Perchè no Alfabeto dell’Autonomia differenziata:Massimo Paradiso, Professore Associato di Economia politica Università di Bari , Autonomia differenziata e Coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario
Anna Maria Bianchi Questa sera a L’Italia non si taglia siamo con Massimo Paradiso, professore di economia politica dell’università di Bari e parliamo di una materia piuttosto complicata. Si tratta del Coordinamento della finanza pubblica nell’autonomia differenziata, della responsabilità fiscale delle regioni in rapporto alla forma ed al funzionamento del sistema tributario italiano. La prima domanda è proprio in che misura l’autonomia differenziata potrebbe influenzare il coordinamento della finanza pubblica rispetto all’attuale situazione.
Massimo Paradiso In che modo potrebbe l’autonomia differenziata incidere sul coordinamento? In un modo molto semplice: aggirandolo. Nel senso che il coordinamento, così come è correntemente inteso, è essenzialmente nella necessità di rispettare i vincoli di finanza pubblica e particolarmente quel vincolo di pareggio di bilancio che è inopportunamente finito nella nostra Costituzione, nell’articolo 81. Si tratta di un vincolo che di fatto impone limiti alla spesa, anche quando fosse riferita al finanziamento di beni e servizi pubblici essenziali, di carattere universale. Questi beni e servizi pubblici universalistici sono di fatto finanziariamente condizionati, tradendone l’universalità, l’accesso a tutti i cittadini in tutte le regioni italiane. L’autonomia differenziata come interviene in questo? Interviene di fatto consentendo alle regioni che scelgono l’autonomia di aggirare questo condizionamento, finanziando quei servizi, anche al di sopra dei livelli essenziali delle prestazioni, attraverso risorse finanziarie, tributi prelevati ai cittadini di quelle regioni. Naturalmente questo varrà per le regioni che abbiano le risorse, le regioni cioè più ricche, quindi con maggiore capacità contributiva dei loro cittadini; non per le altre, ovviamente e specialmente meridionali. Ho poi detto cittadini e non regioni, da cui sono prelevati i tributi: poiché il falso e ricorrente argomento che molta sostanza ha dato al dibattito sul federalismo, è che ci siano delle regioni che ne finanziano altre: mentre occorre sempre ricordare che non esistono regioni che finanziano altre regioni, ma esistono cittadini, contribuenti più ricchi che pagano – o dovrebbero pagare – più imposte dei cittadini meno ricchi, ovunque essi si trovino, in Lombardia come in Calabria; e tutti i cittadini finanziano, in relazione alla loro capacità contributiva la spesa pubblica, i servizi pubblici su tutto il territorio nazionale.
Anna Maria Bianchi Il coordinamento come vincolo, trova una sua forma di aggiramento attraverso l’autonomia differenziata. In che modo? Con quali conseguenze?
Massimo Paradiso In primis, così come è stata congegnata l’autonomia, si ha l’attribuzione larghissima di competenze; quindi, l’attribuzione delle risorse finanziarie, attraverso la compartecipazione al gettito di uno o più tributi. Se si considera che l’IVA è già destinata al 70% per il finanziamento della sanità, rimane l’imposta sui redditi, che sarebbe trattenuta dalle regioni per il finanziamento delle competenze attribuite, con la possibilità di fornire beni e servizi anche superando i livelli essenziali delle prestazioni. I quali sono condizionati, come più volte ripetuto nell’articolato del disegno di autonomia, agli equilibri di bilancio e dai limiti delle risorse disponibili, e sono pertanto livelli potenzialmente variabili ed instabili nel tempo. Ma solo per quelle regioni che non abbiano risorse erariali da trattenere e sufficienti a garantire la stabilità o anche livelli di fornitura superiori a quelli fissati.
Con quali conseguenze? Di questo si è molto discusso. In un’autonomia così disegnata il finanziamento di beni e servizi essenziali sarebbe limitato nelle regioni più povere a favore di quelle più ricche, le quali evidentemente avrebbero maggiori risorse erariali da trattenere sui loro territori. Si pone così una questione di carattere democratico.
Si è spesso affermato che il regionalismo italiano avesse una tradita connotazione di tipo cooperativo, che avrebbe favorito la spinta delle regioni più ricche alla richiesta di forme più o meno estese di autonomia, in risposta all’impiego inefficiente di risorse raccolte sui loro territori ed impiegate specialmente nelle regioni meridionali. Ma questa concezione della cooperazione tradita è piuttosto discutibile, dal momento che, come ho ricordato, le imposte si raccolgono dai cittadini e non dai territori; ed è soprattutto una concezione parzialissima in una democrazia fiscale. In cui cioè la cooperazione, richiede sia garantita la costituzione fiscale, che è parte rilevante del contratto costituzionale, per cui ciascun cittadino opera per il reciproco vantaggio attraverso la decisione di finanza pubblica nella stabile produzione di beni e servizi pubblici essenziali per la realizzazione di una effettiva uguaglianza delle opportunità. Nella cooperazione, centrale è il rapporto tra le imposte ed il loro impiego, e la decisione responsabile di finanza pubblica deve garantire questo rapporto, in cui alla responsabilità di spesa corrisponde la responsabilità di entrata: chi decide l’imposta non è altro da chi decide la spesa, come principio di responsabilità politica in democrazia.
Questa corrispondenza è cruciale in qualsiasi concezione di federalismo fiscale. Ma non nel federalismo all’italiana dell’autonomia differenziata, in cui l’imposta rimane disegnata e prelevata a livello centrale, salvo poi esserne trattenute quote a livello regionale – nelle forme che si definiranno della prevista compartecipazione. Sono attribuite alle regioni enormi responsabilità di spesa, lasciando però in capo allo Stato la responsabilità del prelievo. Questa è una asimmetria che tradisce qualsiasi principio di democrazia fiscale e qualsiasi principio di federalismo.
Anna Maria Bianchi L’autonomia differenziata non è solo una sorta di appropriazione di funzioni ma anche di poteri da parte dei presidenti di Regione. Come aumenta il loro potere?
Massimo Paradiso: Il potere è un potere di spesa larghissimo, poiché larghissimo è il perimetro delle competenze. La regione, il governo politico della regione, ha poteri di spesa ma non responsabilità fiscale, ha i benefici politici del potere di spesa ma non gli oneri politici della responsabilità di chiedere imposte per quella spesa. Le imposte non le richiede il governo regionale ma lo Stato centrale. È a livello centrale che si disegna l’imposta, che si decide in che modo l’imposta debba realizzare il principio di progressività. Mentre è a livello regionale che quell’imposta viene spesa, in relazione a quante saranno le competenze che ciascuna regione vorrà attribuirsi.
È questo un federalismo talmente asimmetrico sul piano delle responsabilità, da dover essere già solo per questo estremamente allarmante. Sebbene sia costante e diffusa – e anche discutibile – l’idea della distanza del politico dal cittadino, di un’attitudine del politico a non svolgere le sue funzioni nella modalità più limpida e più coerente con la realizzazione dell’interesse collettivo, si procede nella direzione di attribuire al politico, sia pure a livello regionale, un enorme potere: tutto il potere che il politico può desiderare, quello di spendere senza essere responsabile del livello e delle forme dell’imposta.
Anna Maria Bianchi Che possibilità ci sono per le regioni di avere delle modalità applicative derogatorie rispetto alle disposizioni statali in materia di imposta?
Massimo Paradiso. Riguardo il disegno dei tributi prelevati dallo Stato c’è ben poco da fare. E va da sé che nessun politico regionale immaginerebbe di allargare l’ambito dei tributi propri, dei quali sarebbe responsabile, potendo invece disporre di compartecipazioni ai tributi erariali, ovvero principalmente all’imposta sui redditi. Si vedrà in quali forme sarà realizzata la compartecipazione. Ed una volta trattenute le risorse, l’assunto quasi teologico, è che i governi regionali siano in grado di impiegarle meglio di quanto faccia il governo centrale. Eppure al riguardo non pare ci siano prove confortanti. Nella prospettiva dell’autonomia differenziata, si avranno regioni a statuto ordinario che diverranno non dissimili dalle attuali regioni a statuto speciale, che già trattengono tributi erariali. Guardando al caso della sanità, nei tre ambiti – assistenza, prevenzione, distrettuale e ospedaliera – di valutazione del grado di adempimento dei livelli essenziali di assistenza, la Sicilia è inadempiente nell’ambito della prevenzione e appena sufficiente nell’assistenza distrettuale; la Provincia autonoma di Bolzano è inadempiente nell’ambito della prevenzione e la Valle d’Aosta è inadempiente in tutti gli ambiti.
Possiamo quindi a priori ritenere che una volta diventate “speciali”, quelle regioni che seguono la via dell’autonomia differenziata, siano in grado di spendere meglio di quanto facciano attualmente in sanità le regioni a statuto speciale? Abbiamo più di un indizio – anche nella letteratura economica – del fatto che forme di federalismo asimmetrico in termini di responsabilità fiscale, in cui alla responsabilità di spesa non corrisponde la responsabilità di entrata, siano espressioni di un federalismo democraticamente, fiscalmente, politicamente zoppo. Eppure è quello verso cui stiamo andando.
Anna Maria Bianchi Cosa resta da fare allo Stato una volta attuata l’autonomia differenziata? E alle Regioni che non dovessero chiederla?
Massimo Paradiso Se immaginiamo che l’attribuzione di competenze alle regioni sia quella prevista, sostanzialmente rimangono allo Stato la difesa e la giustizia; ed una volta che si capisca quale sia la misura delle compartecipazioni, non resta che sperare, senza troppo fondamento, che allo Stato rimangano risorse per poter intervenire in quelle regioni che sono caratterizzate da livelli infrastrutturali significativamente inferiori rispetto a quelli di altre regioni. Dobbiamo ricordare che la premessa iniziale del federalismo era stata – ed è stata pienamente incompiuta – di dover partire dall’intervento sui divari infrastrutturali nelle regioni italiane, dalla sanità, alla scuola, ai trasporti. Ciò non è avvenuto ed il ponte sullo stretto non può certo sanare questi divari; anzi, sottrae risorse a questo fine, se mai lo si voglia.
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