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Tutela ambientale, approvata la proposta di modifica costituzionale, i commenti

Pubblichiamo il testo del disegno di legge definitivamente approvato che modifica agli articoli 9 e 41 della Carta costituzionale, una modifica che alcuni hanno salutato come fortemente innovativa, altri come inutile, in quanto introdurrebbe tutele già presenti nella Costituzione, altri ancora come pericolosa, in particolare per una sorta di equiparazione tra tutela dell’ambiente e del Paesaggio, e il conseguente rischio di avallare scelte arbitrarie a tutela del primo a detrimento del secondo.

L’8 febbraio la Camera dei deputati ha definitivamente approvato, in seconda deliberazione con la maggioranza dei due terzi dei suoi componenti, il disegno di legge di riforma costituzionale già approvato dal Senato con doppia deliberazione. Il testo ha ottenuto 468 voti favorevoli, un contrario e sei astenuti. La riforma, quindi, entra subito in vigore e non è sottoponibile a referendum (poiché votata da oltre due terzi del Parlamento). Il testo, dopo la promulgazione ad opera del Presidente della Repubblica, sarà pubblicato in Gazzetta Ufficiale.

Il DDL consta di tre articoli (modifiche in rosso),:

· L’Art. 1 prevede l’introduzione di un nuovo comma nell’art. 9 Cost. che fa parte del ristretto nucleo di “principi fondamentali” rappresentato dai primi 12 articoli della Costituzione.

Articolo 9: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni.

· L’Art. 2 modifica l’art. 41 Cost.

Art. 41 L’iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali

· L’Art. 3 introduce una clausola di salvaguardia per l’applicazione del principio di tutela degli animali.

La legge dello Stato che disciplina i modi e le forme di tutela degli animali, di cui all’articolo 9 della Costituzione, come modificato dall’articolo 1 della presente legge costituzionale, si applica alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano nei limiti delle competenze legislative ad esse riconosciute dai rispettivi statuti.

Le future generazioni finiscono nella Costituzione. Celotto spiega perché

di Alfonso Celotto avvocato e professore di Diritto costituzionale alla facoltà di Giurisprudenza all’Università di Roma 3 (da 13/02/2022 – Le formiche)

Inserire nella Carta la tutela dell’”ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”, vuol dire avere una visione più ampia nelle decisioni politiche. Superare la tradizionale tendenza della politica, della democrazia e dell’economia a essere schiacciate sulle esigenze del presente. Il commento del costituzionalista

Qui e ora.
Per decine di secoli governi, Re o Imperatori hanno pensato soltanto agli effetti immediati delle decisioni. Forse per l’abitudine a interessarsi soltanto dei problemi vicini, nel tempo e nello spazio. Forse per la mancata abitudine a programmare, a prevedere.
Pensiamo che quando è stata costruita la nuova Stazione termini di Roma, a cavallo della II guerra mondiale, molti dei resti archeologici trovati in zona vennero semplicemente distrutti. Perché andava fatta la nuova stazione. Senza tener conto dei valori storici, culturali, ambientali.

Questa settimana, invece, il nostro Parlamento ha approvato la riforma che inserisce all’art. 9 della Costituzione la tutela del “l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”.
E’ molto importante proprio l’ultimo inciso, che ci obbliga le decisioni a guardare anche l’impatto sul futuro.

Sono una cinquantina d’anni che si è iniziato a parlare di diritti delle generazioni future, soprattutto a partire dalle campagne di tutela degli oceani di Jacques Cousteau.
Così si è fatta strada l’esigenza di tutelare l’ambiente e i cambi climatici, di considerare anche i diritti di coloro che verranno quando si incide su patrimonio culturale, ingegneria genetica e sviluppi bioetici, robotica, welfare e dinamiche economiche, perché anche il debito pubblico e le pensioni incidono sulle generazioni future.

In buona sostanza, si tratta di una visione più ampia nelle decisioni politiche. Si devono considerare anche la debolezza o vulnerabilità degli interessi delle generazioni future, superando la tradizionale tendenza della politica, della democrazia e dell’economia a essere schiacciate sulle esigenze del presente.

Lo avevano già riconosciuto in Costituzione la Germania, la Svezia, la Polonia, il Lussemburgo, Malta.
Da noi era intervenuta in maniera significativa la Corte costituzionale, riconoscendo la tutela dei diritti delle generazioni future nella tutela dell’ambiente e dell’ecosistema: lo Stato può e deve porre limiti invalicabili “nell’apprestare cioè una «tutela piena ed adeguata», capace di assicurare la conservazione dell’ambiente per la presente e per le future generazioni” (sent. n. 288 del 2012).

E, ancora, nella sostenibilità dei bilanci: “L’equità intergenerazionale comporta, altresì, la necessità di non gravare in modo sproporzionato sulle opportunità di crescita delle generazioni future, garantendo loro risorse sufficienti per un equilibrato sviluppo” (sent. n. 18 del 2019).

Ma ora il riconoscimento in Costituzione rende stabile e solido il principio: tener conto delle future generazioni costringe a ripensare i meccanismi della democrazia politica e delle maggioranze legislative. Un riconoscimento importantissimo per guardare lontano.

Sull’inutile, anzi dannosa modifica dell’articolo 9 della Costituzione

Emergenza Cultura (Articolo pubblicato su giustiziainsieme.it il 22 settembre 2021)

di Giuseppe Severini e Paolo Carpentieri

1. La normazione iconica, fatta di solenni enunciazioni di valori impropriamente vestiti con i panni della legge, è per i giuristi una delle afflizioni dei nostri tempi. Rispecchia la pratica semplificatoria dei social media, di cui replica l’impronta riduttiva e ricerca la formula disintermediata. Le motivazioni non sono dissimili. È in realtà una sovra-legificazione proclamatoria di simboli ben più che produttiva di norme. Corrisponde assai poco a un bisogno di diritto: lo denuncia il fatto che si presenta molto assiologica e per nulla tassonomica; non evidenzia infatti la norma agendi per portare a effetti la proclamazione. Corrisponde a una concezione primaria e regressiva della legge, la espunge dalla realtà articolata dell’edificio del diritto per elevarla a prevaricatorio totem comunicazionale. Insomma, è un paludamento autocelebrativo per il legislatore, ma distante da razionalismo e tecnicismo giuridici. Nel generale crollo culturale della classe politica – ormai più usa al post di foto e battute sui social che al ragionamento e alla dialettica -, la normazione iconica esprime come si possa piegare a un uso politico lo strumento più tipico del diritto, deprivandolo del ragionamento giuridico che vi è coessenziale: e al prezzo di intaccare i postulati della sicurezza giuridica su cui invece si basa lo Stato di diritto.

La normazione iconica è dunque per lo più inutile proprio perché non è corredata da autentiche norme e procedure per dar seguito a quella celebrazione di simboli; ma non raramente è anche dannosa, perché genera confusione alterando la preesistente realtà dell’ordinamento. 

In questo quadro va considerato quanto sta avvenendo nelle aule parlamentari a proposito dell’art. 9 della Costituzione: articolo di preminente importanza tra i principi fondamentali della Carta – fino ad oggi mai toccati dalla penna del legislatore costituzionale – che ora si vorrebbe alterare, apparentemente arricchendolo di un comma, collegato a una contestuale modifica dell’art. 41, ma in realtà per buona parte stravolgere.

2. Il 9 giugno 2021 il Senato ha approvato, in prima deliberazione, la proposta di legge costituzionale (in un testo unificato: AC 3156) recante “Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente“.

La proposta aggiunge un terzo comma all’articolo 9 della Costituzione ([La Repubblica] «Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali») e ne modifica l’articolo 41 (aggiungendo, al secondo comma, che l’iniziativa economica privata non può recare danno «alla salute» e «all’ambiente»; e al terzo comma, che l’attività economica pubblica e privata può essere indirizzata e coordinata a fini anche «ambientali»).

A una prima e superficiale lettura, la proposta, a muovere da queste modifiche all’art. 41, dovrebbe suscitare serie perplessità anzitutto in chi si riferisce ai postulati neoliberisti, nei sostenitori del libero mercato come chiave per risolvere ogni questione, nei convinti del primato del Growth and Development: anche perché nemmeno reca più il riferimento testuale al concetto-valvola dello «sviluppo sostenibile», che pure era previsto in una delle proposte riunite in questo testo unificato; e, circa il danno del secondo comma, non reca l’aggettivo «significativo», che pure il recente Regolamento (UE) 2020/852 del 18 giugno 2020 relativo all’istituzione di un quadro che favorisce gli investimenti sostenibili si preoccupa di prevedere, in applicazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, ad evitare che qualsivoglia alterazione ambientale, pur minima, possa rilevare negativamente. Ma non dovrebbe dispiacere a chi ha a cuore e vuol difendere il paesaggio e il patrimonio culturale. In fondo, si potrebbe sostenere, questa modifica opera per addizioni, rafforzando la tutela dell’ambiente: la quale, nel suo amplissimo e onnicomprensivo campo di denotazione, include anche il paesaggio; sicché non vi sarebbero ragioni di dubbio dal lato della tutela dei beni culturali, dei beni paesaggistici e del paesaggio. Ma anche in questo caso, come si è più volte osservato in precedenti contributi, “paesaggio” e “ambiente” divergono, si differenziano ed entrano in conflitto. Conflitto oggi acuito, come diremo, dall’irrompere sulla scena giuridica (e politica) della grande notion di “transizione ecologica”, certo positiva ma in realtà a latitudine indeterminata e specie su questo assai delicato fronte. Di tale generale indeterminatezza è ultima riprova la divergenza di contenuto tra l’indirizzo ricavabile dal recente diritto derivato dell’Unione europea e quello ricavabile dalla più recente posizione italiana attuativa del PNRR (il primo puntando ad ogni intervento a finalità green, cioè ambientale; il secondo, almeno nell’ultima stesura, essenzialmente al contenimento del mutamento climatico).

Di conseguenza, a ben vedere – in disparte l’ingenuità giuridica di diversi patrocinatori – questa proposta, se rapportata all’attuale momento storico e letta alla luce delle pressanti contingenze politiche ed economiche, si manifesta in realtà discutibile e assai pericolosa per la tenuta della tutela del paesaggio italiano. Va infatti a incidere, apparentemente per ridondanza ma in realtà per alterazione, su un sistema che ha una sintesi esemplare nel testo dell’articolo 9, secondo comma: snodo dinamico fondamentale, che ha conferito dignità di principio fondamentaleall’esemplare legislazione generalizzata in Italia a muovere dalla legge Croce del 1922, e la ha proiettata con straordinaria attualità verso sviluppi ulteriori, fecondi di risultati, plasticamente aderenti all’unica e irripetibile specificità dei paesaggi italiani, noti al mondo per bellezza e attrattività ed elemento della stessa identità italiana.

È sì un dato oggettivo che l’art. 9 non usa la parola “ambiente” perché questa, nel senso di equilibrio ecologico, è stata tematizzata solo un quarto di secolo dopo: ma questo non vuol dire affatto che non si tratti di un bene che già ha trovato inequivoca protezione nella stessa Costituzione. I giuristi, dai tempi dei Romani, sanno e insegnano che le norme non risiedono nella sola lettera delle disposizioni ma si ricavano dal loro insieme, e che senza mutare nella lettera si attualizzano con la trasformazione sociale: il diritto non è il mero testo della legge, come una concezione primordiale e arcaica del nómos farebbe intendere. Così, da quando mezzo secolo fa è sorta la questione ambientale, dottrina e giurisprudenza ben presto concordarono che la tutela dell’ambiente possiede già una chiara base costituzionale nella combinazione dell’art. 9 e dell’art. 32 sul diritto alla salute. Il che è dato non meno oggettivo del precedente, proprio perché il diritto non è composto dalla mera littera legis.

È dunque indubbio, per il giurista appena consapevole della realtà dell’ordinamento e che guardi all’effettività costituzionale, un dato giuridico inoppugnabile: la Costituzione, nel testo vigente, già tutela l’ambiente. Lo ribadisce testualmente, del resto, da vent’anni l’art. 117, secondo comma, lett. s), che assegna alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali». La previsione fu introdotta dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, la c.d. riforma del Titolo V: il che non sarebbe stato possibile se non vi fosse stata già una copiosa giurisprudenza costituzionale che, appunto, affermava che la tutela dell’ambiente era già implicitamente presente nella Costituzione (es. Corte cost., n. 238/1982; 210/1987; 641/1987; ecc.).

Sicché oggi l’aggiunta anche testuale, nell’art. 9, della tutela de «l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi» appare anzitutto inutile, perché ripetitiva di un precetto presente e incontestato e dunque produttiva di nessuna autentica utilità: il che già dovrebbe consigliare un legislatore costituzionale minimamente accorto a non turbare, per un nessun valore aggiunto, il valore superiore della sicurezza costituzionale, e massimamente in tema di principi fondamentali. Ma poco sarebbe, se non si dovesse ahimè rilevare che è soprattutto dannosa. E forse non involontariamente dannosa, almeno per certi punti di vista.

Infatti, la dizione proposta, dalla confusa connotazione e dalla vaga denotazione, reca con sé un effetto pratico dirompente, in particolare per un Paese qual è l’Italia: di banalizzare il principio fondamentale della tutela del paesaggio, che pure è così radicato ed essenziale per la percezione generale di quello che già Dante e Petrarca chiamarono il Bel Paese e che ha trovato nell’art. 9 – come icasticamente scrisse Sabino Cassese – la costituzionalizzazione delle teste di capitolo del corpo legislativo precedente il quale – è da sottolineare – corrispondeva alla tradizione culturale e alla coscienza nazionale. La dannosità, insomma, si profila e si concretizza contro il mirabile paesaggio italiano e contro il delicato, prezioso sistema di sua tutela approntato e affinato con accurata sapienza giuridica lungo tutto un secolo: e questo affonda nell’identità e nella cultura dell’Italia al punto che il collegamento tra cultura e paesaggio – la culturalità del paesaggio – modella la sua protezione giuridica e offre la base al riconoscimento della massima dignità costituzionale.

Nella realtà, infatti, non può sfuggire anche al più distratto tra i giuristi che affiancare la tutela dell’ambiente alla tutela del paesaggio della Nazione, significa porre sullo stesso piano, dunque equiordinare nella forma e nella sostanza, l’una nozione e funzione all’altra. L’effetto reale è di dequotare senz’altro, in pratica vanificare, il rilievo del paesaggio e della sua protezione di fronte a nuove opere che si assumono di difesa dell’ambiente-quantità: in pratica, espungendolo dalla primaria e icastica collocazione tra i principi fondamentali della Costituzione ogniqualvolta la sua difesa si ponga in concreto contrasto con la sua alterazione provocata da interventi mitigatori dell’inquinamento e dunque di contrasto al cambiamento climatico: tali o solo asseriti tali che siano. Come dire che – contro ogni ragionevolezza – il vulnus al paesaggio va non più valutato in concreto ma ora, e per categorie generali, presunto in questi casi come senz’altro inesistente.

La consapevolezza di quanto sopra conduce dunque ad un’estrema cautela davanti a una proposta di modifica costituzionale come quella di cui parliamo. In disparte che per diversi Autori la modifica costituzionale non può giungere a toccare il testo dei principi fondamentali della Costituzione (questo sarebbe il primo caso), la domanda di fondo è se la configurazione materiale e visibile dell’Italia, con quanto vi corrisponde in termini di valore identitario, sedimentazione culturale, attrattività turistica e riferimento, meriti di essere nel volgere di brevissimo tempo sacrificato di fronte a cento e cento foreste di torri eoliche che muterebbero irrimediabilmente l’idea e il “volto amato della Patria”, secondo la celebre espressione di John Ruskin che cento anni fa veniva da tutti evocata a sintesi dell’idea stessa di tutela del paesaggio.

3. Occorre dunque guardarsi dall’inganno per cui, a un esame disattento delle implicazioni, sembrerebbero non esservi ricadute nocive per la primazia della tutela del paesaggio. 

Così, in verità, non è: anche indipendentemente dal rapporto con la tutela del paesaggio, va anzitutto rilevato che, in questa formalizzata tutela de «l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni», si può implicare finanche il più ingannevole greenwashing industriale, solo che si vesta appunto di quel comodo e generoso abito. Del resto, oggi finanche il carbone, per taluni, è “verde”, come è verde l’operazione industriale della sostituzione con l’auto elettrica del parco auto circolante, come “verdi” sono le distese di centinaia di ettari di pannelli fotovoltaici messi nei campi agricoli, o i “parchi eolici” che, in nome di quella religione dell’eolico che in Francia sta facendo insorgere molti per le devastazioni che reca, stanno cambiando il volto dei paesaggi appenninici, finora sopravvissuti alla cementificazione. E così si viene direttamente al conflitto tra questa tutela del «l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi» e la tutela del paesaggio consacrata dall’art. 9, secondo comma, della Costituzione. Il punto, reale, è che davvero troppo è in sé acriticamente qualificabile come “verde”, anche operazioni pianificate essenzialmente per lucrare i generosi incentivi pubblici.

È piuttosto un dato oggettivo e realistico che la tutela del paesaggio non sempre va d’accordo con la tutela dell’ambiente se questa è acquisita nella sua declinazione industrialista. Una tale declinazione oggi insidia non infrequentemente il concetto, certo positivo ma non sufficientemente specificato su questo lato, della “transizione ecologica”. In effetti, alcuni suoi sostenitori assumono che qualsiasi opera vi trovi giustificazione in nome del contrasto del riscaldamento globale e che perciò prevale sempre e comunque sulla tutela paesaggistica: perciò polemizzano con le soprintendenze, a loro dire ree di rallentarla; e propugnano la diffusione senza contrasti, dovunque e comunque, dei “parchi” fotovoltaici ed eolici. Il “nemico” della transizione ecologica parrebbe dunque, a dire di costoro, essere costituito dall’effettività della tutela del paesaggio e dagli organi statali che vi danno concretezza … 

In termini concettuali, il rischio, prima ancora che nell’indefinitezza del concetto di “transizione ecologica”, si annida già nel corto circuito logico del “pensare globale – agire locale” e nell’intrinseca ambiguità dello “sviluppo sostenibile”, pur se – come detto – non menzionato da questa proposta. “Pensare globale e agire locale”, nella decezione insita nel quasi ossimoro dello “sviluppo sostenibile” (sarebbe stato meglio a suo tempo tradurre “sustainable development” in “sviluppo durevole”, come si è fatto in francese con “développement durable”, a rimarcare la durevolezza nel tempo del risultato e ad attenuare il peso del pilastro economico rispetto a quelli ecologico e sociale), ha un significato pratico di enorme impatto: significa la disponibilità del valore del paesaggio a fronte di qualsivoglia intervento asserito di “transizione ecologica”; un effetto materialmente e culturalmente devastante per l’Italia e costituito dal sacrificio, di forme e proporzioni inedite, dei paesaggi italiani; e quale che ne sia il pregio e il valore identitario. Tutto questo in nome di un’asserita e futuribile “decarbonizzazione” e del contrasto del mutamento climatico: come se coprire i terreni agricoli di pannelli fotovoltaici e le dorsali appenniniche di torri eoliche possa davvero comportare un’effettiva incidenza sul riscaldamento globale, visto che l’Europa intera contribuisce al riscaldamento con meno di un decimo delle emissioni globali mentre l’Amazzonia continua a essere bruciata, il PIL della Cina continuerà a crescere con ritmi a due cifre all’anno con effetti evidentemente globali da emissioni di carbonio che dovranno raggiungere il picco tra il 2025 e il 2030, e l’India semplicemente sembra ignorare il problema. Esiste, è il caso di davvero domandarsi, una reale e ragionevole proporzione di prezzo tra il danno elevatissimo che va a subire la configurazione dell’Italia e l’effettivo contributo alla mitigazione del riscaldamento globale che può offrire il sacrificio del suo paesaggio? La risposta negativa è in re ipsa e dovrebbe condurre il Parlamento ad accentuare la prudenza e alzare la guardia di fronte ad una tale temeraria innovazione costituzionale: ad evitare che, per il paesaggio italiano, la “transizione ecologica” si traduca in un costo elevatissimo e insensato, dall’effetto per di più pressoché irrilevante. 

Insomma, si profila con ogni serietà il rischio che la modifica costituzionale possa provocare, quale suo immediato effetto tangibile, quello di subordinare la tutela paesaggistica alla straripante diffusione degli impianti industriali di produzione di energia da fonti rinnovabili: La devoluzione, a quel punto, alle mere logiche di mercato (tolti di mezzo gli orpelli amministrativi della tutela paesistica) li dice destinati a essere realizzati lì dove la proprietà privata è più debole e più facilmente aggredibile, ossia nei terreni agricoli e nelle aree interne. La modifica degli articoli 9 e 41 Cost., senza poter in realtà innovare al bilanciamento e agli equilibri tra i valori costituzionali di tutela dell’ambiente salubre e di iniziativa economica privata, finirebbe così per veicolare senza remore la trasformazione industriale dei paesaggi agrari e appenninici del Paese: un nuovo “interesse tiranno”, capace di facilmente travolgere la tutela paesaggistica che ancora lo conteneva. Sono segnali inequivoci e ben visibili di questa dinamica aggressiva il conflitto, di dimensioni ormai fuori da ogni proporzione, intorno a elefantiaci progetti di parchi fotovoltaici nelle campagne della Tuscia, dove la Regione Lazio ricusa di considerare (come invece richiede la Soprintendenza) l’effetto paesaggistico della sommatoria dei numerosi progetti (ciascuno per decine e decine di ettari di suolo agricolo) presentati in sequenza o in parallelo da più operatori economici; o la recente disciplina semplificatoria inserita nel decreto-legge di semplificazione n. 77 del 2021 (Capo VI, Accelerazione delle procedure per le fonti rinnovabili, artt. 30-32) per limitare i controlli paesaggistici in relazione ai progetti – dichiaratamente attuativi della “transizione ecologica” – per la realizzazione delle suddette tipologie di impianti. 

Si dice: «ma è l’Europa che ce lo chiede». Ma non è così. L’Europa fissa obiettivi strumentali solo percentuali: il regolamento (UE) 2021/1119 del 30 giugno 2021 “che istituisce il quadro per il conseguimento della neutralità climatica” (detto – in accentuazione comunicazionale – “European Climate Law” o “Loi européenne sur le climat”) e il pacchetto “Fit for 55” del 14 luglio 2021 finalizzato a ridurre entro il 2030 le emissioni di gas serra del 55% rispetto al 1990 (in vista della “carbon neutrality” da raggiungere entro il 2050). Però lascia alla responsabilità degli Stati membri di scegliere il mix qualitativo di misure da loro stimate più congrue e opportune a seconda delle caratteristiche del Paese. Siamo noi (per il mezzo dei rappresentanti governativi inviati a negoziare a Bruxelles) che ci siamo accollati impegni e ancor più “ambiziosi obiettivi” che rischiano di sancire l’ulteriore devastazione dei paesaggi italiani e stavolta su vasta scala (“ambizioso”, “ambitious” è un aggettivo che ormai ricorre con la frequenza di un intercalare nei vari documenti, europei e nazionali, nella materia: un aggettivo che la logica giuridica imporrebbe di trattenere quando si formulano testi che vogliano essere davvero normativi, com’è buona regola per le aggettivazioni ridondanti).

In questi termini, occorre prima di tutto precisare cosa davvero, sul versante del paesaggio italiano, deve significare l’ancora troppo impreciso concetto di “transizione ecologica”: la produzione di “energie pulite” non deve infatti comportare lo stravolgimento del volto dei nostri territori (agire locale, ma pensare globale …). Occorre non generare gravi danni collaterali locali, certi e immediati, in una guerra globale dagli esiti futuri e assai complessi (e con gravi difficoltà di partenza, come indica l’indirizzo del contenimento del climate change insito in mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici: i primi due dei sei obiettivi ambientali del fondamentale regolamento (UE) 2020/852 del 18 giugno 2020 sulla tassonomia della finanza sostenibile).

Questa è in realtà l’urgenza, non già la prospettata modifica costituzionale. Ma ahimè nessuna norma viene immaginata per instradare gli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili solo verso il brown field, le tante migliaia di capannoni abbandonati o meno che da tempo hanno devastato la gran parte delle aree e delle conurbazioni di tutta l’Italia. Continua insomma a prevalere la solita, usurata logica degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, per la quale l’agricoltura è di suo un disvalore da cancellare, sicché sono aggrediti in primo luogo e soprattutto i terreni agricoli, dove la proprietà è povera e debole, ma non le coperture dei manufatti delle imprese industriali e commerciali, pur se fallite e in liquidazione.

Se non si impongono questi previi limiti definitori all’attuale latitudine indeterminata della “transizione ecologica”, che ha assorbito la tutela dell’ambiente polarizzandola in senso industriale, è al massimo livello pericolosa l’inedita modifica dei principi fondamentali della Costituzione. Senza un tale previo chiarimento, dopo la modifica costituzionale risulterebbe addirittura coperto costituzionalmente un piano o un programma che decretasse la libera realizzazione di parchi eolici e fotovoltaici, oggi invece esposto a seri e fondati dubbi per contrasto con l’art. 9, secondo comma. Questo, e solo questo, sarebbe il risultato pratico di una così inutile, e soprattutto dannosa, modifica di un principio fondamentale della Costituzione.

Per questi motivi chi ha a cuore il volto amato della Patria, dunque la tutela del paesaggio, non può non essere preoccupato per quest’incauta proposta di modifica del principio fondamentale costituzionale, utile solo a rafforzare il tentativo (in atto sotto l’usbergo degli “ambiziosi” obiettivi di ripresa e resilienza) di spazzar via ogni plausibile e giustificata resistenza al dilagare incontrollato di invasivi impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili.

Cosa cambia ora che la tutela dell’ambiente è stata inserita nella Costituzione

(Wired 12 2 2022) Gianluca Schinaia

Aumenteranno le istanze a favore di fauna e flora, ma anche quelle di nuovi attori come i rifugiati climatici: la Costituzione italiana diventa una delle più innovative e intransigenti nel rispetto degli obiettivi di sviluppo sostenibile

In Italia nulla sarà più come prima: i diritti dell’ambiente, non come habitat umano ma come bene autonomo, entreranno nelle aule giudiziarie. E lo stesso succederà per la tutela degli animali, della biodiversità e degli interessi delle prossime generazioni. Una rivoluzione gentile, ma non meno dirompente, che investe anche l’iniziativa economica privata, d’ora in avanti sottoposta al vincolo di non creare danno alla salute e all’ecosistema. Per chi pensa che siano solo belle parole, basta immaginare le implicazioni concrete dei nuovi articoli della Costituzione sulla gestione passata, presente e futura dell’Ilva di Taranto, le ricadute sulla normativa sulla caccia o il riconoscimento dello status di rifugiato per chi scappa da zone del mondo colpite dalla crisi climatica.

L’8 febbraio non è stata approvata solo una riforma costituzionale, ma “una visione: critichiamo tanto il Parlamento, ma stavolta, e finalmente, il legislatore ha fatto il suo mestiere e così è riuscito a dare forma a una visione che passa alle nuove generazioni”. Sono le parole di Marilisa D’Amico, docente ordinario di diritto costituzionale e prorettrice con delega alla legalità, trasparenza e parità di diritti all’Università degli Studi di Milano, che ha spiegato a Wired la portata innovativa dell’ultima riforma costituzionale. 

Nel 2019 D’Amico è stata sentita in audizione al Senato proprio per valutare le proposte di legge che hanno dato origine all’attuale riforma. All’inizio erano 4 e la prima intendeva inserire solo la parola “ambiente” nell’articolo 9. Le proposte nascevano per rispondere a un’attenzione sociale cresciuta in Italia e rilevata da diversi giudici nelle sentenze degli ultimi vent’anni, nonché di seguire un trend internazionale che ha visto molte costituzioni incorporare la tutela dell’ambiente. Questa volta, In Italia si è fatto di più. 

Ecco cosa è successo e perché si tratta di un cambiamento radicale nel nostro ordinamento:

La riforma: i nuovi articoli 9 e 41 della Costituzione

Penso che sia una giornata epocale”, ha commentato l’8 febbraio il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, al momento del voto finale della riforma alla Camera. Una consultazione passata con 468 voti a favore, 1 contrario e 6 astenuti: in pratica un plebiscito, che ha consentito di evitare l’ipotesi di sottoporre la legge di riforma a un referendum consultivo. Secondo l’articolo 138 della Costituzione, le leggi di revisione devono infatti essere approvate “da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi”. 

La prima delle quattro approvazioni è stata del Senato, che l’ha trasmessa alla Camera il 9 giugno 2021: in piena pandemia, è stato concluso l’iter approvativo di questa legge di riforma costituzionale in meno di 8 mesi. Roba da record. “Sono stati molto veloci, vuol dire che ci credevano – osserva la docente – Quando ci sono alcuni temi importanti, a volte i parlamentari riescono ad avere una visione comune: purtroppo non succede spessissimo, ma questa è stata una bella pagina” della storia parlamentare. 

Pensando anche al fatto che si partiva da una prima proposta iniziale che intendeva inserire nell’articolo 9 la sola parola “ambiente”. Oggi invece sono stati fortemente modificati due diversi articoli: il 9 e il 41. L’articolo 9 fa parte dei principi fondamentali della Costituzione: conteneva già la tutela del patrimonio paesaggistico e del patrimonio storico e artistico della nazione, ma con la riforma la tutela si allarga all’ambiente, alla biodiversità, agli ecosistemi e agli animali. La modifica all’articolo 41, invece, sancisce che la salute e l’ambiente sono paradigmi da tutelare da parte dell’economia, al pari della sicurezza, della libertà e della dignità umana. E che le istituzioni possano orientare l’iniziativa economica pubblica e privata verso fini sociali e ambientali.

La Costituzione assegna all’ambiente una dignità autonoma

La Carta costituzionale non conteneva un riferimento espresso alla nozione di “ambiente” (a parte l’articolo 117, che lo indica tra le materie di competenza esclusiva statale). Questa riforma non solo lo nomina, ma lo definisce con una “dignità autonoma”: il mondo e gli esseri viventi intorno a noi devono essere tutelati in quanto tali, e non solo come strumenti o risorse dell’umanità.

In questa legislatura sono state approvate altre due leggi di rango costituzionale, oltre quella dell’8 febbraio. La prima, nel 2020, ha ridotto il numero dei parlamentari e la seconda, nel 2021, ha abbassato da 25 a 18 anni l’età per eleggere i componenti del Senato. “Tra queste tre, a mio parere, quella dell’articolo 9 e 41 è la più importante e rilevante”: ecco perché secondo la prorettrice. Fino ad oggi la nozione di ambiente è stata riconosciuta in un’ottica antropocentrica, legata al diritto alla salute dell’uomo: l’individuo è beneficiario della tutela giuridica e non l’ambiente in quanto tale (escluso il suo valore paesaggistico, che è sempre figlio di una visione umana). 

Adesso è stata adottata una concezione oggettivistica dell’ambiente: si tratta di un’acquisizione che si pone in linea con l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale che ha valorizzato la dimensione autonoma della nozione di ambiente negli ultimi anni”. In passato la tutela costituzionale dell’ambiente era menzionata in riferimento all’articolo 32, ovvero il diritto a un ambiente salubre. Negli anni Settanta e Ottanta, questa è stata la visione della Corte Costituzionale nelle sue sentenze: un ambiente da proteggere perché strumento dell’uomo, non come bene in sé. La Corte comincia a cambiare orientamento con la decisione numero 67 del 1992, poi con la riforma del Titolo V e quindi con due sentenze del 2016 e del 2018, dove l’ambiente non è più considerato come materia ma quale valore costituzionalmente protetto.

Bastavano i principi delle sentenze della Corte Costituzionale?

No. Innanzitutto perché l’Italia è un ordinamento di civil law, dove le sentenze non sono vincolanti per altre sentenze, come nei paesi di common law. E se anche oggi, come nel caso del greenwashing, le sentenze dei giudici sono sempre più rilevanti per costruire principi giuridici, una legge scritta è un’altra cosa. 

Se lo scrivo – spiega D’Amico – questo principio diventa il parametro, il valore a cui tutte le leggi e tutte le azioni dello Stato devono rapportarsi. Se invece lo lascio ai giudici o all’arbitrio del legislatore non vincolo l’ordinamento. Tra l’altro, le tutele dell’articolo 9 sono state inserite tra i principi supremi della Costituzione”.Gli effetti della riforma costituzionale

I nuovi articoli imporranno che “qualsiasi legge e qualsiasi non legge sia valutata alla luce di questi principi” precisa la prorettrice. Vuol dire che non solo se esiste una legge contraria alla tutela dell’ambiente o alla biodiversità potrà essere portata davanti alla Corte costituzionale per farla dichiarare incostituzionale. Ma che se non esiste una legge a favore di questi principi, è possibile reclamare in modo formale affinché sia presentata in Parlamento. Il risultato? 

Sebbene i nuovi principi non possano agire retroattivamente, per la docente è più che probabile che possano già incidere nei processi aperti: “Sicuramente l’orientamento giurisprudenziale cambierà o comunque dovrebbe tenere conto di queste nuove norme costituzionali”. 

Facciamo qualche esempio. Il caso Ilva sarà sicuramente investito da questa riforma, a tutto vantaggio di chi difende il diritto di un ambiente sano. Per cui il nesso di causalità tra decessi e inquinamento potrebbe avere un peso probatorio diverso. 

Oppure il tema dei rifugiati climatici: questa riforma, approvata anche da forze politiche sicuramente poco inclini ad appoggiare i diritti dei migranti, potrebbe cambiare radicalmente la legittimità delle richieste di asilo di chi affronta il Mediterraneo per scappare da zone caldissime o inondate dall’innalzamento dei mari. E cosa dire sulle leggi che tutelano la caccia o su quelle che disciplinano le macellazioni o sulla disciplina delle manifestazioni dove gli animali possono essere vittime di lesioni?Le altre costituzioni e la responsabilità intergenerazionale

Sono numerosi gli ordinamenti che hanno scelto di assicurare una tutela esplicita in Costituzione alla materia ambientale. Solo per citare quelli a noi più vicini geograficamente: Finlandia, Belgio, Grecia, Portogallo, Spagna, Germania, Paesi Bassi, Norvegia e Francia. In quest’ultima, dal 2005 la Costituzione contiene una Carta dell’ambiente (Charte de l’environnement) tramite la quale l’ambiente è stato elevato a bene costituzionalmente protetto. Un orientamento condiviso a livello di diritto europeo ed espresso dagli ultimi accordi internazionali nati dalla crisi climatica, che vanno oltre il “green” in direzione dei temi sociali ed economici propri dei tre pilastri dello sviluppo sostenibile

Ecco anche perché, per esempio, in Germania quando si menzionano norme sulla tutela di ambiente e animali si cita espressamente la responsabilità verso le future generazioni. Un principio inserito anche dai nuovi articoli costituzionali italiani, che secondo D’Amico rende nel complesso la nostra riforma la più completa. “La Costituzione italiana non conteneva una norma che garantiva esplicitamente il principio di equità/solidarietà intergenerazionale. Siamo arrivati dopo rispetto ad altri paesi ma oggi abbiamo anche questo principio, e il nostro impianto costituzionale adesso è il più completo” in termini di tutela legale sui temi cardine dello sviluppo sostenibile. E salvaguardare i diritti delle prossime generazioni potrebbe essere uno dei primi casi in cui in qualche modo interviene direttamente il nuovo impianto costituzionale.

Laclimate litigation italiana e la nuova riforma

Si tratta di una decisione storica. In particolare il riferimento all’interesse delle future generazioni sarà prezioso anche per l’azione legale climatica contro lo Stato”, afferma Marica Di Pierri, portavoce dell’associazione A Sud, una delle rappresentanti della prima climate litigation italiana, chiamata Giudizio Universale, in cui 200 ricorrenti hanno citato in giudizio lo Stato per inadempienza climatica, “ovvero per l’insufficiente impegno nella promozione di adeguate politiche di riduzione delle emissioni clima-alteranti”. Articoli più letti

Secondo Di Pierri, la riforma “è un avanzamento importante che adesso deve però essere tradotto in politiche sostanziali. Crediamo però che un ambizioso balzo in avanti sarebbe stato inserire in Costituzione anche la tutela della stabilità climatica, come avvenuto già in alcuni paesi. La tutela del clima stabile infatti avrebbe fornito uno strumento diretto per la tutela dei diritti dagli impatti climatici. In ogni caso, il nuovo testo fornisce un riferimento giuridico di massimo livello per tutte le istanze di protezione degli equilibri ambientali e dei diritti umani legati all’ambiente”. La prima udienza di Giudizio Universale è stata a dicembre scorso. Secondo i ricorrenti, l’Avvocatura dello Stato ha ignorato del tutto, nella sua risposta scritta in occasione dell’udienza, gli allarmi più recenti degli scienziati sulla crisi climatica. La formula utilizzata dall’Avvocatura è “ad impossibilia nemo tenetur”, che significa letteralmente “Nessuno è tenuto a fare l’impossibile. Ma la revisione degli articoli 9 e 41 della Costituzione apre nuovi scenari. E forse Giudizio Universale potrebbe essere una delle prime cause a beneficiare direttamente della rivoluzione gentile che attraverso la Costituzione apre all’Italia una prospettiva concreta di tutela giuridica dei principi di sviluppo sostenibile.

14 febbraio 2022

Per osservazioni e precisazioni: laboratoriocarteinregola@gmail.com

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