Si va avanti con l’autonomia regionale differenziata a dispetto dei fallimenti rivelati dalla pandemia
Autore : Redazione
Immagine della petizione “No alla Secessione dei ricchi”
Nella conferenza stampa del 31 dIcembre il Presidente del Consiglio Conte ha ribadito che si prosegue con la sciagurata autonomia regionale differenziata, lanciata dal Governo Gentiloni e richiesta a gran voce dalle regioni del nord Italia, in primis Veneto, Lombardia e Piemonte, ma anche, con qualche differenza, dall’ Emilia Romagna. Era nel contratto tra M5S e Lega del Conte 1 e anche tra PD M5S e Leu del Conte 2. Ci si sarebbe aspettato che i conflitti stato/regioni nella gestione della pandemia e anche le pessime performances della sanità di molte regioni avessero congelato il progetto, e anzi portato a un ripensamento anche della riforma del Titolo V, la sezione della Costituzione dedicata ai poteri e alle competenze di regioni, province e comuni. La riforma fu varata dal centro sinistra, incalzato richieste della Lega di maggiore autonomia del Nord*. Purtroppo la realtà cambia ma i partiti restano sempre uguali. Pubblichiamo un intervento di Gianfranco Viesti da Forum Disuguaglianze diveristà (AMBM)
Contro l’autonomia differenziata: superare gli egoismi e garantire diritti di cittadinanza per tutti Pubblicato il 24 Dicembre, 2020 su Forum Disuguaglianza Diversità di Gianfranco Viesti
L’autonomia differenziata creerebbe un quadro delle politiche complesso e frammentato e livelli di cittadinanza dispari all’interno del paese
A cinquanta anni dal suo avvio, nel pieno di una pandemia che ne ha messo in luce non poche criticità, il regionalismo italiano merita un complessivo ripensamento. Sia per le persistenti difficoltà degli ultimi venti anni dopo la riforma del 2001, plasticamente mostrati dalle centinaia e centinaia di sentenze della Corte Costituzionale, sia per le incertezze e confusioni degli ultimi mesi, nel disegno e nell’applicazione delle norme a tutela della salute pubblica. Con grande equilibrio: senza nostalgie di uno stato centralizzato, ma senza eccessi di decentramento.
Respingendo però l’ideologia del sovranismo regionale, secondo la quale più poteri si danno alle regioni meglio è per i cittadini. Non è così. La vita dei cittadini può migliorare con un regionalismo ben temperato. Nel quale le competenze siano messe chiaramente a fuoco; i poteri centrali assumano, a differenza di quanto da tempo avviene, le proprie responsabilità nel disegno degli indirizzi generali e nell’attivazione di eventuali poteri sostitutivi; siano finalmente definiti e garantiti i diritti di cittadinanza di tutti (i “livelli essenziali delle prestazioni” ex art. 117 della Costituzione); graduate in base agli effettivi fabbisogni le risorse per regioni ed enti locali, prevedendo le necessarie perequazioni per quelle a minore capacità fiscale nella spesa corrente e nelle dotazioni strumentali (ex art. 119 Costituzione).
Un vasto programma. Con il quale però confligge frontalmente l’iniziativa politica sul regionalismo differenziato promossa dal 2017 dalle amministrazioni regionali di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, poi seguite da altre.
Perché confligge? Per due grandi motivi. Per la straordinaria estensione delle richieste di competenze che sono state formulate; come da tempo documentato, esse coprono quasi tutti i campi di azione pubblica, e produrrebbero un quadro ancora più frammentato e complesso delle politiche. Si può naturalmente discutere, nell’ottica di cui si parlava all’inizio e per migliorare l’efficacia dell’azione collettiva, anche di decentrare ulteriori competenze specie amministrative alle regioni. Ma non si capisce proprio perché solo ad alcune e non ad altre e quindi senza le procedure di revisione del riparto dell’articolo 117, dando vita a poteri centrali sfilacciati per alcuni e a grumi di sovranità per altri. Escludendo poi certamente l’ipotesi di regionalizzare la scuola, dai programmi scolastici ai docenti, principale e fondamentale infrastruttura nazionale. O le grandi reti infrastrutturali, che si vorrebbero spezzettare in signorie locali. O alcuni rilevanti ambiti, a cominciare da quello ambientale, dove assai più che norme regionali differenti sono necessari grandi e comuni indirizzi comunitari.
Confligge poi per il desiderio politico di differenziare la spesa per i servizi in base alla ricchezza dei territori, definendo per legge livelli di cittadinanza dispari all’interno del paese. Richiesta esplicita nelle deliberazioni, mai ritirate, del Consiglio Regionale del Veneto. In mille dichiarazioni dei leader leghisti: solo però quando parlano nelle “loro” regioni, ai “loro” elettori, dato che pudicamente ignorano la questione quando si esprimono altrove; scolpite in molte bozze di intesa, sia quelle definite dal governo Gentiloni sia quelle promosse dalla responsabile leghista della materia nel governo Conte I. I responsabili politici della regione Emilia-Romagna hanno sempre espresso convinzioni diverse; ma anch’essi sono stati pudichi (cioè del tutto silenti) quando si stavano definendo regole sperequate che avrebbero avuto valore anche per loro.
Il tema è lì per restare. E’ figlio dell’indebolimento del sentimento nazionale; della sfiducia nella capacità collettiva del paese di farcela; dell’egoismo di quartiere, di città, di territorio. Di tanti anni di predicazione politica, largamente penetrata nell’intero arco dello schieramento parlamentare, secondo cui chi ha più reddito, chi vive in territori più forti, dato che paga più tasse “merita” di più. Sovvertendo così le basi costituzionali della nostra Repubblica. Va contrastato apertamente. Senza arroccarsi a difesa dell’attuale sistema. Ma avviando una “manutenzione straordinaria” del nostro regionalismo che abbia come stella polare non i poteri di alcuni o di altri, o i soldi per alcuni e non per altri, ma i diritti dei cittadini da soddisfare, l’efficienza della spesa da garantire, l’efficacia dell’azione pubblica a tutti i livelli.
Gianfranco Viesti, docente di economia presso l’Università di Bari
Per osservazioni e precisazioni: laboratocarteinregola@gmail.com
5 gennaio 2020
NOTE
(*)(DA PAGELLA POLITICA 20 11 2020) IL 7 ottobre 2001, dieci milioni di cittadini italiani confermarono con il proprio sì la riforma costituzionale del Titolo V della Costituzione (legge costituzionale 18 ottobre 2001 n.3). Il referendum – a cui partecipò solo il 34 per cento dei votanti – rappresentava il punto di arrivo di un lungo percorso, iniziato nel 1997, durante il primo governo Prodi, con una commissione bicamerale sul tema.
Due anni dopo, nel 1999 – il presidente del Consiglio era Massimo D’Alema – il lavoro della commissione era confluito in una proposta di legge. L’approvazione del testo infine arrivò a marzo 2001 quando a Palazzo Chigi c’era Giuliano Amato.
La riforma è nata quindi dal centrosinistra, in un periodo in cui il dibattito sul rapporto fra Stato e regioni era quanto mai acceso anche per effetto delle spinte federaliste dell’allora Lega Nord. Una dinamica descritta di recente da un esponente del Pd, Gianni Cuperlo, in termini critici: «Nel 2001 si riformò il Titolo V pensando di togliere voti alla Lega. Fu un errore e gli italiani lo hanno pagato caro»
Vedi anche:
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Questa pubblicazione è gratuita e fornita esclusiva- mente in versione digitale perché il tema delle au- tonomie regionali è passibili di forti cambiamenti in breve torno di tempo. D’intesa con l’Autore è pos- sibile che il testo venga aggiornato e che, in futuro, possa essere base per una pubblicazione ordinaria sia in digitale sia su supporto cartaceo.(Nota dell’editore)
(Dalla presentazione del libro dal sito dell’editore Laterza) Si sente dire che Veneto e Lombardia vogliono l’autonomia regionale differenziata. Ma pochissimi italiani sanno di che cosa si tratta effettivamente: anche perché se ne parla poco, e in modo volutamente molto vago. Questo breve saggio racconta le origini di questo processo, le richieste regionali e le loro possibili implicazioni. Mostra così che non si tratta di una piccola questione amministrativa, che riguarda solo i cittadini di quelle regioni, ma di una grande questione politica, che riguarda tutti gli italiani. Che può portare ad una vera e propria “secessione dei ricchi”; spezzettare la scuola pubblica italiana; creare cittadini con diritti di cittadinanza di serie A e di serie B a seconda della regione in cui vivono.
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