i ragazzi protagonisti del contrasto alla povertà educativa.
Le “Case della Comunità’” sono 1288 strutture sanitarie decentrate previste dal PNRR . Tanto invocate nel corso della pandemia avranno il compito di integrare la cura e la prevenzione, gli specialismi tecnici della scienza medica con il mutualismo sociale, in una visione olistica e partecipata dalla Salute collettiva . [2]
A seguito della pandemia si sono costituiti numerosi “presìdi di comunità” nel Sud Italia. A Castelbuono, comune di 8 mila abitanti in provincia di Palermo, si è costituita l’associazione “South coworking “che ha mappato 230 presidi di comunità creati da una parte di quelle 100 mila persone, secondo i dati Svimez ,che sono tornate nel Sud per affrontare la pandemia da remoto. Spazi di coworking con il sostegno delle Amministrazioni Comunali che generalmente mettono a disposizione edifici pubblici sottoutilizzati: gli spazi sono concepiti non solo come spazi di lavoro ma come luoghi di attivazione di competenze e risorse a favore dello sviluppo locale.
Mentre quelle precedenti si possono definire “ comunità di scopo” i presìdi registrati da South Working si possono definire anche “comunità di luogo” in quanto si occupano di progetti innovativi che scaturiscono da problemi, risorse e opportunità del luogo . A livello urbano le “comunità di luogo” si riconoscono entro uno spazio definito che di norma è il quartiere di appartenenza. L’istituzione di “Case del quartiere”, “scuole di quartiere”,” laboratori di quartiere” segna la formazione di “comunità di luogo” per le quali il quartiere si configura come Comunità di apprendimento[3].
Già nel dopoguerra architetti e urbanisti si erano posti il compito di coniugare comunità e quartiere, in particolare il gruppo di esperti di varie discipline riuniti da Adriano Olivetti in qualità non solo di fondatore del “Movimento di Comunità” ma anche come Presidente dell’INU. Tra questi c’era lo storico dell’Architettura Lewis Mumford il quale nella rivista “Comunità” indica nel quartiere l’unità di riferimento progettuale. Nell’ articolo “il quartiere spontaneo e l’unità di vicinato”[4] pubblicato nel 1954 su “the Town planning Review” fa una disamina del progettare per quartieri che contiene un insieme di considerazioni di straordinaria attualità sulla dotazione dei servizi di quartiere , sul rapporto tra mobilità pedonale e veicolare, sulle distanze compatibili ( fissare la distanza massima dalla casa più lontana al parco o al campo da gioco). E il ruolo della comunità? Come opera, dove si riunisce? La “scuola aperta” è una prerogativa fondamentale nei progetti di prossimità, in varie forme è attiva da anni in gran parte del territorio nazionale . Anche per Mumford la scuola primaria dev’essere aperta alla comunità per tutta la giornata : in primo luogo il riconoscere la necessità di un edificio a fungere da luogo di ritrovo comunitario; secondo, conseguentemente, che la scuola elementare, struttura istituzionale sempre presente, dovesse essere munita anche di spazi adeguati, sia per i bambini che per gli adulti, e operare sull’arco di tutta la giornata.
La lettura integrale dell’articolo è molto istruttiva e invita ad approfondire le esperienze del passato che hanno attinenza con il tema della prossimità .
Progettare la prossimità Il progetto di prossimità ha l’obiettivo di assicurare ai cittadini servizi legati a istruzione, cultura, sanità, ambiente, commercio, tempo libero, che siano facilmente accessibili e raggiungibili a piedi o in bicicletta in un breve arco temporale. Non è un progetto ma un processo, un’operazione dinamica che richiede un costante aggiornamento sia delle informazioni fornite dai dati territoriali (GIS) sia di quelle che provengono dal territorio in forma di istanze, proposte, conflitti, iniziative di coprogettazione con stakeholder, cittadini, , scuole, imprese università . Non tutti i Comuni medio grandi sono dotati o possono accedere a un sistema di dati territoriali integrati. In una ricerca/azione promossa nell’ambito della Biennale dello spazio pubblico (prove di prossimità) [5] che ha messo a confronto le città di Bologna e Roma è emerso che Bologna è dotata di un data System che consente un’analisi comparata a scala urbana dei servizi esistenti
Mentre la mappatura di alcuni quartieri a Roma è stata meno facile perché l’Amministrazione è dotata di sistemi informativi settoriali non sufficientemente coordinati.
Il Comune di Milano ha mappato il territorio individuando 88 Nuclei di Identità Locale (NIL)[6] che corrispondono ai quartieri .
Per ogni quartiere il sistema informativo fornisce dati sulla dotazione dei servizi ,la mobilità, le trasformazioni fisiche in base ai progetti in corso e programmati. ( foto)
L’individuazione di nuclei di identità locale/ quartieri è un passaggio necessario per la formazione delle “comunità di luogo” . Le mappe ricavate dai GIS si limitano di norma ai dati strettamente tecnici riferiti alle condizioni fisiche del luogo .Devono pertanto essere integrate da informazioni che solo in parte possono essere rappresentati con dati oggettivi. E’ necessaria una lettura della complessità , un confronto interdisciplinare, una visione olistica che faccia tesoro delle conoscenze della comunità locale .
A Milano le mappe del NIL dovrebbero essere periodicamente aggiornate in base a quanto previsto dalla direttiva che istituisce il servizio. Secondo una tesi di laurea deI Dipartimento di Sociologia della Bicocca [7] non sono stati effettuati gli incontri di ascolto della popolazione previsti dalla direttiva. Inoltre la tesi sostiene che i saperi tecnici coinvolti riguardano solo gli aspetti spaziali, che gli aspetti qualitativi non possono essere rappresentati dai numeri ai quali viene assegnato un carattere ed un potere normativo con il quale vengono prese decisioni che vanno ad influenzare la vita della comunità . L’analisi top down deve integrarsi con le conoscenze bottom up , l’interdisciplinarietà è una condizione irrinunciabile.
Le “comunità di luogo” si formano dal basso e le Amministrazioni dovrebbero indicare una prospettiva strategica che leghi gli abitanti al quartiere. La partecipazione in una prospettiva strategica non è più una benevola concessione di chi detiene il potere, consente di superare l’atteggiamento prevalente dei cittadini di tipo rivendicativo/oppositivo, diventa modello organizzativo della Governance che genera autoapprendimento nella misura in cui mette ciascuno a conoscenza delle ragioni dell’altro, favorisce inclusione e coesione sociale. Tra le sperimentazioni di pianificazione strategica locale siamo in grado di documentare quella che fu condotta a Roma nel 2002 con quattro contratti di quartiere finanziati dalla Regione Lazio [8] .
Ogni comunità di quartiere dovrebbe essere messa nelle condizioni di co-progettare con l’Amministrazione un Piano d’Azione Locale ( PAL) che indichi azioni di breve, medio e lungo periodo ponendo come obiettivo finale la conclusione del processo di trasformazione del quartiere . Un processo nel quale le scuole aperte al territorio siano centri promotori di iniziative sostenibili, collaborative e inclusive. Le Amministrazioni locali dovrebbero essere messe in grado di dotarsi della strumentazione necessaria, istituire laboratori di quartiere, far entrare nuove figure professionali per le attività di data system e di coprogettazione con i cittadini, superare la rigida divisione per competenze dell’apparato, promuovere l’interdisciplinarietà. Sarà un processo di trasformazione sostenibile del territorio e insieme di innovazione della macchina amministrativa.
(*) Mario SpadaLaureato in Architettura nel 1971 presso il Politecnico di Torino, membro dell’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica) ha svolto lavori in campo architettonico, in particolare nell’edilizia scolastica. E’ stato docente e coordinatore di cantieri scuola presso il CEFME (Centro Formazione Maestranze Edili di Roma). In qualità di esperto del Ministero degli Esteri ha lavorato per programmi di formazione e sviluppo in Africa. Tra il 1998 e il 2001 è stato direttore dell’USPEL (Ufficio Speciale Partecipazione e Laboratori di quartiere) del Comune di Roma, incaricato di promuovere l’urbanistica partecipata e comunicativa e l’Agenda 21 locale. Tra il 2001 e il 2007 è stato direttore della Unità Organizzativa 4 (Sviluppo locale sostenibile partecipato) del Dipartimento XIX (Sviluppo e recupero delle periferie) del Comune di Roma, incaricato di realizzare programmi innovativi nelle periferie, in particolare i contratti di quartiere. Ha coordinato dal 2011 al 2019 la Biennale dello spazio pubblico, di cui è presidente onorario.
[3] “i quartieri come learning community” Documento programmatico del Comune di Reggio Emilia a cura di AICCON (Associazione Italiana per la promozione della Cultura della Cooperazione e del Non Profit- febbraio 2021)
[7] Dispositivi di programmazione territoriale. I Nuclei di Identità Locale nel Piano di Governo del Territorio della città di Milano- Relatore: Prof.ssa Ota De Leonardis Correlatore: Prof. Simone Tosi. Tesi di Laurea di:Giacomo Betti