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Michela Barzi: il tecnocrate partecipativo

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Foto da Millennio urbano

(da Millennio urbano, 6 aprile 2017)

La questione del rapporto tra la rappresentanza politica e cittadinanza, e della legittimazione che reciprocamente le due parti si accordano quando in gioco ci sono le scelte che riguardano la polis, è troppo complessa perché possa essere affrontata in modo esauriente in queste brevi note. Tuttavia mai come in questo momento il concetto di partecipazione dei cittadini alle scelte amministrative viene sbandierato come una soluzione passepartout per la vita democratica e, se non proprio come un surrogato della democrazia diretta, esso viene almeno brandito come mezzo preventivo dei conflitti tra rappresentanti e rappresentati. D’altra parte ormai decidere le sorti delle città e dei territori nel chiuso delle stanze della pubblica amministrazione, mettendo i cittadini di fronte al fatto compiuto, è vietato per legge e gli strumenti di valutazione dei piani e dei progetti prevedono appunto procedimenti di informazione e di audizione della cittadinanza. Quanto poi siano efficaci questi procedimenti relativamente allo scopo per i quali sono stati pensati è una ulteriore questione aperta, e in questa sede può essere sufficiente dare per scontato che la partecipazione faccia ormai parte delle procedure della pianificazione e presupporre che essa abbia assunto il carattere tecnocratico insito in quel processo.

Se prendiamo a prestito le considerazioni che Henri Lefebvre ha fatto nel suo Le droit à la ville (1968) possiamo affermare che la genesi dell’urbanistica moderna sia un connubio di politica e tecnocrazia. Secondo Lefebvre lo scientismo dell’urbanistica come pratica della pubblica amministrazione si basa su di un fondamento ideologico, nel quale la tecnica attraverso la quale si giunge all’azione di piano viene direttamente legittimata dal potere che essa incarna. Per il filosofo francese poi quando l’urbanistica incontra l’attività imprenditoriale si dota di un altro fondamento ideologico, alla cui legittimità viene in soccorso la propaganda pubblicitaria con la quale pretende di creare «un nuovo stile di vita»[1].

Ne Il ventre di Parigi di Emile Zola lo stupore del protagonista nel constatare fino a che punto la sua città fosse cambiata dopo sette anni di assenza (C’è ancora rue Pirouette? domandava sconcertato ) rimanda al fatto che l’azione trasformativa dell’urbanistica abbia, per così dire, un mandante politico ed un esecutore tecnico. D’altra parte il povero Florian doveva quell’assenza, durante la quale la sua città era radicalmente mutata grazie al barone Haussmann, alla sua attività di oppositore del Secondo Impero che gli era costata un soggiorno al bagno penale della Caienna.

Nello stesso anno in cui il libro di Lefebvre veniva stampato, a New York il 10 aprile, tra le mura della Seward Park High School, si teneva l’audizione pubblica sulla realizzazione dell’autostrada urbana denominata Lower Manhattan Expressway . L’opposizione popolare al progetto, che, se realizzato, avrebbe radicalmente trasformato la parte meridionale del distretto urbano newyorchese così come era già accaduto con realizzazione della Cross Bronx Expressway, fece sì che il rito burocratico cui era tenuto l’apparato tecnico responsabile del progetto – al cui vertice stava il famigerato Robert Moses – fosse interrotto dall’arrivo della polizia e dall’arresto, in quanto personaggio simbolo della opposizione, di Jane Jacobs. Questo episodio segnò la fine della partecipazione dell’autrice di The Death and Life of Great American Cities alle attività dei comitati di cittadini che si opponevano alle trasformazioni portate avanti, attraverso diversi mandati amministrativi, dall’Haussmann newyorchese (Moses non nascondeva di ispirarsi alla figura del prefetto della Senna incaricato da Napoleone III di trasformare radicalmente Parigi): nell’estate di quello stesso anno la famiglia Jacobs si trasferì a Toronto, dove Jane visse il resto della sua vita.[2]

Il problema di eliminare il conflitto tra gli apparati tecnici, addetti alla pianificazione urbanistica e alle trasformazioni urbane in genere, e i cittadini, sui quali tali trasformazioni impattano, è stato da qualche tempo a questa parte risolto con l’uso della figura del facilitatore dei processi di partecipazione. Le amministrazioni pubbliche titolari della pianificazione urbanistica incaricano società specializzate in processi partecipativi per facilitare invece di ostacolare il contributo della cittadinanza. La pubblica partecipazione ai processi di formazione dei piani urbanistici è ormai stata interiorizzata anche dalle legislazioni in materia di urbanistica, le quali regolano tali processi pur con l’incertezza che continua a regnare tra partecipazione e informazione.

Facilitare la partecipazione dei cittadini alle scelte della pubblica amministrazione è un intento che in sé ha le stesse caratteristiche di bene aprioristico, lo stesso che attribuiamo all’affetto per i nostri cari. Secondo questa visione, e semplificando molto, partecipare ai complicati processi amministrativi attraverso cui nasce il piano urbanistico è un po’ come voler bene alla mamma: qualcosa che scaturisce spontaneamente dall’animo umano ma che, a causa della natura tecnica del piano, ha bisogno di essere facilitato.

Fin qui tutto bene, a meno che non insorga il problema delle tecniche a loro volta utilizzate dai facilitatori. Esse a volte sembrano discendere senza soluzione di continuità da quelle che servono a formare lo strumento normativo che disciplina le trasformazioni sulle quali la cittadinanza è chiamata a dire la sua. Insomma un bel circolo vizioso, del quale è plastica rappresentazione il questionario composto di 43 domande a scelta multipla la cui compilazione è stata recentemente sollecitata dal Comune di Milano come contributo di residenti e city user all’avvio del procedimento di redazione del piano urbanistico comunale. Secondo Marianella Schiavi, che sulla vicenda del questionario ha scritto un bell’articolo al quale rimando integralmente, esso presenta il grave limite di non distinguere il “sapere tecnico” dal “sapere comune”. A chi lo compila viene infatti chiesto di esprimere il proprio giudizio, in una scala di importanza da 1 a 4, su questione come l’«Indifferenza funzionale», la «Perequazione urbanistica», le «Indicazioni morfologiche», i «Parametri urbanistici», l’«Edilizia residenziale sociale», i «Mutamenti di destinazione d’uso» e – sottolinea ironicamente Schiavi –  «altri concetti notoriamente tipici e fondanti del “sapere comune”».

Sembra quindi che il vecchio vizio tecnocratico dell’urbanistica riguardi ora anche coloro che dovrebbero facilitare il quadro conoscitivo e decisionale dentro il quale si forma il piano urbanistico. Probabilmente si tratta di uno scivolone dell’attuale amministrazione milanese, visto che quella precedente aveva adottato delle linee guida per la partecipazione dei cittadini alla pianificazione urbanistica la cui metodologia – precisa Schiavi – implica che« Responsabilità politica e sapere tecnico vengono spinte a confrontarsi con il sapere comune per ritrovarsi arricchite sia con riferimento alle alternative praticabili sia con riferimento alle decisioni finali». E tuttavia il caso del questionario milanese indica che forse, scaturendo dalle varie sfaccettature del sapere tecnico, una nuova figura professionale si stia profilando: il tecnocrate partecipatore, evoluzione (non) prevista del facilitatore alla partecipazione.

Riferimenti

M. Schiavi, Piano di governo del territorio: casalinga di Voghera dove sei?, ArcipelagoMilano, 4 aprile 2017.

Note

[1] H. Lefebvre, Le droit à la ville, Parigi, Anthropos, 1968, pp. 29-30.

[2] Cfr. A. Flint, Wrestling with Moses, New York, Random House, 2009, pp.172-177.

 

 

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