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Perchè NO Alfabeto dell’autonomia differenziata: Francesco Pallante

Perchè NO Alfabeto dell’autonomia differenziata: Francesco Pallante – docente di diritto costituzionale all’università di Torino autore del libro “Spezzare l’Italia. Le regioni come minaccia per l’unità del paese”, Einaudi, Torino 2024 – 15 aprile 2024

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Anna Maria Bianchi Possiamo cominciare, visto che stiamo facendo un viaggio all’interno di tutte le 20 materie oggi concorrenti e 3 di esclusiva dello Stato che possono passare all’esclusiva potestà delle Regioni che ne fanno richiesta, cercando di capire quando si parla di “materie” elencate al secondo e terzo comma dell’art.117 della Costituzione, che cosa si intende. Perché in molti casi, come spiega nel suo libro, si tratta di pure espressioni verbali.

Francesco Pallante Sì effettivamente è un modo un po’ semplificato di porre la questione, perché ogni materia si articola in molte funzioni diverse. E quali funzioni effettivamente saranno attribuite alle Regioni e quali rimarranno allo Stato è decisivo. Per avere un’idea più chiara, lo stesso Ministero per gli Affari Regionali sotto la guida del ministro attualmente in carica, cioè Roberto Calderoli, il principale fautore dell’autonomia differenziata, in un documento che avrebbe dovuto rimanere interno ma che è trapelato e dunque è diventato pubblico, ha calcolato che le funzioni riconducibili alle famose ventitré materie sono poco meno di cinquecento. Un numero davvero rilevantissimo.

Che cosa significa più nel dettaglio? Significa che non basta dire, per esempio: “la sanità”. Che cosa è riconducibile in concreto alla materia della sanità? Alla sanità possono essere ricondotte moltissime cose diverse: dalla riorganizzazione interna delle ASL alla strutturazione complessiva del servizio sanitario regionale, alla disciplina dell’attività esterna rispetto all’attività che i medici prestano presso le strutture pubbliche, alla tariffazione delle attività che svolgono i privati per conto del settore pubblico, a tutto ciò che attiene ai farmaci, alla contrattazione integrativa, che significa pagare di più gli operatori sanitari sul territorio. Insomma, non basta dire “sanità” ma bisogna andare a vedere effettivamente che cosa è richiesto nello specifico dalle singole Regioni. E quello che può essere richiesto è davvero moltissimo. Dunque, bisogna fare un lavoro più attento, che complica naturalmente anche l’acquisizione di una adeguata consapevolezza da parte dei cittadini sull’argomento, ma che è un lavoro decisivo per capire effettivamente in che misura le Regioni chiedono o possono chiedere nuove competenze. In ogni caso, è certamente una misura molto incisiva.

Oltretutto, a incrementare la delicatezza di questo argomento è il fatto che se le Regioni non chiedono tutte le stesse funzioni, il risultato sarà che lo Stato manterrà alcune funzioni, quelle non richieste, soltanto su porzioni del territorio nazionale. Quindi una stessa funzione in alcune Regioni la eserciterà la Regione, in altre Regioni le eserciterà lo Stato, con la conseguenza che non avremo quello smantellamento delle strutture statali a favore delle strutture regionali che viene propagandato dai fautori dell’autonomia differenziata. In realtà avremo una duplicazione di strutture. C’è uno studio molto attento dell’Ufficio parlamentare di bilancio che dimostra come tutto ciò produrrà una moltiplicazione delle strutture e quindi un inevitabile aumento dei costi.

Pietro Spirito Con il tuo libro “Spezzare l’Italia”, che consiglio vivamente perché è  una preziosa guida alle tematiche   della autonomia differenza, hai compiuto  un’operazione simmetrica a quella di Gianfranco Viesti con “La secessione dei ricchi”, perché da giurista hai affrontato una tematica economica, quella della dinamica fiscale dentro il processo di autonomia differenziata. Tutto il tema sta attorno all’incognita, che non è chiarita dalla legge Calderoli, sul destino del residuo fiscale. Quanta parte di tasse resterà nelle Regioni? Non è definita questa percentuale dalla legge quadro, ed è una furbata  non parlarne, cioè parlarne senza parlarne, perché Calderoli è bravissimo a fare questa operazione “omissiva” con un provvedimento che non entra mai nel merito, e descrive insieme la procedura pattizia futura tra Stato e Regioni. Su questo tema del residuo fiscale qual è l’idea che ti sei fatto? Quale è lo scenario più probabile che dovremo fronteggiare?

Francesco Pallante Questo è secondo me, e così lo definisco nel libro, il “motore primo” di tutta la vicenda, il fatto che alcune Regioni puntino a trattenere sul territorio – così dicono – una parte delle tasse che pagano allo Stato, il cosiddetto residuo fiscale. Io non mi avventuro nelle questioni più prettamente tributarie ed economiche perché non è il mio campo, però c’è il quadro costituzionale in materia è ben solido e definito, sia per quanto riguarda in generale il prelievo fiscale e l’organizzazione del sistema tributario, sia per quanto riguarda i rapporti finanziari tra lo Stato e le Regioni. Gli articoli della Costituzione di riferimento sono il 53 e il 119.

Ma che cos’è il residuo fiscale? Il residuo fiscale è una nozione che vorrebbe mettere a confronto quanto le Regioni pagano in tasse e quanto le Regioni ricevono in spesa pubblica. Per cui se una Regione riceve in spesa pubblica meno di quanto paga in tasse ha un residuo fiscale positivo, cioè per ottenere gli stessi servizi potrebbe pagare meno tasse, e, viceversa, se una Regione riceve in spesa pubblica più di quanto paga in tasse, allora ha un residuo fiscale negativo, cioè riceve servizi in misura maggiore rispetto a quanto paga in tasse.

Le Regioni del nord, in particolare la Lombardia e il Veneto tramite i loro presidenti, per quanto riguarda la Lombardia l’ex presidente Maroni e il presidente Fontana, per quanto riguarda il Veneto il presidente Zaia, hanno dichiarato esplicitamente che vogliono recuperare una parte consistente del residuo fiscale. Lo stesso Ministro Calderoli in un’intervista ai quotidiani di qualche mese fa ha detto che l’autonomia differenziata in questo momento è ostacolata dall’ “egoismo delle Regioni del sud” che pretendono di ricevere in spesa pubblica più di quanto paghino in tasse. Per quanto riguarda la terza Regione che ha chiesto l’autonomia, l’Emilia Romagna, il presidente Bonaccini non ha mai fatto dichiarazioni di questo tenore, però nei documenti che ha firmato, analoghi a quelli che sono stati firmati anche dal Veneto e dalla Lombardia, ci sono espliciti riferimenti al residuo fiscale, in particolare là dove si parla di risorse che devono essere parametrate al gettito tributario maturato sul territorio, che è appunto un riferimento all’idea che occorra fare riferimento a quanto le Regioni pagano in tasse.

Ora la domanda che io pongo nel libro, una domanda retorica, è questa: le Regioni pagano le tasse? Le Regioni ricevono spesa pubblica? La risposta è no. Perché sono i cittadini che pagano le tasse e sono i cittadini che ricevono servizi pubblici, il cui costo compone la spesa pubblica. Occorre allora riconoscere che dietro la retorica del residuo fiscale è all’opera un meccanismo ideologico, quello del regionalismo, e cioè l’idea che le Regioni abbiano una consistenza in sé, siano soggetti in quanto tali, cosa che ovviamente non è, perché le Regioni sono composte dai loro cittadini, che non costituiscono un popolo a se stante ma sono porzioni del popolo italiano. Noi siamo principalmente cittadini delle Regioni o siamo cittadini italiani? Qui sta al punto e qui coglie perfettamente il problema Gianfranco Viesti quando parla di “secessione dei ricchi”, perché se vogliamo considerarci cittadini delle Regioni prima che cittadini dello Stato, allora effettivamente introduciamo un discorso di tipo secessionista.

I cittadini pagano le tasse sulla base del sistema tributario improntato al principio di progressività fiscale, sempre più circoscritto, ma che comunque secondo la Costituzione è principio fondamentale. Quello che io pago in imposte è sostanzialmente analogo a quello che paga un mio collega che insegna all’università di Napoli o all’Università di Messina. Perché? Perché l’imposizione fiscale è nazionale, ed è finalizzata alla redistribuzione della ricchezza. La redistribuzione opera a livello nazionale tramite il principio per cui chi guadagna di più paga in percentuale una quota maggiore del proprio reddito rispetto a chi guadagna di meno. Questa è la progressività fiscale. Dunque c’è l’articolo 53, ma sullo sfondo c’è l’articolo 2 della Costituzione, principio fondamentale che prevede il dovere di solidarietà economica tra connazionali. Se io dico che questo principio vale soltanto nella Regione Lombardia o nella Regione Piemonte, dove vivo io, e il mio dovere di solidarietà si riduce a valere solo nei confronti dei miei corregionali, e quindi mi disinteresso di quello che succede in Sardegna o nelle Marche, allora è chiaro che io cambio il modo di intendere la mia partecipazione alla collettività cui appartengo. Ma allora potrei chiedermi: perché mai io che vivo nella provincia di Torino dovrei essere solidale con quelli che vivono nella provincia di Asti? Oppure perché mai io che vivo nella città di Torino dovrei essere solidale con quelli che vivono nel comune di Moncalieri, che è un altro comune della provincia di Torino? Ma potrei dire che posso essere solidale con i miei vicini che vivono nel mio quartiere, non con quelli di un quartiere più povero del mio della città. Potrei arrivare alle vie dentro il mio quartiere, potrei arrivare ai palazzi, ai condomini. E dentro i condomini potrei arrivare i pianerottoli cioè alla fine al singolo individuo. Questo è un criterio intrinsecamente distruttivo di ogni relazione sociale. È un criterio di individualismo assoluto, distruttivo di socialità.

La stessa cosa vale per la spesa pubblica. Perché, di nuovo, le Regioni non ricevono spesa pubblica. Sono i cittadini che ricevono servizi pubblici e i servizi tendenzialmente li ricevono sulla base delle loro condizioni personali, che non hanno a che vedere con il territorio in cui risiedono, ma col fatto che siano sani o malati, siano anziani o giovani, siano più o meno indigenti, più o meno benestanti e via dicendo. Dunque, è chiaro che dare rilievo alla residenza significa davvero introdurre un principio di secessione.

Pietro Spirito Appropriarsi del residuo fiscale positivo potrebbe generare in realtà, più che la secessione dei ricchi, la guerra tra poveri, perché, se i poveri del mezzogiorno sono un  blocco territoriale più o meno omogeneo, occorre tenere in conto anche  i poveri delle aree interne del nord. Lo scenario della autonomia differenziata  comporterà fortissime tensioni sociali. Soprattutto dopo una fase lunga di crescenti diseguaglianze nel Paese. Siamo giunti all’attuale passaggio dopo una fase lunga di crisi economiche:  dalla crisi fiscale del 2007-2008, alla  crisi dei debiti sovrani nel 2013 fino alla recente pandemia. Questo duro percorso ha peggiorato il clima sociale, ed ora arriviamo alla mazzata finale, che è l’autonomia differenziata. Cioè homo omini lupus,  una sorta di coda del neo neoliberismo.  Dopo una lunga stagione nella quale il neoliberismo ha dimostrato tutto il suo fallimento, in un qualche modo torna di attualità attraverso l’egoismo dei territori.

Francesco Pallante Sì, questo è quello che intendevo, dicendo che si arriva all’individualizzazione assoluta e quindi alla distruzione della società, che è un vecchio disegno. Quando Margaret Thatcher diceva che la società non esiste, esistono solo gli individui, ragionava secondo uno schema culturale di questo tipo. Quindi secondo me sì, la critica – l’attacco forse si dovrebbe dire – che il pensiero neoliberista conduce nei confronti dello Stato ha qualche cosa di molto simile all’attacco nei confronti dello Stato che viene condotto dall’ideologia regionalista.

Ed effettivamente non è un caso che in un contesto in cui si dice che domina, o comunque è preponderante un pensiero unico neoliberista, l’unica altra ideologia che si sia fatta spazio a fianco di quella neoliberista effettivamente è quella che pone al centro le Regioni, perché ha una matrice molto simile. Però è verissimo che, al loro interno, le Regioni hanno tante realtà differenziate. Ci sono aree più povere anche all’interno delle Regioni più ricche. Questo è un grande tema: in alcune delle Regioni del nord c’è la più grande differenza di ricchezza tra province confinanti, tra la provincia di Milano e la provincia di Pavia c’è un divario che in termini relativi è maggiore a quello che c’è tra qualunque altra provincia interna di altre Regioni.

Tutto questo crea e creerà gravi squilibri all’interno di queste Regioni. Infatti il ragionamento che proponevo prima andava proprio in questa direzione, vale a dire che se noi rinneghiamo l’idea della solidarietà, lo scivolamento verso il conflitto interno anche alle Regioni sarà inevitabile. Le stesse Regioni del nord rischiano di pagare le ripercussioni delle tensioni sociali a cui facevi riferimento prima.

Anna Maria Bianchi Io vorrei tornare a uno dei primi capitoli del suo libro, che collega l’attuale punto d’arrivo dell’autonomia regionale differenziata a una data: il 5 febbraio 1994, quando sale sul palco della Lega Nord Gianfranco Miglio, l’ideologo del primo periodo. Leggendo il suo discorso è impressionante vedere come siano già presenti due aspetti che sono poi esplosi e oggi sono addirittura arrivati in Parlamento. Uno è l’attacco allo Stato, con la contrapposizione delle Regioni “virtuose” del nord rispetto allo Stato individuato nella “Roma ladrona”, l’altro è l’attacco al Parlamento, con la visione di un accentramento di poteri come quelli che potrebbero essere attribuiti ai Presidenti di Regione con l’autonomia ma anche con l’elezione diretta del Presidente del consiglio, riforma che sta seguendo un iter parlamentare in parallelo all’autonomia regionale differenziata

Francesco Pallante Gianfranco Miglio è uno studioso importante, non solo sul tema del regionalismo. Effettivamente è uno studioso che ha una connotazione “ambivalente”: da un lato ha condotto studi molto sofisticati, si è occupato di temi di grande rilievo con acume particolare; dall’altro ha una militanza politica che tocca in alcuni momenti dei livelli di grevità davvero impressionanti, perché anticipa un modo di fare politica che di lì in poi prenderà piede che non ci si aspetterebbe da uno studioso del suo livello.

Miglio fa il discorso a cui ti riferivi a Bologna il 5 febbraio 1994, la data in cui la Lega Nord fa il suo secondo congresso nazionale: il primo era stato un congresso per riunire le diverse leghe esistenti nelle varie Regioni del Nord, questo secondo congresso è invece quello che apre all’alleanza con Berlusconi e trasforma la Lega in uno degli attori politici nazionali di primario rilievo. E Gianfranco Miglio, quando prende la parola, propone in maniera molto netta un tipo di retorica che vediamo all’opera ancora oggi. Una retorica fortemente anti meridionalista, una retorica in cui anche le metafore che utilizza sono, a mio parere, davvero disturbanti. Parla di “parassiti”, dice che ogni animale viene ucciso dai parassiti quando il loro numero supera una certa soglia. I parassiti di Miglio sono chiaramente i meridionali, l’animale è l’Italia, e questi parassiti meridionali succhiano appunto il sangue produttivo del Nord, a loro beneficio, senza fare nulla per la collettività nazionale. Dunque vanno eliminati, perché altrimenti uccideranno l’animale. È un linguaggio che per certi versi ricorda quello che i nazisti usavano nei confronti degli ebrei, davvero urticante.

La cosa interessante è che nella sua riflessione Miglio mette subito, già in quell’occasione, al centro del discorso il fatto che, come lui dice, al sud vogliono i soldi del nord. Il problema è difendere i soldi del nord, lo dice in maniera molto esplicita, il che dimostra come il tema del residuo fiscale sia sul tavolo da sempre.

A queste posizioni Miglio accompagna un’attività scientifica più controllata, più accorta, più sofisticata e, insieme ad altri suoi colleghi, propone una serie di riforme costituzionali molto incisive, da realizzarsi in maniera piuttosto sbrigativa, per togliere centralità al Parlamento e dare centralità al governo. Miglio pensa a uno Stato in cui non si perda tempo nel dibattito parlamentare e nel contempo a Regioni forti. Lui non è per le 20 regioni attuali, vorrebbe tre macro Regioni – la Padania, l’Etruria e la Mediterranea – perché ritiene che sia comunque necessaria una presa forte sulla società da parte dell’autorità pubblica, contro il rischio di proteste e dissensi, ma nel contempo bisogna evitare che lo Stato prenda il sopravvento sui territori. Ci vogliono dunque poteri forti, sia a livello statale sia a livello regionale, perché altrimenti le Regioni non riusciranno a contrastare lo Stato. Di qui deriva l’idea che gli esecutivi debbano essere al centro dei sistemi istituzionali e che negli esecutivi il ruolo predominante debba essere affidato al capo dell’esecutivo. È un’idea che Miglio espone e argomenta dal punto di vista scientifico in maniera molto convinta: arriva a dire che bisogna aggirare l’articolo 138 della Costituzione, che è quello che disciplina la revisione costituzionale, e introdurre delle procedure speciali di modifica della Costituzione, perché il Parlamento potrebbe non essere disponibile a vedersi così marginalizzato e quindi ad approvare una riforma di questo tipo e dunque bisogna trovare il modo di imporgliela.

In questo senso Miglio è anche un po’ sbrigativo dal punto di vista del rispetto delle procedure costituzionali. Per lui l’importante è il risultato e, effettivamente, è quanto poi accaduto negli anni successivi. Oggi abbiamo ristrutturato la forma di governo regionale in senso “iper presidenzialista”, per cui il presidente della Regione è l’unico che conta veramente e può tutto: non conta niente la Giunta, non conta niente il Consiglio regionale, non conta niente neanche la maggioranza dentro il consiglio regionale, perché è il presidente la figura da cui dipende tutto. E questo stesso modello adesso il governo vorrebbe realizzarlo anche a livello statale, con la riforma del premierato che va di pari passo con quella dell’autonomia differenziata.

Di solito si dice che è una cosa strana, perché il premierato rafforza lo Stato e l’autonomia differenziata lo indebolisce. In realtà, credo che il rapporto sia quello ipotizzato da Miglio: il legame tra le due riforme è la comune ambizione a creare soggetti istituzionali forti, che siano in grado gestire le loro competenze e se necessario abbiano la forza per imporsi nei confronti del disagio sociale che le loro politiche potrebbero causare.

Pietro Spirito Vorrei continuare su questo punto delle riforme gemelle, cioè dell’autonomia differenziata e del premierato. Sono d’accordo anch’io che si parlino perfettamente, però restituiscono un quadro in cui emergono alcune figure  pesantemente sconfitte.  Sono sconfitti i comuni, perché le Regioni prendono deleghe che non rilasciano a nessuno. Nella scala dei territori scompare tutto ciò che sta al di sotto delle Regioni, tutto ciò che era il pilastro fondamentale della storia patria, perché i comuni sono i mattoni fondamentali dell’Italia fin dall’inizio. Dall’altra parte sia con l’autonomia differenziata sia col premierato scompare il Parlamento, che  non ha più nessuna voce in capitolo. È questo il vero depotenziamento costituzionale, perché la nostra Costituzione nasce parlamentare, dopo la seconda guerra mondiale, ha nel Parlamento l’espressione della sovranità popolare. E il Parlamento viene prosciugato, sia dall’autonomia differenziata sia dal nuovo premier direttamente eletto. E, dulcis in fundo, il Presidente della Repubblica, che rimane come una sorta di elemento coreografico, sullo sfondo, ma certamente non con il ruolo di arbitro e garante super partes, una funzione che è stata molto importante negli ultimi decenni, in una fase di incertezza istituzionale grave del nostro Paese. Grazie al Presidente della Repubblica l’Italia è riuscita a superare una serie di impasse molto complicate oggettivamente. Lei cosa ne pensa?

Francesco Pallante Mi trovo concorde. A me pare che ciò che realmente viene preso di mira, nella dinamica complessiva in atto, è l’idea che il pluralismo politico sia un valore. In fondo i comuni sono la realtà istituzionale più vivace e plurale che abbiamo sul territorio nazionale, quella in cui si esprime in maniera più diretta, più immediata, più spontanea la politicità delle collettività. Lo stesso vale per i partiti politici, che non si vuole possano essere attori di una dinamica politica capace di esprimere, oltre a momenti di convergenza, anche momenti di conflitto e tensione.

Questo, però, è ciò che accade normalmente in tutte le democrazie del mondo. La cosa più bizzarra è la nostra pretesa, tutta italiana, di avere in ogni caso, quale che sia l’esito delle elezioni, una maggioranza assoluta in Parlamento, che è quello che succede nelle Regioni.

Il problema è che se il sistema politico è plurale, articolato in tanti partiti, in tutti i Paesi del mondo si prende atto di questo fatto; da noi no. In Germania ci sono governi di coalizione tra partiti che sono andati alle elezioni ostili l’uno all’altro. In Spagna c’è un governo di coalizione, nel Regno Unito nel 2010 c’è stato un governo di coalizione, negli Stati Uniti d’America, con il sistema presidenziale, in questo momento il presidente Biden non ha il controllo del congresso perché una delle due camere è in mano al partito repubblicano, mentre lui è un esponente del Partito Democratico.

I sistemi democratici sono sistemi in cui si può favorire la nascita di una maggioranza assoluta, ma non la si può garantire. E invece questa è l’ossessione tipica della classe politica italiana, e anche di molti elettori. Lo slogan è “la sera delle elezioni dobbiamo sapere chi ci governerà”. Ma non è quello che accade in nessuna parte del mondo. In Olanda sono mesi che stanno trattando perché le elezioni hanno restituito un Parlamento plurale, essendo la società plurale, ma questo non viene vissuto come un dramma, fa parte delle dinamiche politiche. È compito della politica cercare di ricomporre le fratture sociali che rendono disgregato il tessuto politico. Noi invece vogliamo forzare le cose.

Forziamo tantissimo nelle Regioni e nei comuni, e forziamo in realtà anche a livello statale. Non possiamo nasconderci il fatto che abbiamo avuto due leggi elettorali dichiarate incostituzionali per violazione del principio di uguaglianza del voto: tre parlamenti eletti con una legge elettorale incostituzionale, non è mai successo in nessun altro ordinamento democratico! Dal 1994 a oggi abbiamo avuto quasi sempre governi di minoranza. Anche oggi il governo della destra è un governo che ha ottenuto i consensi del 44% di coloro che sono andati a votare. È un governo di minoranza non perché c’è l’astensione. È di minoranza perché ha avuto i voti di una minoranza di coloro che sono andati a votare. La maggioranza degli italiani non avrebbe voluto questo governo, eppure la destra oggi governa con il 60% dei parlamentari, in virtù di una legge elettorale scellerata che costruisce maggioranze artificiali ipertrofiche.

Qui, secondo me, sta il problema: non abbiamo la maturità politica e istituzionale di prendere atto che il pluralismo va governato, non represso. In questo, il ruolo del Presidente della Repubblica può certamente essere decisivo, perché in tutte le fasi in cui le tensioni arrivano al punto di rottura è suo compito trovare il modo di ricomporre le cose. Alle volte ci riesce, alle volte ci non ci riesce, ma questa è la sua funzione. Mentre noi con il premierato vorremmo metterlo nella condizione di non poter più svolgere questo ruolo delicatissimo. Ma attenzione, perché tutto ciò che non si ricompone, si rompe. E quando le cose si rompono, poi rimetterle a posto diventa ancora più complicato.

Pietro Spirito Vorrei tornare su un punto che finora non abbiamo affrontato. Dopo la riforma costituzionale del 2001 in realtà c’è stato un grande contenzioso tra lo Stato e le Regioni e la Corte Costituzionale ha svolto un ruolo molto importante – e molto faticoso, perché il contenzioso era particolarmente robusto – in qualche modo ricucendo ciò che la riforma aveva “rotto” in alcuni punti. Con questo quadro nuovo l’attuale Corte Costituzionale che ruolo può giocare? Cosa ci può aspettare dal punto di vista del pronunciamento che la Corte dovrà fare probabilmente sulla Costituzionalità di questa riforma Calderoli? Perché ormai sono pochi i punti di attrito: approvato alla Camera dei Deputati senza modifiche questo treno parte, a meno che la Corte Costituzionale non si pronunzi sulla incostituzionalità.

Francesco Pallante Le questioni sono due e mi paiono diverse. A partire dal 2001 la Corte Costituzionale è chiamata a svolgere un lavoro estremamente complicato volta a dare coerenza a una riforma che aveva molti elementi di incoerenza interni: è una riforma scritta molto male e richiede un grande sforzo interpretativo da parte della Corte Costituzionale per mettere chiaramente a fuoco quale sia il ruolo dello Stato e quale quello delle Regioni. In vent’anni la Corte emana centinaia di sentenze – qualcuno è arrivato a contarne 1800 -, per definire esattamente le competenze di un ente e dell’altro.

Ora tutto questo con l’autonomia differenziata rischia di essere rimesso in discussione, per via della nuova ridefinizione delle competenze. Da un lato, ci saranno le questioni relative al funzionamento delle intese che dovessero essere raggiunte tra lo Stato e le Regioni. Le intese vanno recepite con legge e queste leggi sono ovviamente controllabili dalla Corte costituzionale, soprattutto nelle parti in cui vanno ad incidere sui diritti costituzionali. Un cittadino che dovesse veder conculcato o non attuato fino in fondo un proprio diritto potrebbe rivolgersi alla magistratura, la quale potrà sollevare questione alla Corte Costituzionale sulla configurazione concreta delle competenze della Regione e dello Stato che la Corte sarà chiamata a giudicare. Il rischio concreto è di aprire una nuova stagione di contenzioso costituzionale, quando dopo vent’anni, dal 2001, avevamo finalmente iniziato a trovare un qualche assetto consolidato, anche se non definitivo perché non tutte le questioni sono state risolte.

Dall’altro lato, più in generale, la Corte potrebbe intervenire sul disegno di legge Calderoli, che è una sorta di legge che definisce le procedure attraverso cui le Regioni potranno ottenere le nuove competenze. È una stranezza, perché, come detto, per ottenere le nuove competenze le Regioni devono stipulare un’intesa con lo Stato che dovrà essere recepita in legge, secondo la procedura dettata dalla legge Calderoli. Ma una legge non può vincolare un’altra legge, perché si tratta di fonti pari ordinate. Per vincolare una legge ci vorrebbe una legge costituzionale. Quindi il contenuto del disegno di legge Calderoli avrebbe dovuto essere proposto con una legge costituzionale, ma la sua approvazione avrebbe richiesto tempi più lunghi e maggioranze più ampie, e politicamente non lo si è voluto fare. Quella sulle procedure rischia quindi di risultare una legge inutile o, comunque, vincolante solo dal punto di vista politico. A ciò si aggiunge il problema che il disegno di legge Calderoli ha, a sua volta, molte incongruenze e vìola diversi articoli della Costituzione, dall’articolo 5 sul principio fondamentale dell’unità nazionale, all’articolo 116 che esclude le Regioni speciali dall’autonomia differenziata (a cui Calderoli intende invece allargarla), all’articolo 119 che pone vincoli finanziari che vengono elusi, fino agli articoli 2 e 53, di cui già abbiamo parlato, sulla solidarietà economica tra connazionali.

Anna Maria Bianchi. Io saluto il professor Francesco Pallante, ricordo il suo libro che si intitola Spezzare l’Italia. Le regioni come minaccia dell’unità del paese, Edizioni Einaudi, che consiglio vivamente di leggere a chi voglia saperne di più in maniera chiara e comprensibile a tutti, ma nello stesso tempo molto precisa e approfondita. Ringrazio anche Pietro Spirito.

Per osservazioni e precisazioni laboratoriocarteinregola@gmail.com

ultima modifica 22 aprile 2024