La migrazione spiegata ai bambini. L’empatia come chiave di accesso alla conoscenza
Autore : Redazione
(da Questione Giustizia 25 maggio 2025)
La migrazione spiegata ai bambini. L’empatia come chiave di accesso alla conoscenza
di Ornella Fiore
avvocata in Torino e socia ASGI, al cui interno è referente del gruppo “educazione e scuola”
Pensieri a margine della lettura di I vermetti e il peremoto, di Luciana Breggia (Milano, TS Edizioni, 2024, Fondazione Terra Santa).
Non so neppure se ci siano delle parole in grado di spiegare. In ogni caso, si tratta di una realtà che muove da un lato all’altro. All’inizio tutto si svolge secondo normalità, siamo sistemati negli angoli e lungo le fiancate della “piroga” lasciando i posti più comodi ai bambini, alle donne e agli uomini meno in forze. Lasciavamo uno spazio all’interno della barca giusto per poter camminare un po’ mentre tutti rimanevano seduti spalla contro spalla incastrati come pezzi di un montaggio. Eravamo guidati da un capitano e da un aiutante che controllava la rotta con una bussola: io gli ero seduto accanto. Quando siamo partiti c’erano dei libici che si erano imbarcati per guidarci fino al calar del sole, quando le nubi erano ancora chiare nel cielo. Quando il capitano ha preso il comando si è visto che non era in grado di governare la barca: è allora che la paura ha cominciato a diffondersi con il caos che ne è seguito. La “piroga” procedeva a zig-zag e chi aveva la nausea ha cominciato a vomitare. Quando è scesa la notte tutto era buio e le onde s’infrangevano su di noi e riempivano il fondo della barca: a turno cercavamo di svuotarlo. Alcuni gridavano quando avevano degli incubi e altri avevano visioni spaventose. Il panico regnava e molti evitavano di dormire temendo che la notte potesse portarseli via. Quelli che erano feriti già prima del viaggio non hanno potuto resistere al freddo, all’acqua salata e alla denutrizione sofferta durante il viaggio verso la Libia: così hanno perso l’anima molto presto. Molti di noi avevano paura di ritrovarsi accanto a loro o nel posto dove erano seduti. Per alcuni c’erano degli spiriti maligni nella barca mentre io sostenevo che la mancanza di cibo, la fame, la disidratazione, l’insonnia, la fatica e la paura provocano le allucinazioni.
Io avevo una paura folle perché non vedevo che vuoto, una sorta di muro nero che ci circondava. Potevi guardare ma non vedevi altro che del nero intorno a te. E sapendo di essere nel mezzo del nulla se non di un oceano dove non hai dove posare le mani per aggrapparsi se la piroga andava ad affondarsi o subire un naufragio. Ma il peggio non era neppure il rischio di affondare quanto piuttosto la presenza di alcune persone accanto a noi. Infatti per evitare scontri o malintesi abbiamo cominciato a raccoglierci in piccoli gruppi composti da chi proveniva dalla stessa località o da coloro che si erano conosciuti prima del viaggio. Il rischio, infatti, era di essere maltrattato per il solo fatto di guardare qualcuno, di essere considerato un demone o un mostro. E tutto questo solo a causa della paura. Quella paura che induceva alcuni a sentire dei richiami provenire dai loro famigliari, ad alzarsi per rispondere a quelle voci. Se noi cercavamo di trattenerli ci rispondevano: “lasciami perché lui o lei mi stanno chiamando!”. Ma in quel modo rischiavano di cadere in acqua e per alcuni è stata la loro fine. Il viaggio è duro ma la parte più spaventosa è piuttosto la traversata in mare*.
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Gueye Pape, giovane uomo nato in Gabon ma di cittadinanza senegalese, così descrive la sua traversata del Mediterraneo, avvenuta insieme al fratello maggiore quando aveva circa quattordici anni; ancora oggi, afferma di essere in grado di comprendere a prima vista se una persona straniera sia arrivata in Italia affrontando, come lui, il mare.
È possibile spiegare ad un bambino nato e cresciuto dall’altra parte di quella costa ciò che vi accade quotidianamente? Come si può avvicinarlo a quello strazio senza straziarlo? E, infine, è proprio necessario farlo?
Parto senz’altro da quest’ultima domanda rispondendo affermativamente. Anche solo perché potrebbe trattarsi della storia di un compagno di scuola, di un vicino di casa, di un amico conosciuto al parco giochi o dei relativi familiari: si tratta di consentirgli di fare un passo in avanti verso persone che fanno parte della sua vita quotidiana, ma che sono portatrici di esperienze e vissuti assai distanti da quelli a cui è abituato. Come ha ben raccontato anche Pape, dall’ignoranza nasce la paura, nel vuoto di prospettive si fanno largo le visioni, le superstizioni, le ostilità verso il prossimo. E poi occorre allenare il prima possibile quella «superiore forma di intelligenza che si potrebbe chiamare “il senso dell’altro”. L’intelligenza classica comporta raramente questa virtù del tutto paragonabile al dono delle lingue: chi ne è provvisto sa che ogni persona è un linguaggio specifico e che tale linguaggio può essere appreso a condizione di ascoltarlo con la più estrema apertura di cuore e di sensi. È anche per questo che si tratta di una facoltà analoga all’intelligenza: ha a che fare con la comprensione e la conoscenza. Le persone intelligenti che non sviluppano questo accesso all’altro diventano, nel senso etimologico del termine, degli idioti: esseri centrati su sé stessi[1]».
L’empatia, dunque.
Luciana Breggia punta proprio sul meccanismo di immedesimazione per spingere i bambini a comprendere chi decide (o non decide, perché costretto dalle circostanze) di partire, lasciandosi alle spalle la propria casa. I piccoli vermetti protagonisti del suo libro si ritrovano senza, dopo che un brusco peremoto ha devastato i morbidi, succosi e freschi frutti in cui vivevano. L’intervento dell’uomo costringe le piccole creature a rivoluzionare la propria esistenza, avventurandosi in un viaggio lungo e pericoloso, verso la zucca in cui potranno essere di nuovo al sicuro, trovandovi cibo e riparo. Ma prima perderanno alcuni compagni ed affronteranno «uno specchio d’acqua che sembrava infinito», nella parte del racconto in cui maggiormente ci si può avvicinare al senso di smarrimento, paura e, al contempo, speranza che accompagna la migrazione.
L’esodo è descritto come «inevitabile», giacché non si può sopravvivere senza beni primari, indipendentemente dal motivo per i quali si sono perduti. In questo caso, le ragioni sono imputabili ad agenti esterni riconducibili a disastri ambientali, che modificano irreversibilmente il contesto di appartenenza dei protagonisti.
Si tratta di aspetto centrale nel libro, che rispecchia l’evoluzione della sensibilità comune, cambiamento intercettato dalla stessa giurisprudenza italiana nel corso degli ultimi anni.
Il 18 settembre 2019, così si esprimeva il Tribunale di Torino nei confronti di B.E., richiedente protezione proveniente dal Delta State nigeriano: «Ritiene il Collegio che la domanda debba essere respinta per le ragioni che seguono. Nel caso di specie, non sono state allegate e documentate specifiche ragioni di tutela della salute del richiedente, suscettibili di giustificare l’accoglimento della domanda. Con riguardo all’allegata situazione di inquinamento ambientale causata dallo sfruttamento dei bacini petroliferi presenti nel Delta State, è ben vero che le fonti citate dal ricorrente, e in generale le COI reperibili sul Paese di provenienza del predetto, ne denunciano le gravi ripercussioni sul piano sia economico-sociale (aumento della povertà, del tasso di disoccupazione e del tasso di criminalità) sia della salute della popolazione. Tuttavia, ad avviso del Collegio, ciò non è sufficiente ai fini dell’accoglimento della domanda di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Si evidenzia, da un lato, come le denunciate conseguenze, pur gravi, sulla salute in generale della popolazione del Delta State rappresentino una potenziale causa di vulnerabilità (esponendo il richiedente ad eventuali rischi per la salute sul lungo periodo), come tale inidonea a giustificare la concessione dell’invocata protezione. Si rammenta, dall’altro, come -in conformità all’orientamento più volte ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione- le situazioni di difficoltà, anche estrema, di carattere economico e sociale non siano sufficienti in sé stesse, in assenza di specifiche condizioni di vulnerabilità, a giustificare il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari (cfr. Cass. civ. Sez. I, Sent., 24-09-2019, n. 23757; Cass. civ. Sez. I, Ord., 24-09-2019, n. 23769; Cass. civ. Sez. I, Ord., (u d . 19/02/2019) 20-03-2019, n. 7831)».
Dunque, i disastri ambientali venivano individuati quale possibile causa di protezione solo se impattanti, nell’immediato e concretamente, sulla salute del richiedente, essendo equiparati altrimenti a mere «situazioni di difficoltà, anche estrema, di carattere economico e sociale». Il Tribunale, perciò, mostrava di equiparare la posizione del migrante ambientale a quella del migrante economico, la cui posizione veniva pertanto reputata irrilevante ai fini del riconoscimento di qualsivoglia forma di protezione.
Con l’ordinanza n. 5022/2021 pubblicata il 24 febbraio 2021, la Corte di Cassazione interveniva in un procedimento concernente un ricorrente originario del Delta State, mostrando di aver recepito le conclusioni del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite nella decisione del 24 ottobre 2019, resa nel celebre caso Ioane Teitiota v. Nuova Zelanda. Quest’ultima vicenda traeva origine dalla richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato avanzata in Nuova Zelanda dal signor Teitiota, cittadino della Repubblica di Kiribati, in Oceania, che aveva lasciato l’isola in cui abitava – Tarawa – a causa del progressivo innalzamento del livello mare, causato dal riscaldamento globale. L’uomo ne aveva rappresentato le pesanti ripercussioni sulla qualità dell’esistenza degli abitanti: l’acqua potabile era divenuta scarsa a causa della contaminazione da acqua salata e del sovraffollamento dell’isola, inoltre le terre abitabili su Tarawa erano state erose dal mare, provocando dispute sul relativo possesso, che, in alcuni casi, avevano determinato numerose vittime. Esauriti tutti i ricorsi interni, il signor Teitiota si era rivolto al Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, affermando che, respingendo lui e la sua famiglia verso Kiribati, la Nuova Zelanda aveva violato il suo diritto alla vita, riconosciuto dall’art. 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 16 dicembre 1966.
Il Comitato ne respingeva il ricorso, ma, per la prima volta, metteva in relazione il principio di non-refoulement e i diritti fondamentali dell’uomo, statuendo l’obbligo per gli Stati di non estradare, deportare, espellere o in altro modo allontanare una persona dal proprio territorio in paesi in cui gli effetti dei cambiamenti climatici potrebbero esporla a fenomeni potenzialmente letali (art. 6 del Patto) o in cui correrebbe, per la medesima ragione, un rischio concreto di essere sottoposta a trattamenti crudeli, disumani o degradanti (art. 7).
Tali statuizioni venivano richiamate dalla Corte di Cassazione, partendo dal presupposto che lo stesso giudice di merito avesse descritto l’area di provenienza del ricorrente come interessata da «una grave situazione di dissesto ambientale», dovuta soprattutto allo sfruttamento indiscriminato operato dalle compagnie petrolifere ed ai numerosi sversamenti di petrolio, a causa dei quali vaste zone sono state contaminate: «In particolare, il Comitato ONU ha ritenuto che il principio generale del non refoulement, che vieta il rimpatrio di un richiedente asilo in un contesto territoriale in cui ci siano sostanziali rischi di danno irreparabile alla sua incolumità personale o a quella dei suoi familiari, si applica a tutte le condizioni di pericolo, poiché il diritto individuale alla vita comprende anche quello ad una esistenza dignitosa e alla libertà da ogni atto od omissione che possa causare una innaturale o prematura scomparsa della persona umana». Inevitabile perciò, sulla base del ragionamento seguito dalla Corte, il riferimento al «concetto di “nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale” affermato da questa Corte con riferimento allo scrutinio che il giudice di merito deve condurre ai fini dell’accertamento del rischio derivante dal rimpatrio, e della conseguente vulnerabilità individuale che legittima il riconoscimento della protezione umanitaria (…), nucleo che “costituisce il livello essenziale, al di sotto del quale non sono ravvisabili le condizioni di vita dignitose e, quindi, non è assicurato il diritto fondamentale alla vita dell’individuo”».
Anche il signor B.E. beneficiava di tale mutamento di prospettiva, visto che, nel 2023, a distanza di quasi 4 anni dalla prima decisione, si vedeva infine riconoscere dal Tribunale di Torino la protezione speciale, poiché «proviene dalla città di Warri, nel Delta State proprio a ridosso del Delta del Niger, in cui, sulla base delle COI sopra richiamate, persiste una situazione di disastro ambientale e di inquinamento atmosferico ed idrico, con dirette conseguenze sulla fauna e conseguentemente sul cibo, a cui il governo non riesce a fare fronte. Da ciò ne deriva che, in caso di rientro nel Paese di origine, il richiedente vedrebbe irrimediabilmente compromessi i propri diritti fondamentali, primo su tutti il diritto alla vita».
In 4 anni, dunque, la giurisprudenza è arrivata a riconoscere che, a prescindere dalla causa, alle persone debba essere garantita una vita dignitosa, in cui i bisogni primari possano essere soddisfatti.
Luciana Breggia lo spiega in modo convincente ai bambini, descrivendo loro altri essere viventi alla ricerca di un posto sicuro in cui fermarsi. Tra loro, compare anche un bruco che deve portare a termine la metamorfosi in farfalla, riferimento delicato ma efficace all’identità di genere o a qualunque altra condizione nascosta nel contesto di appartenenza, in attesa di piena espressione nel nuovo luogo raggiunto.
La motivazione che spinge vermetti e bruco alla migrazione è diversa, ma non lo sono i loro bisogni perché «abbiamo tutti diritto a un rifugio». La necessità di accudimento, di trovare protezione e stabilità accomuna tutti gli esseri umani e i bambini in particolare: per questo possono riconoscersi nei vermetti alla ricerca di una nuova casa e, al contempo, nelle preoccupazioni dei vermetti arancioni che nella zucca già abitano e che temono di vedere la loro tranquillità compromessa dai nuovi inquilini. Ma gli autoctoni «non sanno chi siamo, da dove veniamo, i problemi che abbiamo avuto, non sanno di cosa abbiamo bisogno! Non sanno nulla di nulla e invece dovranno ascoltarci e solo dopo potranno decidere cosa fare. Decidere senza sapere non si può». E dunque ritorniamo al tema di partenza: la paura che nasce dall’ignoranza, paura che può essere anche quella dei bambini dall’altra parte del mare, che non conoscono chi arriva, lo vedono diverso e non hanno (ancora) gli strumenti per interpretarne le peculiarità.
Luciana Breggia lo sa ed invita prima di tutto questi bambini ad aprirsi, a lasciar vincere la curiosità. A lasciarsi attraversare da nuove storie. Perché, alla fine, siamo tutti molto più simili di quanto possa sembrare.
25 maggio 2024
per osservazioni e precisazioni: laboratoriocarteinregola@gmail.com
(*) Je ne sais même pas s’il y a des mots pour l’expliquer, mais de toute façon, c’est une réalité qui bouge d’un côté à un autre. Au début, tout est dans le sens normal, nous sommes tous positionnés dans les coins et aux alentours du pirogue d’où les parties plus convenables sont occupées par les enfants et femmes ou les hommes moins rigoureux. Laissant aussi l’espace d’où on peut marcher et faire des allers et retours, mais tous assis épaule après épaule serrée comme des pièces montés. Guidé par un capitaine et un autre qui l’aide pour gérer le trajet, c’est-à-dire celui qui contrôle la boussole moi, j’étais assis à son côté. Quand nous sommes partis y avait des Libyens embarqué avec nous pour nous guider et prends voile et c’était à peine le coucher du soleil les nuages étaient encore clair sur le ciel. Dès que notre capitaine a pris les commandes et qu’il n’était pas capable de navire la pirogue sur-le-champs la peur à commencer à s’installer et le caos en suive. La pirogue allait en zic zac et ceux qui avaient les nausées ont commencé à vomir. La nuit tomba et il avait que du noir partout, les vagues se heurtaient sur nous et remplissaient le fond, il y avait des tours de rôle du vidange. Certains criaient à chaque fois qu’ils fessaient des cauchemars et d’autres des visionnaires effrayants. La panique régnait beaucoup avait peur de dormir pensant que la nuit peut leur porter, et être à côté de quelqu’un qui était blessé avant le voyage qui n’a pas pu résister le froid et l’eau salée et le mal nutrition qu’ils sont subis au cours de leur voyage vers libye a fait qu’ils sont perdus l’âme très tôt et beaucoup avait peur d’être à leur côté ou dans les places qu’ils sont été. Pour certains, ils y avaient des mauvais esprits dans la pirogue avec nous, mais moi, j’ai toujours dit que le manque de nourriture, la faim, la déshydratation, l’insomnie, la fatigue et la peur poussent aux gens à l’hallucination. Moi, j’avais tellement peur, car je ne voyais que du vide, on dirait un mur noir nous entourer, tu pouvais regarder, mais tu ne voyais rien que du noir au tour. Et sachant qu’on était au milieu de nul par si ce n’est un océan ou tu n’as pas d’où se poser les mains ou s’accrocher si la pirogue allait s’effondrer ou subirait un naufrage. Et toujours le pire ce n’est pas le risque de s’effondrer, mais des autres qui sont dedans avec nous, pour éviter toute querelle ou tout mal entendus nous nous sommes mis en de petits groupes qui sont venus dans de mêmes lieux ou qui se connaissaient déjà avant le voyage, car ils suffisaient de regarder quelqu’un et il peut le prendre mal ou te taxer de démon ou de monstre et tout cela a été engendré par la peur. Cette même peur qui portait à certains d’entendre des appels de par leur famille et qu’ils se levaient pour aller répondre à des voix que seulement entende. En les tenant pour les empêcher de descendre qu’ils nous répondaient: laisse-moi celui-ci ou celle-là m’appelle. Si on n’est pas prudent, ils risquent de se jeter sur l’eau et pour certains, c’est leur fin. Le voyage est dur, mais la partie effrayante, c’est plutôt sur la traversée de la mer».
[1] A. Nothomb, Riccardin dal ciuffo, Roma, Voland, febbraio 2017, p. 12.