La sentenza della Consulta che dichiara incostituzionale il PTPR della Regione Lazio
Autore : Redazione
Pubblichiamo la sentenza della Corte Costituzionale relativa al Piano Territoriale Paesaggistico Regionale del Lazio, contro il quale il Ministero dei Beni Culturali aveva sollevato un conflitto di attribuzione il 6 maggio 2020 il Ricorso per la DECLARATORIA DI ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE (scarica il PDF del Bollettino regionale RicorsoCollegato. mibact regione maggio 2020 (AMBM)
Sentenza 290/2019 (ECLI:IT:COST:2019:290) Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE
Presidente: … – Redattore: … Udienza Pubblica del 20/11/2019; Decisione del 20/11/2019 Deposito del 27/12/2019; Pubblicazione in G. U. 02/01/2020 n. 1 Norme impugnate: Artt. 5, c. 1°, lett, g), n. 2, h) e i), nn. 5 e 7, e c. 6°, lett. c), 33, c. 1°, lett. a), e 84, c. 1°, lett. b), della legge della Regione Lazio 22/10/2018, n. 7. Massime: Atti decisi: ric. 87/2018
Pronuncia SENTENZA N. 290
ANNO 2019 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE (composta da…) ha pronunciato la seguente SENTENZA
nel giudizio per conflitto di attribuzione tra enti sorto a seguito della deliberazione del Consiglio regionale della Regione Lazio 2 agosto 2019, n. 5, promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 10-20 aprile 2020, depositato in cancelleria il 17 aprile 2020, iscritto al n. 2 del registro conflitti tra enti 2020 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell’anno 2020.
Visto l’atto di costituzione della Regione Lazio;
udito nell’udienza pubblica del 21 ottobre 2020 il Giudice relatore Daria de Pretis;
uditi l’avvocato dello Stato … X per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato ….Y per la Regione Lazio;
deliberato nella camera di consiglio del 22 ottobre 2020.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato il 24-28 dicembre 2018 e depositato il 28 dicembre 2018, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge della Regione Lazio 22 ottobre 2018, n. 7 (Disposizioni per la semplificazione e lo sviluppo regionale) e, tra queste, degli artt. 5, comma 1, lettere g), numero 2), h) e i), numeri 5) e 7), e comma 6, lettera c), 33, comma 1, lettera a), e 84, comma 1, lettera b), in riferimento agli artt. 97 e 117, commi secondo, lettere l), m) e s), e terzo, della Costituzione.
1.1.– L’art. 5, comma 1, lettera g), numero 2), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per violazione degli artt. 97 e 117, secondo comma, lettere m) e s), Cost., in relazione all’art. 25, comma 2, della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette).
L’art. 5, comma 1, lettera g), numero 2), ha modificato il comma 4 dell’art. 26 della legge della Regione Lazio 6 ottobre 1997, n. 29 (Norme in materia di aree naturali protette regionali), disciplinante il procedimento di approvazione del piano dell’area naturale protetta. A seguito delle modifiche, il suddetto piano, dopo essere stato adottato dall’ente di gestione, è trasmesso alla Giunta regionale, la quale apporta le eventuali modifiche e integrazioni, si pronuncia sulle osservazioni pervenute e ne propone al Consiglio regionale l’approvazione. Trascorsi tre mesi dall’assegnazione della proposta di piano alla commissione consiliare competente, la proposta stessa è iscritta all’ordine del giorno dell’aula. A questo punto il Consiglio regionale si esprime su di essa entro i successivi centoventi giorni, decorsi i quali il piano si intende approvato.
Il ricorrente censura quest’ultima previsione in quanto, «nel porre una scansione temporale certa all’iter di approvazione» del detto piano, consentirebbe al Consiglio regionale di svolgere le «attività istruttorie per l’esame e valutazione dello stesso», ma lascerebbe alla Giunta regionale «la possibilità – trascorsi i termini – di pervenire all’approvazione». In sostanza, il legislatore regionale avrebbe introdotto «un vero e proprio meccanismo procedurale di silenzio assenso», che si porrebbe in contrasto con l’art. 25, comma 2, della legge n. 394 del 1991, il quale prevede che «[i]l piano per il parco è adottato dall’organismo di gestione del parco ed è approvato dalla regione […]».
La norma impugnata disattenderebbe dunque la previsione legislativa statale, che prevede un’approvazione formale del piano da parte della Regione. Tale disposizione, contenuta nella disciplina delle aree protette recata dalla legge n. 394 del 1991, sarebbe riconducibile alla competenza esclusiva statale ex art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
Il ricorrente sottolinea altresì come l’istituto del silenzio assenso sia ammesso «in relazione ad attività amministrative nelle quali sia pressoché assente il profilo di discrezionalità, non anche nei procedimenti ad elevata discrezionalità», nel cui ambito rientrerebbe il procedimento di adozione e approvazione del piano del parco di cui all’art. 25 della legge n. 394 del 1991. Inoltre, il ricorso all’istituto del silenzio assenso nella materia ambientale sarebbe limitato dall’art. 20 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi).
Dunque, la previsione di un meccanismo di formazione tacita dell’atto di assenso, per un verso, sarebbe «non rispettos[a] e cautelativ[a] sotto il profilo del contemperamento degli interessi ambientali in gioco», e per altro verso consentirebbe l’approvazione di un provvedimento che prescinde da un ponderato e coerente apparato motivazionale, con conseguente violazione del principio di buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost.
Per le ragioni anzidette la norma impugnata si porrebbe in contrasto anche con l’art. 117, secondo comma, lettere m) e s), Cost., in quanto derogherebbe «ai livelli minimi uniformi previsti dalla legislazione statale nell’esercizio della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente».
1.2.– L’art. 5, comma 1, lettera h), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere l) e m), Cost., in relazione all’art. 4, comma 6, del decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, n. 160 (Regolamento per la semplificazione ed il riordino della disciplina sullo sportello unico per le attività produttive, ai sensi dell’articolo 38, comma 3, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133).
La norma regionale impugnata ha introdotto, dopo il comma 1 dell’art. 28 della legge reg. Lazio n. 29 del 1997, il comma 1-bis, secondo cui «Nel rispetto di quanto previsto dal decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 222 (Individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell’articolo 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124), la richiesta per la realizzazione degli interventi di cui all’articolo 6 del D.P.R. 380/2001 è presentata allo sportello unico di cui all’articolo 5 del medesimo decreto. Per tali fattispecie, il nulla osta di cui al comma 1 è reso entro sessanta giorni dal ricevimento da parte dell’ente gestore della richiesta, decorsi inutilmente i quali il titolo abilitativo si intende reso».
Il ricorrente sottolinea come la norma regionale impugnata sia generica, «non specificando il tipo di intervento edilizio soggetto a nulla osta come previsto dalla normativa statale», e precisa al riguardo che il nulla osta all’intervento è previsto per le opere ricadenti in un’area naturale protetta, «mentre non riguarda anche la realizzazione di altri interventi non soggetti a titolo abilitativo». La difesa erariale aggiunge che, ai sensi dell’art. 4, comma 6, del d.P.R. n. 160 del 2010, «[s]alva diversa disposizione dei comuni interessati e ferma restando l’unicità del canale di comunicazione telematico con le imprese da parte del SUAP, sono attribuite al SUAP le competenze dello sportello unico per l’edilizia produttiva».
La norma regionale impugnata, quindi, non distinguerebbe tra le varie tipologie di opere edilizie ai fini del rilascio del nulla osta e, in particolare, non prevederebbe espressamente le modalità di rilascio del nulla osta per attività produttiva. D’altra parte, l’art. 33, comma 1, lettera a), della stessa legge reg. Lazio n. 7 del 2018, richiamando la normativa statale di riferimento, prevede che lo sportello unico per le attività produttive (SUAP) «è l’unico punto di accesso in relazione a tutte le procedure amministrative riguardanti la localizzazione, la realizzazione, l’avvio, l’ampliamento, il trasferimento, la cessione, la concentrazione e l’accorpamento nonché la cessazione» delle attività produttive.
La norma impugnata si porrebbe, dunque, in contrasto con l’art. 4, comma 6, del d.P.R. n. 160 del 2010 e quindi con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che riserva alla legge statale la competenza in materia di ordinamento civile, oltre che con l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto la disciplina in materia di segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) rientrerebbe nei livelli essenziali delle prestazioni ai sensi dell’art. 29, comma 2-ter, della legge n. 241 del 1990.
1.3.– L’art. 5, comma 1, lettera i), numero 5), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione all’art. 13 della legge n. 394 del 1991.
La norma regionale impugnata ha introdotto, dopo il comma 1 dell’art. 31 della legge reg. Lazio n. 29 del 1997, il comma 1-bis, secondo cui «[s]ono consentiti e non rientrano negli obblighi di cui all’articolo 28 le ricorrenti pratiche di conduzione delle aziende agricole che non comportino modificazioni sostanziali del territorio ed in particolare: a) la manutenzione ordinaria del sistema idraulico agrario e del sistema infrastrutturale aziendale esistenti; b) l’impianto o l’espianto delle colture arboree e le relative tecniche utilizzate; c) l’utilizzo delle serre stagionali non stabilmente infisse al suolo; d) il transito e la sosta di mezzi motorizzati fuori dalle strade statali, provinciali, comunali, vicinali gravate dai servizi di pubblico passaggio e private per i mezzi collegati all’esercizio delle attività agricole di cui al presente articolo; e) l’ordinamento produttivo ed i relativi piani colturali promossi e gestiti dall’impresa agricola; f) la raccolta e il danneggiamento della flora spontanea derivanti dall’esercizio delle attività aziendali di cui all’articolo 2 della L.R. 14/2006».
La norma in esame è impugnata perché escluderebbe dall’obbligo del nulla osta, di cui all’art. 28 della stessa legge reg. Lazio n. 7 del 2018, «interventi e attività che possono arrecare impatti, anche notevoli, sull’ambiente naturale, consentendone la realizzazione/svolgimento in tutte le zone dell’area protetta», compresa la zona A di riserva integrale, senza prevedere alcuna modalità di verifica e di controllo sugli interventi.
Siffatta previsione si porrebbe, quindi, in contrasto con l’art. 13 della legge n. 394 del 1991, secondo cui «[i]l rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all’interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta dell’Ente parco. Il nulla osta verifica la conformità tra le disposizioni del piano e del regolamento e l’intervento ed è reso entro sessanta giorni dalla richiesta. Decorso inutilmente tale termine il nulla osta si intende rilasciato. […]». La previsione del detto nulla osta sarebbe quindi volta a verificare la coerenza degli interventi rispetto alla «disciplina di tutela» e agli «strumenti di pianificazione e regolamentari» e la «loro sostenibilità ambientale».
L’asserito contrasto con l’art. 13 della legge n. 394 del 1991 determinerebbe la violazione della competenza statale in materia di «tutela dell’ambiente» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
La difesa statale conclude rilevando come, a differenza della norma qui impugnata, l’art. 28 della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 richiami espressamente proprio l’art. 13 della legge n. 394 del 1991.
1.4.– L’art. 5, comma 1, lettera i), numero 7), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 22, 23 e 25, comma 2, della legge n. 394 del 1991.
La norma regionale impugnata ha modificato il comma 2-bis dell’art. 31 della legge reg. Lazio n. 29 del 1997, che risulta ora del seguente tenore: «[p]er favorire lo svolgimento delle attività di cui al presente articolo, i soggetti di cui all’articolo 57 e 57-bis della L.R. n. 38/1999 possono presentare il PUA [piano di utilizzazione aziendale], redatto secondo le modalità ivi previste, nel rispetto delle forme di tutela di cui alla presente legge. Il PUA redatto secondo le modalità della L.R. 38/1999, previa indicazione dei risultati che si intendono perseguire, può prevedere la necessità di derogare alle previsioni del piano dell’area naturale protetta redatto ai sensi dell’articolo 26, comma 1, lettera f) ad esclusione delle normative definite per le zone di riserva integrale».
Questa disposizione, consentendo che il PUA possa derogare alle previsioni del piano dell’area naturale protetta, si porrebbe in contrasto con l’art. 25, comma 2, della legge n. 394 del 1991, secondo cui «[i]l piano per il parco […] ha valore anche di piano paesistico e di piano urbanistico e sostituisce i piani paesistici e i piani territoriali o urbanistici di qualsiasi livello». Il contrasto non potrebbe ritenersi superato da quanto previsto al comma 2-ter del medesimo art. 31 della legge reg. Lazio n. 29 del 1997, ossia che, nella conferenza dei servizi ai fini dell’approvazione del PUA, l’amministrazione procedente acquisisce il nulla osta dell’ente di gestione del parco. Secondo il ricorrente quest’ultima previsione non potrebbe ritenersi sostitutiva della complessa e partecipata procedura prevista per l’approvazione del piano dell’area protetta dalla legge n. 394 del 1991 e dall’art. 26, commi 2, 3 e 4, della stessa legge reg. Lazio n. 7 del 2018.
Da quanto detto deriverebbe il contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., poiché la norma regionale impugnata ridurrebbe in peius i livelli minimi uniformi di tutela previsti dalla legislazione statale in materia di tutela dell’ambiente. In proposito il ricorrente precisa che la legge n. 394 del 1991 costituisce esercizio della competenza esclusiva statale nella materia anzidetta; pertanto, le Regioni possono solo assicurare maggiori livelli di tutela delle aree protette. è richiamata al riguardo la giurisprudenza costituzionale secondo cui «Il territorio dei parchi, siano essi nazionali o regionali, ben può essere oggetto di regolamentazione da parte della Regione, in materie riconducibili ai commi terzo e quarto dell’art. 117 Cost., purché in linea con il nucleo minimo di salvaguardia del patrimonio naturale, da ritenere vincolante per le Regioni» (sentenza n. 44 del 2011).
Lo «standard minimo uniforme di tutela nazionale» si estrinsecherebbe nella predisposizione da parte degli enti gestori delle aree protette di strumenti programmatici e gestionali per la valutazione di rispondenza delle attività svolte alle esigenze ambientali; siffatti strumenti sarebbero identificabili nel regolamento (art. 11 della legge n. 394 del 1991), nel piano per il parco (art. 12) e nelle misure di salvaguardia adottate nelle more dell’istituzione dell’area protetta (artt. 6 e 8). Anche in relazione alle aree protette regionali il legislatore statale avrebbe predisposto un modello fondato sull’individuazione del loro soggetto gestore ad opera della legge regionale istitutiva (art. 23), sull’adozione di regolamenti di queste aree (art. 22, comma 1, lettera d) e su un piano per il parco (art. 25).
La difesa statale afferma altresì che non vi è dubbio che il legislatore statale abbia previsto, per le aree naturali protette regionali, «un quadro normativo meno dettagliato di quello predisposto per le aree naturali protette nazionali», con la conseguenza che le Regioni hanno «un margine di discrezionalità tanto in relazione alla disciplina delle stesse aree protette regionali quanto sul contemperamento tra la protezione di queste ultime e altri interessi meritevoli di tutela». Tuttavia, l’esistenza di un regolamento e di un piano dell’area protetta, cui devono conformarsi le attività svolte all’interno del parco, garantisce la corrispondenza ai canoni inderogabili imposti dalla normativa statale, i quali costituiscono standard minimi di tutela che possono solo essere innalzati dalle Regioni.
1.5.– L’art. 5, comma 6, lettera c), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione agli artt. 36 e 37 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)».
La norma regionale impugnata ha inserito l’art. 57-ter dopo l’art. 57-bis della legge della Regione Lazio 22 dicembre 1999, n. 38 (Norme sul governo del territorio). L’art. 57-ter stabilisce: «1. Per le finalità di cui agli articoli 57 e 57-bis per “edifici legittimi esistenti” si intendono anche quelli realizzati in assenza di titolo abilitativo in periodi antecedenti alla data di entrata in vigore della legge 6 agosto 1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150) ovvero che siano stati oggetto di accertamento di conformità, da parte dei responsabili dell’abuso, ai sensi degli articoli 36 e 37 del D.P.R. 380/2001. 2. Gli edifici di cui al comma 1 ubicati su terreni di proprietà di enti pubblici, sono acquisiti al patrimonio dei medesimi enti previo accertamento, da parte degli occupatori, dei requisiti previsti dal medesimo comma 1».
La difesa statale sottolinea che, ai sensi dell’art. 2 del d.P.R. n. 380 del 2001, «[l]e regioni esercitano la potestà legislativa concorrente in materia edilizia nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale desumibili dalle disposizioni contenute nel testo unico». Tra tali principi il ricorrente annovera: la gradualità dei titoli abilitativi indicati nel testo unico, con il conseguente divieto di introdurne altri; l’inderogabilità della disciplina per l’attività edilizia in assenza di pianificazione urbanistica (art. 9); la definizione delle categorie di interventi edilizi (art. 3). A ciò si aggiunga che il decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98, ha introdotto l’art. 2-bis nel d.P.R. n. 380 del 2001 prevedendo che le Regioni possono stabilire disposizioni derogatorie in materia di limiti di distanza tra fabbricati.
Il ricorrente – dopo aver richiamato il contenuto degli artt. 36 e 37 del d.P.R. n. 380 del 2001, relativi, rispettivamente, all’«[a]ccertamento di conformità» e agli «[i]nterventi eseguiti in assenza o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività e accertamento di conformità» – lamenta che la norma regionale impugnata, attribuendo la qualifica di “edificio legittimo esistente” ai manufatti per i quali si sono verificate le condizioni descritte nelle due norme statali richiamate, sia pure per le sole finalità connesse ai piani di utilizzazione aziendale in agricoltura e a quelli per le attività integrate e complementari, si porrebbe in contrasto con i principi fondamentali della materia. Essa violerebbe pertanto l’art. 117, terzo comma, Cost., che attribuisce alla competenza concorrente di Stato e Regioni le materie del governo del territorio e della protezione civile.
1.6.– L’art. 33, comma 1, lettera a), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere l) e m), Cost.
La norma regionale impugnata ha inserito l’art. 4-bis dopo l’art. 4 della legge della Regione Lazio 18 novembre 1999, n. 33 (Disciplina relativa al settore commercio). L’art. 4-bis (rubricato «Sportello unico per le attività produttive») al comma 3 prevedeva che «[a]i fini della presentazione e verifica formale della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), i soggetti interessati possono avvalersi della agenzia per le imprese in conformità alle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 9 luglio 2010, n. 159 (Regolamento recante i requisiti e le modalità di accreditamento delle agenzie per le imprese, a norma dell’articolo 38, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133)».
Il ricorrente sottolinea che, ai sensi dell’art. 5, comma 4, del d.P.R. n. 160 del 2010, la verifica formale della SCIA spetta esclusivamente al SUAP, mentre all’agenzia per le imprese è attribuita la funzione di rilascio di «una dichiarazione di conformità, comprensiva della SCIA o della domanda presentata dal soggetto interessato corredata dalle certificazioni ed attestazioni richieste, che costituisce titolo autorizzatorio per l’esercizio dell’attività e per l’avvio immediato dell’intervento dichiarato» (art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 160 del 2010).
La difesa statale evidenzia, altresì, che il d.P.R. n. 159 del 2010, citato nella disposizione impugnata, non contiene alcuna menzione della verifica formale in capo alle agenzie per le imprese, poiché concerne la sola disciplina dei requisiti per il loro accreditamento.
Pertanto, l’art. 33, comma 1, lettera a), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018, nella parte in cui ha introdotto il comma 3 dell’art. 4-bis della legge reg. Lazio n. 33 del 1999, sarebbe in contrasto con la normativa statale richiamata e quindi con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che riserva alla legge statale la competenza in tema di ordinamento civile, e con l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto la disciplina in materia di segnalazione certificata di attività attiene ai livelli essenziali delle prestazioni.
1.7.– L’art. 84, comma 1, lettera b), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 è impugnato per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere l) e m), Cost.
La norma regionale impugnata ha inserito l’art. 4-bis dopo l’art. 4 della legge della Regione Lazio 16 luglio 1998, n. 30 (Disposizioni in materia di trasporto pubblico locale). L’art. 4-bis (rubricato «Servizi sussidiari, integrativi e complementari al trasporto pubblico di linea») al comma 2 prevede che «[l]’inizio del servizio è subordinato alla preventiva segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) di cui all’articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) e successive modifiche, presentata all’ente territoriale nel cui territorio il servizio è svolto, secondo i criteri di cui agli articoli 3 e 10, comma 2».
Preliminarmente il ricorrente sottolinea l’inconferenza del rinvio, operato dalla norma impugnata, agli artt. 3 e 10, comma 2, della legge reg. Lazio n. 30 del 1998, relativi, rispettivamente, alla classificazione dei servizi di trasporto pubblico locale in comunali, provinciali e regionali, e alle funzioni conferite al riguardo ai Comuni. In particolare, la difesa statale rileva che, quanto al citato art. 3, il Comune è l’ente territoriale di competenza a cui deve essere presentata la SCIA, mentre, in merito all’art. 10, comma 2, l’esercizio delle funzioni conferite al Comune, relativamente ai servizi di linea comunali, attiene a regimi amministrativi diversi dalla SCIA.
Pertanto, l’art. 84, comma 1, lettera b), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018, nella parte in cui ha introdotto il comma 2 dell’art. 4-bis della legge reg. Lazio n. 30 del 1998, sarebbe in contrasto con la normativa statale richiamata e quindi con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che riserva alla legge statale la competenza in tema di ordinamento civile, e con l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto la disciplina in materia di segnalazione certificata di attività attiene ai livelli essenziali delle prestazioni, ai sensi dell’art. 29, comma 2-ter, della legge n. 241 del 1990.
2.– La Regione Lazio si è costituita in giudizio chiedendo che le questioni promosse siano dichiarate inammissibili e/o infondate.
2.1.– In relazione all’art. 5, comma 1, lettera g), numero 2), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018, la difesa regionale rileva che le modifiche operate all’art. 26, comma 4, della legge reg. Lazio n. 29 del 1997 rispondono a una esigenza di semplificazione del procedimento di approvazione del piano delle aree naturali protette, al fine di poter giungere alla sua approvazione in tempi ragionevoli. Al riguardo, la resistente sottolinea come spesso i tempi di questo procedimento si siano oltremodo dilatati, producendo, in alcuni casi, contenziosi giudiziari che hanno portato dapprima a una diffida nei confronti della Regione e poi alla nomina di un commissario ad acta.
A detta della Regione Lazio, tale esigenza acceleratoria sarebbe in sintonia con quanto previsto dall’art. 29, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990, secondo cui attengono ai livelli essenziali delle prestazioni le disposizioni concernenti gli obblighi di concludere il procedimento entro il termine prefissato. In secondo luogo, la norma impugnata non si porrebbe in contrasto con la necessaria approvazione del piano da parte della Regione, secondo quanto previsto dall’art. 25, comma 2, della legge n. 394 del 1991. Infatti, quest’ultima disposizione sarebbe pienamente rispettata anche qualora si considerasse come atto approvativo finale quello deliberato dalla Giunta regionale; a sostegno di ciò la resistente sottolinea come la norma statale non distingua tra gli organi regionali, limitandosi a prevedere che il piano sia «approvato dalla regione».
Sarebbe, inoltre, «errato ed inconferente» il richiamo (operato dal ricorrente) della disciplina sul silenzio assenso. Innanzitutto, sarebbe improprio il riferimento all’art. 20 della legge n. 241 del 1990, in quanto questa disposizione circoscrive espressamente il proprio ambito di applicazione ai soli «procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi», ipotesi, questa, che non ricorrerebbe nel caso del procedimento di approvazione del piano delle aree protette. Semmai – aggiunge la resistente – potrebbe venire in rilievo l’art. 17-bis della legge n. 241 del 1990, il quale regolamenta il silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche e tra queste e i gestori di beni o servizi pubblici. In secondo luogo, le limitazioni al ricorso al silenzio assenso in materia ambientale concernerebbero solo il citato art. 20 e non anche l’art. 17-bis, che, al comma 3, prevede una forma di silenzio assenso.
In conclusione, la Regione Lazio osserva che l’individuazione dell’organo regionale competente ad approvare il piano è rimessa alla sua autonoma determinazione, nell’ambito della propria organizzazione. Al riguardo, la difesa regionale sottolinea come in altre Regioni questo compito sia stato affidato alla Giunta; è citato l’art. 19, comma 2, della legge della Regione Lombardia 30 novembre 1983, n. 86 (Piano regionale delle aree regionali protette. Norme per l’istituzione e la gestione delle riserve, dei parchi e dei monumenti naturali nonché delle aree di particolare rilevanza naturale e ambientale), nel testo oggi vigente, secondo cui «[e]ntro centoventi giorni dal ricevimento, la Giunta regionale verifica il piano controdedotto e determina le modifiche necessarie rispetto ai propri indirizzi, agli atti di programmazione e pianificazione regionale e alle disposizioni di legge in materia; quindi procede all’approvazione del piano territoriale di coordinamento o della relativa variante con propria deliberazione soggetta a pubblicazione».
La resistente ritiene, quindi, che sia consentito alla Regione individuare nella Giunta l’organo competente ad approvare il piano e, di conseguenza, che la soluzione di lasciare comunque al Consiglio la possibilità di esprimersi, sia pure in tempi certi, non può ritenersi viziata da illegittimità costituzionale, non essendo sottratto all’organo elettivo il potere di approvazione.
2.2.– In merito all’impugnazione dell’art. 5, comma 1, lettera h), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018, la resistente sostiene che le argomentazioni del ricorrente siano infondate stante il carattere «assolutamente puntuale» della disciplina regionale. Gli interventi oggetto della normativa censurata sarebbero infatti desumibili dal rinvio all’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, consistendo in quelli indicati da quest’ultima disposizione.
Sarebbe, inoltre, del tutto inconferente il richiamo alla disciplina relativa all’edilizia produttiva e al SUAP, in quanto estranea alla normativa relativa al rilascio del nulla osta prescritto, ai sensi della legge n. 394 del 1991, dalla stessa legge reg. Lazio n. 29 del 1997. Peraltro, l’attività del SUAP troverebbe autonoma e separata normazione nell’art. 33, comma 1, lettera a), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018.
2.3.– Quanto all’art. 5, comma 1, lettera i), numero 5), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018, la resistente sottolinea come la censurata esclusione del nulla osta per alcune «pratiche di conduzione delle aziende agricole che non comportino modificazioni sostanziali del territorio» non costituisca una novità introdotta dal legislatore regionale del 2018, essendo già contemplata dal testo previgente dell’art. 28 della legge reg. Lazio n. 29 del 1997. Pertanto, la modifica censurata si sarebbe limitata a «esplicitare ulteriormente il contenuto delle previgenti disposizioni regionali, per le quali era già escluso il rilascio del nulla osta».
Al riguardo la difesa regionale richiama il contenuto dell’art. 13 della legge n. 394 del 1991, in base al quale il preventivo rilascio del nulla osta da parte dell’ente parco sarebbe richiesto «non in assoluto, ma solo qualora sia contemporaneamente prescritto, dalla normativa statale o regionale, “il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all’interno del parco”».
Pertanto, nel caso di specie, il nulla osta non sarebbe richiesto, in ragione del fatto che si tratta di pratiche di conduzione delle aziende agricole «in larga parte» coincidenti con le fattispecie enumerate dall’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001 (rubricato «Attività edilizia libera») o «comunque teleologicamente ad esse riconducibili», per le quali non è richiesto alcun titolo abilitativo.
Non sarebbe, quindi, compromesso né limitato l’esercizio della competenza legislativa statale in materia di tutela dell’ambiente, anche in ragione del fatto che la norma regionale impugnata si limita a introdurre meccanismi di semplificazione procedimentale e amministrativa.
2.4.– Anche in relazione all’art. 5, comma 1, lettera i), numero 7), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018, la resistente sottolinea come la norma impugnata non abbia alcuna portata innovativa della disciplina previgente.
Il legislatore regionale si sarebbe limitato, infatti, «ad operare una sorta di mero intervento di coordinamento» delle disposizioni recate dagli artt. 8, comma 4, lettera d), 26, comma 1-bis, lettera b), e 31 della legge reg. Lazio n. 29 del 1997, «riproducendone i medesimi contenuti sostanziali». La difesa regionale aggiunge che le disposizioni citate sono state introdotte dalla legge della Regione Lazio 10 novembre 2014, n. 10 (Modifiche alle leggi regionali relative al governo del territorio, alle aree naturali protette regionali ed alle funzioni amministrative in materia di paesaggio) e non sono mai state oggetto di rilievi di legittimità costituzionale. Dirimente sarebbe il richiamo all’art. 11, comma 3, della legge n. 394 del 1991, operato dal novellato art. 8, comma 4, della legge reg. Lazio n. 29 del 1997, con il quale il legislatore regionale ha inteso subordinare gli interventi di cui all’art. 31 di quest’ultima legge regionale alla clausola generale di salvaguardia prevista dal citato art. 11, comma 3. Da quanto detto conseguirebbe il rispetto dei livelli minimi di tutela dell’ambiente.
2.5.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 6, lettera c), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 sarebbe infondata perché il ricorrente avrebbe travisato la lettura della normativa impugnata. La norma regionale, infatti, non definirebbe né introdurrebbe nuove categorie di «edifici legittimi» diverse da quelle già previste dalla legislazione statale, limitandosi a richiamare puntualmente gli artt. 36 e 37 del d.P.R. n. 380 del 2001, al solo fine di individuare le fattispecie cui trova applicazione l’art. 57 della legge reg. Lazio n. 38 del 1999.
2.6.– Quanto all’art. 33, comma 1, lettera a), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018, la resistente sostiene che l’interpretazione seguita dal ricorrente non sia conforme «allo spirito» e «al lessico» della legge regionale impugnata.
La norma in esame, infatti, non intenderebbe incidere, né, «sulla base di una lettura costituzionalmente orientata», potrebbe farlo, sulle funzioni dell’agenzia per le imprese. Secondo la difesa regionale, dalla formulazione letterale, «sia pure non pienamente perspicua sotto il profilo tecnico», si deduce che la disposizione regionale ribadisce la possibilità in via generale per i soggetti interessati di avvalersi del supporto e dell’assistenza tecnica dell’agenzia per le imprese ai fini della predisposizione, verifica e presentazione della SCIA senza incidere sulle modalità della presentazione stessa e sull’iter istruttorio successivo a questa.
In definitiva, l’intento del legislatore regionale sarebbe quello di «fare riferimento alle funzioni generali di supporto e assistenza» riconosciute all’agenzia per le imprese dalla normativa statale, «senza alcuna volontà di modificare l’impianto normativo statale in materia di SCIA».
2.7.– Le censure mosse all’art. 84, comma 1, lettera b), della legge reg. Lazio n. 7 del 2018 sarebbero, invece, inammissibili «per la genericità ed indeterminatezza con cui le stesse sono formulate». Secondo la difesa regionale, infatti, il ricorrente si sarebbe limitato a rilevare un presunto contrasto con la normativa statale citata, omettendo di darne contezza.
3.– In prossimità della data fissata per l’udienza il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria nella quale, dopo aver ribadito le argomentazioni sviluppate nell’atto introduttivo del giudizio e aver replicato alle eccezioni formulate da controparte, insiste nelle conclusioni già rassegnate nel ricorso.
Considerato in diritto
– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso conflitto di attribuzione nei confronti della Regione Lazio al fine di ottenere la sospensiva e l’annullamento – previa declaratoria di non spettanza alla Regione – della deliberazione del Consiglio regionale della Regione Lazio 2 agosto 2019, n. 5 (Piano territoriale paesistico regionale – PTPR) e «di ogni altro atto comunque connesso, presupposto e attuativo, ivi compresa la nota in data 20 febbraio 2020 della Regione Lazio – Direzione regionale per le politiche abitative e la pianificazione territoriale, paesistica e urbanistica», per violazione del principio di leale collaborazione e degli artt. 9, 117, secondo comma, lettera s), e 118 della Costituzione e delle seguenti norme interposte: artt. 133, 135, comma 1, 143, comma 2, 145, commi 3 e 5, e 156, comma 3, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137).
Con l’impugnata deliberazione, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Lazio 13 febbraio 2020, n. 13, sono stati approvati gli elaborati descrittivi e prescrittivi che compongono il piano territoriale paesistico regionale (da ora in avanti: PTPR).
2.– La difesa regionale eccepisce l’inammissibilità del ricorso per le seguenti ragioni.
Innanzitutto, sostiene che il ricorrente sia incorso in «una sorta di aberratio ictus», nel senso che, anziché impugnare i commi dei 14 articoli del PTPR indicati nell’atto introduttivo del giudizio, avrebbe, «in modo del tutto irragionevole e sproporzionato», impugnato l’intero piano. Ciò determinerebbe conseguenze particolarmente rilevanti poiché, in caso di accoglimento del ricorso, sarebbero consentiti, ai sensi dell’art. 21 della legge della Regione Lazio 6 luglio 1998, n. 24 (Pianificazione paesistica e tutela dei beni e delle aree sottoposti a vincolo paesistico), i soli «interventi di ordinaria e straordinaria manutenzione, risanamento, recupero statico ed igienico e restauro conservativo». Tale esito risulterebbe particolarmente grave anche in ragione del «momento di grande necessità di rilancio per tutto il Paese»; di conseguenza, la difesa regionale rimette a questa Corte «la valutazione circa le misure processuali più opportune da adottare onde eventualmente scongiurare le gravi conseguenze sopra rappresentate».
In occasione della discussione della causa in udienza, la stessa difesa ha prospettato una seconda ragione di inammissibilità, da rinvenire nell’errata indicazione dei parametri costituzionali ritenuti violati. In particolare, il Presidente del Consiglio dei ministri avrebbe fatto riferimento agli artt. 9, 117, secondo comma, lettera s), e 118 Cost. in relazione al mancato coinvolgimento del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo (da ora in avanti: MiBACT), mentre avrebbe richiamato il principio di leale collaborazione in riferimento al lamentato abbassamento del livello di tutela paesaggistica.
2.1.– Entrambe queste eccezioni devono essere respinte.
Preliminarmente occorre ricostruire i termini del conflitto proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri. Questi, dopo aver evidenziato che il PTPR è stato approvato unilateralmente dalla Regione Lazio senza il necessario coinvolgimento del MiBACT, muove più censure alla deliberazione impugnata.
In primo luogo, lamenta la violazione degli artt. 9, 117, secondo comma, lettera s), e 118 Cost. e delle norme interposte costituite dagli artt. 133, 135, comma 1, 143, comma 2, 145, commi 3 e 5, e 156, comma 3, del d.lgs. n. 42 del 2004.
In secondo luogo, ritiene che sia violato il principio di leale collaborazione.
Infine, sostiene che le censure mosse con il ricorso per conflitto non si esauriscano «nella sola invasione e lesione della sfera di competenza normativa e amministrativa dello Stato e nella lesione del principio di leale collaborazione […] ma si traduc[ano] anche in una lesione diretta dei valori paesaggistici tutelati, determinando immediatamente una grave diminuzione del livello di tutela, sia rispetto al piano adottato nel 2007 dalla Regione e vigente sin dal 2008 in regime di salvaguardia sia rispetto ai contenuti convenuti con il MiBACT nel Verbale del 2015 e nell’accordo del 2020».
A tale fine, il ricorrente illustra «le più significative disposizioni introdotte unilateralmente dalla Regione nel testo delle Norme del PTPR riferite ai beni paesaggistici». Dopo aver individuato «i principali profili di illegittimità del PTPR», la difesa statale ritiene «necessario segnalare […] gli ulteriori profili di criticità delle Norme di Piano ormai entrate in vigore», indicando al riguardo ulteriori disposizioni contenute nel PTPR.
Dalla sommaria esposizione dei termini del conflitto si deduce, innanzitutto, che le censure promosse non sono prospettate in un rapporto di subordinazione tra loro e, inoltre, che esse si rivolgono, comunque, nei confronti dell’intero piano e non di sue singole norme. L’indicazione di quelli che la difesa statale definisce come «i principali profili di illegittimità» e «gli ulteriori profili di criticità» è sempre riferita all’intero PTPR, essendo addotti i segnalati profili quali indizi sintomatici dell’illegittimità del piano nella sua integralità. Questa Corte è chiamata a stabilire, pertanto, se l’intero piano sia affetto dai vizi lamentati dal ricorrente, esulando dal suo sindacato – in quanto non richiesto dal ricorrente, che pure avrebbe potuto formulare censure specifiche sulle singole prescrizioni – la verifica della legittimità delle norme del piano indicate nell’atto introduttivo del conflitto.
2.2.– Alla luce di quanto sopra, può dunque essere respinta la prima eccezione di inammissibilità, dovendosi escludere sia che il ricorrente volesse impugnare singole previsioni di piano, sia che le censure prospettate si riferiscano sostanzialmente a queste ultime e non all’intero piano.
Sempre in relazione alla prima eccezione di inammissibilità, si deve escludere che in questa sede abbiano rilievo giuridico gli effetti derivanti da un eventuale accoglimento del conflitto in un «momento [come quello attuale] di grande necessità di rilancio per tutto il Paese». Né, per le stesse ragioni, può essere accolto il generico invito, formulato dalla medesima difesa, a ricorrere alle «misure processuali più opportune da adottare onde eventualmente scongiurare le gravi conseguenze sopra rappresentate», giacché è la legge a stabilire quale sia il regime del territorio fintanto che il piano non sia stato approvato.
Anche la seconda eccezione di inammissibilità deve essere respinta, ben potendosi cogliere nella trama argomentativa del ricorso – come sopra ricostruita – la prospettazione di tre motivi di censura autonomi, tutti – ma in particolare i primi due (violazione delle competenze amministrative dello Stato e violazione del principio di leale collaborazione) – avvinti da una ratio unitaria. Questa Corte ha, infatti, ripetutamente precisato che, nella materia in esame, la necessità di assicurare il pieno coinvolgimento degli organi statali deriva proprio dalla commistione di competenze diverse di cui sono titolari lo Stato e le regioni e dall’esistenza di un interesse unitario alla tutela del paesaggio (ex plurimis, sentenze n. 86 del 2019, n. 178, n. 68 e n. 66 del 2018). L’affermato obbligo di ricorrere a procedure di leale collaborazione deriva, quindi, dalla circostanza che si è in presenza di un complesso quadro di competenze amministrative (oltre che legislative) statali e regionali, le quali devono essere esercitate armonicamente.
3.– Passando al merito del conflitto, è necessario preliminarmente ricostruire la normativa sul procedimento di formazione del PTPR, che è contenuta nella legge reg. Lazio n. 24 del 1998, e, in particolare, nel Capo IV («Piano territoriale paesistico regionale»).
Tale legge regionale ha subito nel corso del tempo alcune modifiche, dirette ad adeguarla al mutato quadro normativo statale. La disciplina vigente al momento della sua approvazione ed entrata in vigore, rappresentata dal decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312 (Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1985, n. 431 (meglio nota come “legge Galasso”), è stata successivamente abrogata dal decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352), a sua volta abrogato dal d.lgs. n. 42 del 2004, recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio, che, come successivamente modificato e integrato, offre oggi il quadro normativo statale di riferimento.
L’art. 135 del d.lgs. n. 42 del 2004, rubricato «Pianificazione paesaggistica», stabilisce, al comma 1, che «[l]o Stato e le regioni assicurano che tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono»; che «[a] tale fine le regioni sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio mediante piani paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, entrambi di seguito denominati: “piani paesaggistici”»; e che «[l]’elaborazione dei piani paesaggistici avviene congiuntamente tra Ministero e regioni, limitatamente ai beni paesaggistici di cui all’articolo 143, comma 1, lettere b), c) e d), nelle forme previste dal medesimo articolo 143».
A sua volta, l’art. 143, rubricato «Piano paesaggistico», prevede che «[l]’elaborazione del piano paesaggistico comprende almeno:
a) ricognizione del territorio oggetto di pianificazione, mediante l’analisi delle sue caratteristiche paesaggistiche, impresse dalla natura, dalla storia e dalle loro interrelazioni, ai sensi degli articoli 131 e 135;
b) ricognizione degli immobili e delle aree dichiarati di notevole interesse pubblico ai sensi dell’articolo 136, loro delimitazione e rappresentazione in scala idonea alla identificazione, nonché determinazione delle specifiche prescrizioni d’uso, a termini dell’articolo 138, comma 1, fatto salvo il disposto di cui agli articoli 140, comma 2, e 141-bis;
c) ricognizione delle aree di cui al comma 1 dell’articolo 142, loro delimitazione e rappresentazione in scala idonea alla identificazione, nonché determinazione di prescrizioni d’uso intese ad assicurare la conservazione dei caratteri distintivi di dette aree e, compatibilmente con essi, la valorizzazione;
d) eventuale individuazione di ulteriori immobili od aree, di notevole interesse pubblico a termini dell’articolo 134, comma 1, lettera c), loro delimitazione e rappresentazione in scala idonea alla identificazione, nonché determinazione delle specifiche prescrizioni d’uso, a termini dell’articolo 138, comma 1;
e) individuazione di eventuali, ulteriori contesti, diversi da quelli indicati all’articolo 134, da sottoporre a specifiche misure di salvaguardia e di utilizzazione;
f) analisi delle dinamiche di trasformazione del territorio ai fini dell’individuazione dei fattori di rischio e degli elementi di vulnerabilità del paesaggio, nonché comparazione con gli altri atti di programmazione, di pianificazione e di difesa del suolo;
g) individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree significativamente compromesse o degradate e degli altri interventi di valorizzazione compatibili con le esigenze della tutela;
h) individuazione delle misure necessarie per il corretto inserimento, nel contesto paesaggistico, degli interventi di trasformazione del territorio, al fine di realizzare uno sviluppo sostenibile delle aree interessate;
i) individuazione dei diversi ambiti e dei relativi obiettivi di qualità, a termini dell’articolo 135, comma 3».
Tornando alla normativa regionale, l’art. 21 della legge reg. Lazio n. 24 del 1998 (rubricato «Approvazione del P.T.P.R.»), nel testo risultante a seguito di numerose modifiche che hanno ripetutamente prorogato l’originario termine per l’approvazione del PTPR, prevede che, «[e]ntro il 14 febbraio 2020, la Regione procede all’approvazione del P.T.P.R. quale unico piano territoriale paesistico regionale redatto nel rispetto dei criteri di cui all’articolo 22», e che, «[d]ecorso inutilmente tale termine, operano esclusivamente le norme di tutela di cui al capo II e, nelle aree sottoposte a vincolo paesistico con provvedimento dell’amministrazione competente, sono consentiti esclusivamente interventi di ordinaria e straordinaria manutenzione, risanamento, recupero statico ed igienico e restauro conservativo» (comma 1).
L’art. 23 della medesima legge (rubricato «Procedure per l’approvazione e la modifica del P.T.P.R.»), nel testo oggi vigente, prevede, tra l’altro, che «[l]a struttura regionale competente in materia di pianificazione paesistica provvede alla redazione del P.T.P.R., sulla base delle consultazioni con gli enti locali e gli altri enti pubblici interessati» (comma 1); che «[l]a Giunta regionale, con propria deliberazione, adotta il P.T.P.R., ne dispone la pubblicazione sul B.U., l’affissione presso l’albo pretorio dei comuni e delle province della Regione e ne dà notizia sui principali quotidiani a diffusione regionale. Il P.T.P.R. adottato resta affisso per tre mesi» (comma 2); che «[d]urante il periodo di affissione chiunque vi abbia interesse può presentare osservazioni al P.T.P.R., direttamente al comune territorialmente competente» (comma 3); che «[e]ntro i successivi trenta giorni, i comuni provvedono a raccogliere le osservazioni presentate e ad inviarle, unitamente ad una relazione istruttoria, alla struttura regionale competente» (comma 4); che «[e]ntro i successivi sessanta giorni la Regione predispone la relazione istruttoria del P.T.P.R., contenente anche le controdeduzioni alle osservazioni, da sottoporre all’approvazione del Consiglio regionale» (comma 5); e che «[l]a deliberazione del Consiglio regionale di approvazione di cui al comma 5 è pubblicata sul B.U. ed è affissa presso l’albo pretorio dei comuni e delle province per tre mesi» (comma 6).
In base all’art. 23-bis, «[d]alla data di pubblicazione del P.T.P.R. ai sensi dell’articolo 23, comma 2, non sono consentiti, sugli immobili e nelle aree di cui all’articolo 134 del D.Lgs. 42/2004 e successive modifiche, interventi che siano in contrasto con le prescrizioni di tutela previste nel PTPR adottato».
In questa sede ci si può limitare a esaminare i soli commi riportati, venendo in rilievo unicamente il procedimento di formazione del PTPR. In estrema sintesi, esso consiste in una prima adozione da parte della Giunta regionale cui segue, dopo l’esame delle eventuali osservazioni e l’instaurazione del contraddittorio sulle stesse, la deliberazione di approvazione da parte del Consiglio regionale, anch’essa pubblicata nel BUR.
Il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri muove dalla contestazione del mancato coinvolgimento del MiBACT nel procedimento seguito per l’approvazione del PTPR da parte del Consiglio regionale del Lazio, cui conseguirebbe la violazione dei parametri costituzionali evocati e delle norme interposte recate dal d.lgs. n. 42 del 2004. Come già visto sopra, la difesa statale si duole altresì del fatto che, dopo l’approvazione della deliberazione impugnata, la Regione abbia coinvolto il Ministero ma che, allorché tale procedimento era giunto a un punto ormai avanzato (proposta di deliberazione consiliare 17 febbraio 2020, n. 42, adottata dalla Giunta regionale con deliberazione 13 febbraio 2020, n. 50), la Regione abbia unilateralmente approvato il PTPR a suo tempo adottato, senza tenere conto delle conclusioni raggiunte in accordo con il Ministero, e abbia rinviato a un momento successivo l’approvazione di quanto concordato. In ciò si concretizzerebbe la violazione dell’obbligo di leale collaborazione. Sostiene, infine, la difesa statale che il PTPR impugnato ha determinato un abbassamento del livello di tutela dei beni paesaggistici, indicando 14 articoli, compresi tra le norme di piano, che presenterebbero «profili di illegittimità» e 6 ulteriori articoli che presenterebbero «profili di criticità».
4.– Per meglio delineare i termini del conflitto è utile ripercorrere le vicende che hanno preceduto l’approvazione del PTPR nel 2019. Le parti ne offrono una ricostruzione pienamente concordante fino al 2016, ma divergono poi nella lettura di ciò che è accaduto in prossimità dell’approvazione della deliberazione n. 5 del 2019, oggetto di contestazione da parte dello Stato.
Ricorrente e resistente convengono nel ricordare che, ai sensi dell’art. 19 della citata legge reg. Lazio n. 24 del 1998, sono stati approvati, mediante deliberazioni della Giunta regionale, i piani territoriali paesistici (da ora in avanti: PTP). Inoltre, riferiscono che, il 9 febbraio 1999, l’allora Ministero per i beni e le attività culturali, la Regione Lazio e l’Università di Roma Tre hanno sottoscritto un accordo di collaborazione per la redazione del nuovo PTPR.
Dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004 ma prima delle modifiche operate dal decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 63 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione al paesaggio), la Regione Lazio ha adottato il proprio PTPR con la deliberazione della Giunta 25 luglio 2007, n. 556, e lo ha successivamente modificato, integrato e rettificato con la deliberazione della Giunta 21 dicembre 2007, n. 1025. Con il PTPR adottato si è provveduto alla verifica e all’adeguamento dei PTP vigenti, destinati a essere sostituiti dallo stesso PTPR a seguito della sua definitiva approvazione, con l’unica esclusione del PTP di Roma, ambito 15/12 «Valle della Caffarella, Appia Antica e Acquedotti», che continua a restare in vigore.
Le delibere di adozione del PTPR sono state pubblicate nel Bollettino Ufficiale della Regione Lazio 14 febbraio 2008, n. 6, supplemento ordinario n. 14, oltre che negli albi pretori dei Comuni e delle Province. A partire dal giorno successivo alla sua pubblicazione il PTPR ha assunto, quindi, l’efficacia propria del regime di salvaguardia.
Dopo la pubblicazione del piano adottato è stata avviata l’attività di co-pianificazione con il Ministero al fine di addivenire a un’intesa con quest’ultimo prima della sua approvazione finale. Questa attività si è concretizzata in un Protocollo d’intesa sottoscritto l’11 dicembre 2013 e nella redazione di un apposito verbale di condivisione dei contenuti del piano, il 16 dicembre 2015. Nel verbale sono state concordate tra Regione e Ministero le modifiche e le integrazioni da apportare in sede di approvazione del piano e sono state definite le norme di piano, incluse in un allegato al verbale. L’allegato in parola è stato, a sua volta, oggetto della proposta di delibera consiliare 10 marzo 2016, n. 60, adottata dalla Giunta regionale con decisione 8 marzo 2016, n. 6. Proposta, quest’ultima, mai approvata dal Consiglio regionale.
A questo punto, la ricostruzione offerta dalle parti in giudizio diverge. Infatti, la difesa statale stigmatizza il fatto che il Consiglio regionale, contraddicendo il percorso di condivisione svolto fino al 2016, abbia, con la deliberazione n. 5 del 2019, oggetto dell’odierno conflitto, approvato unilateralmente «un “proprio” PTPR, diverso sia dal Piano adottato nel 2007 sia dai contenuti concordati nel verbale del 2015, oltre che notevolmente peggiorativo dei livelli della tutela rispetto a entrambe tali versioni, rinviando a un momento successivo l’adeguamento del Piano d’intesa con lo Stato». In particolare, il ricorrente rileva il contrasto con la disciplina della pianificazione paesaggistica contenuta nel d.lgs. n. 42 del 2004, «la quale richiede che la fase di co-decisione con lo Stato si collochi a monte, e non a valle, del piano paesaggistico».
La difesa regionale sostiene, invece, che il percorso di condivisione precedentemente avviato non sia stato per nulla contraddetto, trattandosi, nel caso di specie, non dell’approvazione di un nuovo PTPR, ma dell’adeguamento dei piani paesaggistici provinciali già esistenti prima del d.lgs. n. 42 del 2004, dei quali il PTPR sarebbe la naturale continuazione e in qualche modo il compendio. Per questa ragione, la resistente ritiene applicabile al procedimento di approvazione del piano in questione l’art. 156 del d.lgs. n. 42 del 2004 piuttosto che l’art. 143 del medesimo decreto.
La disposizione di cui all’art. 156 – aggiunge la resistente – «non impone alcun obbligo di co-pianificazione, limitandosi a prevedere la possibilità di un’azione condivisa e contemplando altresì espressamente l’eventualità della totale assenza di un’intesa» (commi 3 e 4), ipotesi, questa, per la quale il comma 4 del medesimo articolo si limiterebbe a escludere l’applicazione delle misure di semplificazione del procedimento autorizzatorio previste dall’art. 143, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 42 del 2004.
In definitiva, con il PTPR censurato la Regione avrebbe proceduto all’unificazione e all’omogeneizzazione dei preesistenti 29 PTP in un unico piano esteso all’intero territorio regionale, fatta eccezione per il PTP di Roma, ambito 15/12 «Valle della Caffarella, Appia Antica e Acquedotti».
4.1.– Nello stesso giorno della pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione Lazio della deliberazione del Consiglio regionale oggetto dell’odierno conflitto, la Giunta regionale ha approvato due deliberazioni, la cui disamina, pur non risultando decisiva ai fini della definizione del presente giudizio, completa il quadro giuridico regionale di riferimento e offre un ulteriore spaccato della condotta tenuta dalla Regione nella vicenda che ha dato origine al conflitto.
In particolare, nel Bollettino Ufficiale della Regione Lazio 20 febbraio 2020, n. 15, è stata pubblicata la deliberazione della Giunta regionale 13 febbraio 2020, n. 49 [Adozione della variante di integrazione del Piano Territoriale Paesistico Regionale (PTPR), ai sensi dell’articolo 23 della L.R. n. 24 del 6 luglio 1998 ed in ottemperanza degli artt. 135, 143 e 156 del D.Lgs. n. 42/2004, inerente alla rettifica e all’ampliamento dei beni paesaggistici di cui all’articolo 134, comma 1, lettere a), b) e c), del medesimo D.Lgs. n. 42/2004, contenuti negli elaborati del PTPR approvato con DCR n. 5 del 2 agosto 2019]. Si tratta di una delibera precedente al ricorso, volta soltanto a rettificare le cartografie, quanto all’individuazione di alcuni ambiti tutelati, al fine di correggere errori. Essa non tocca le previsioni di piano sulle quali si appuntano le censure del ricorrente e quindi non può determinare sotto alcun profilo il venir meno dell’interesse al ricorso.
Quanto alla seconda deliberazione, l’Avvocatura generale riferisce che, dopo l’approvazione della deliberazione oggetto di conflitto, «per l’intanto non pubblicata nel BUR», è stata riavviata la collaborazione tra il MiBACT e la Regione per addivenire al definitivo adeguamento del PTPR; e che si è così giunti alla redazione di un nuovo testo delle norme di piano, «emendato delle novelle aggiunte in via unilaterale dalla Regione», che è stato oggetto della proposta di deliberazione consiliare 17 febbraio 2020, n. 42, adottata dalla Giunta regionale con deliberazione 13 febbraio 2020, n. 50.
Tale proposta – sempre a detta del ricorrente – fa proprio, ai fini dell’accordo di cui agli artt. 143, comma 2, e 156, comma 3, del d.lgs. n. 42 del 2004, il documento «02.01 – Norme PTPR – Testo proposto per l’accordo Regione/MiBACT», che dovrebbe sostituire integralmente le norme del PTPR approvate con la deliberazione n. 5 del 2019.
Al riguardo, devono condividersi le conclusioni della difesa statale, la quale precisa che «solo l’approvazione della delibera proposta dalla Giunta da parte del Consiglio regionale del Lazio e la sua piena efficacia a seguito della pubblicazione potranno determinare l’effettiva sostituzione delle Norme del PTPR approvato e ormai in vigore, e quindi risolvere le criticità rilevate».
Pertanto, in assenza di questi ulteriori adempimenti e in ragione dell’avvenuta pubblicazione della delibera n. 5 del 2019, si deve escludere che la deliberazione della Giunta regionale n. 50 del 2020 determini il venir meno dell’interesse al ricorso.
5.– Alla luce di quanto esposto al precedente punto 4, diviene dirimente stabilire se, nel caso di specie, si sia in presenza di un’operazione di verifica e adeguamento di piani paesaggistici preesistenti (art. 156) o dell’approvazione di un nuovo piano (art. 143).
5.1.– L’art. 156, inserito nel Capo V («Disposizioni di prima applicazione e transitorie») del d.lgs. n. 42 del 2004, nel testo risultante dalle modifiche operate nel 2006 e nel 2008, e rubricato «Verifica ed adeguamento dei piani paesaggistici», stabilisce che, «[e]ntro il 31 dicembre 2009, le regioni che hanno redatto piani paesaggistici, verificano la conformità tra le disposizioni dei predetti piani e le previsioni dell’articolo 143 e provvedono ai necessari adeguamenti. Decorso inutilmente il termine sopraindicato il Ministero provvede in via sostitutiva ai sensi dell’articolo 5, comma 7» (comma 1).
A tal fine «[l]e regioni e il Ministero, in conformità a quanto stabilito dall’articolo 135, possono stipulare intese, ai sensi dell’articolo 143, comma 2, per disciplinare lo svolgimento congiunto della verifica e dell’adeguamento dei piani paesaggistici. Nell’intesa è stabilito il termine entro il quale devono essere completati la verifica e l’adeguamento, nonché il termine entro il quale la regione approva il piano adeguato. Il piano adeguato è oggetto di accordo fra il Ministero e la regione, ai sensi dell’articolo 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e dalla data della sua adozione vigono le misure di salvaguardia di cui all’articolo 143, comma 9. Qualora all’adozione del piano non consegua la sua approvazione da parte della regione, entro i termini stabiliti dall’accordo, il piano medesimo è approvato in via sostitutiva con decreto del Ministro» (comma 3).
Il comma 4 aggiunge che, «[q]ualora l’intesa di cui al comma 3 non venga stipulata, ovvero ad essa non segua l’accordo procedimentale sul contenuto del piano adeguato, non trova applicazione quanto previsto dai commi 4 e 5 dell’articolo 143».
Dal testo della disposizione si deduce che oggetto dell’intesa non è il contenuto del piano adeguato, bensì la disciplina dello svolgimento congiunto della verifica e dell’adeguamento dei piani paesaggistici. Al contrario, il piano, dopo la verifica e l’adeguamento, deve essere oggetto di accordo fra il Ministero e la regione (comma 3, terzo periodo). Il comma 4 disciplina l’ipotesi in cui l’accordo sul contenuto del piano adeguato non sia raggiunto, con la conseguenza che in questo caso non trovano applicazione i commi 4 e 5 dell’art. 143.
5.2.– Il dato letterale dell’art. 156 del d.lgs. n. 42 del 2004 pone alcuni problemi interpretativi rilevanti per stabilire se esso possa aver avuto applicazione nella vicenda in esame.
Innanzitutto, occorre chiarire a quali piani la disposizione faccia riferimento. Se si riferisse infatti solo al piano regionale (P.T.P.R.), non sarebbe applicabile al caso di specie, nel quale si era in presenza soltanto dei 29 PTP operanti all’epoca nella Regione Lazio. In realtà, sia la generica formulazione della disposizione che parla semplicemente di «piani paesaggistici», alla cui tipologia vanno ricondotti anche i PTP, approvati con delibere della Giunta regionale (come si evince dall’art. 1 della legge reg. Lazio n. 24 del 1998), sia la concorde interpretazione del ricorrente e della resistente sul fatto che la verifica e l’adeguamento si riferiscono ai PTP depongono nel senso opposto, cioè del riferimento a tutti i piani paesaggistici comunque redatti dalle regioni.
Porta, invece, a escludere l’applicabilità al caso in esame dell’art. 156, innanzitutto la previsione, in questa stessa disposizione, del termine del 31 dicembre 2009, entro cui le regioni possono effettuare la verifica e procedere ai necessari adeguamenti secondo il procedimento ivi previsto. Termine cui non è possibile assegnare altro significato che quello di fissare un limite temporale oltre il quale il meccanismo di adeguamento non è destinato ad operare, risultando in particolare privo di riscontri di sorta l’argomento della difesa regionale secondo cui si tratterebbe di una disposizione transitoria che non ha ancora esaurito la sua efficacia.
Ma anche a voler prescindere dalla questione dei limiti temporali di utilizzo della facoltà concessa dall’art. 156, è la stessa lettura della deliberazione contestata nel conflitto in esame che porta ad escludere che, in questo caso, si sia trattato della sua applicazione.
Nella premessa della deliberazione si richiama, innanzitutto, il contenuto dell’art. 143, comma 2, «in base al quale le singole Regioni e il Ministero stipulano intese per l’elaborazione congiunta dei piani paesaggistici e “Il piano è oggetto di apposito accordo fra pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’articolo 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241”».
Sempre nella premessa si legge inoltre che «l’elaborazione del piano è stata finalizzata, ai sensi dell’articolo 156 del Codice, anche alla verifica e all’adeguamento dei PTP vigenti che saranno sostituiti dal PTPR approvato, ad esclusione del PTP di Roma ambito 15/12 “Caffarella, Appia Antica e Acquedotti”»; che, «successivamente all’approvazione del PTPR, quest’ultimo, ai sensi dell’articolo 2, comma 2, della l.r. 2/2018, verrà adeguato di intesa con il Ministero competente sulla base della Carta dell’uso del suolo aggiornata e nel rispetto degli articoli 135 e 143 del Codice»; che, «a seguito del completamento della fase pubblicistica dei sopracitati beni paesaggistici, il PTPR approvato dovrà essere aggiornato ed integrato, di intesa con il Ministero competente nel rispetto degli articoli 135 e 143 del Codice».
Infine, con la deliberazione impugnata il Consiglio regionale ha stabilito, tra l’altro, «di dare mandato alla Giunta regionale, per il tramite della struttura regionale competente in materia di pianificazione paesistica, di porre in essere gli atti necessari al raggiungimento della stipula dell’Accordo di cui all’articolo 143, comma 2, del Codice successivamente al completamento della fase pubblicistica dei sopracitati beni paesaggistici» (punto 8).
Da quanto riportato si deduce chiaramente che, nelle stesse intenzioni del Consiglio regionale, il PTPR costituisce un nuovo piano, assunto in applicazione della disciplina di cui all’art. 143 del d.lgs. n. 42 del 2004, e che, al contempo, la sua elaborazione è finalizzata «anche» al diverso obiettivo della verifica e dell’adeguamento dei PTP vigenti. In altre parole, il contestuale riferimento all’art. 143 e all’art. 156 dimostra che il contenuto del piano non si esaurisce nella sola verifica e adeguamento dei piani preesistenti ma presenta un significativo quid novi non riconducibile alle attività di cui all’art. 156.
6.– Escluso, dunque, che il procedimento di approvazione del piano oggetto di conflitto di attribuzione potesse svolgersi senza il coinvolgimento del Ministero in applicazione di quanto previsto dall’art. 156 del Codice del paesaggio, occorre stabilire se sia stato violato il principio di leale collaborazione.
6.1.– La difesa regionale ritiene che la partecipazione del Ministero sia stata sempre integralmente garantita, sebbene «in presenza di un contesto normativo che, all’origine, neppure la richiedeva». La Regione Lazio ricorda che i contenuti oggetto di co-pianificazione del piano, ai sensi degli artt. 135 e 143, comma 1, lettere b), c) e d), del d.lgs. n. 42 del 2004, sono limitati all’individuazione e alla disciplina di tutela e di uso dei seguenti beni: immobili e aree dichiarate di notevole interesse pubblico ai sensi dell’art. 136 (cosiddette “bellezze naturali”); aree tutelate direttamente dalla legge ai sensi dell’art. 142 (cosiddette “zone Galasso”, come territori costieri, fiumi, torrenti e parchi); ulteriori immobili e aree di notevole interesse pubblico; e, alla luce di questa precisazione, afferma che «tutta l’attività di perimetrazione, rappresentazione e disciplina d’uso della vincolistica contenuta nel PTPR è stata interamente oggetto di co-pianificazione», e che, con l’approvazione del PTPR del 2019, «le ricognizioni, le individuazioni e le graficizzazioni dei beni sono rimaste immutate». Pertanto le modifiche apportate avrebbero riguardato «solamente il testo normativo e sono state in ogni caso puntuali ed isolate».
Più in generale, la Regione contesta che la necessaria co-pianificazione possa tradursi «nel consenso da trovare su ogni singolo, minimo dettaglio di un piano di ampiezza pari a quello regolativo del paesaggio di un’intera regione», dovendosi piuttosto intendere in un senso «più equilibrato», cioè come «condivisione reciproca sull’impostazione, i caratteri, le linee generali e le finalità del Piano». Diversamente, essa afferma, seguendo l’impostazione del ricorrente la decisione congiunta consisterebbe in «un passivo adeguamento della Regione a disposizioni autoritative statali, con il conseguente svuotamento di qualsivoglia competenza regionale, politica o amministrativa».
6.2.– Le condivisibili premesse da cui muove la resistente – che, per un verso, circoscrive la necessità della pianificazione congiunta ai soli beni di cui all’art. 143, comma 1, lettere b), c) e d), del d.lgs. n. 42 del 2004 e, per altro verso, precisa che la co-pianificazione deve intendersi come «condivisione reciproca sull’impostazione, i caratteri, le linee generali e le finalità del Piano» – portano tuttavia all’esito opposto a quello da essa auspicato.
Dalle stesse premesse discende, infatti, la necessità che la pianificazione paesaggistica regionale si esprima attraverso una generale condivisione dell’atto che la realizza, ciò che risulta tanto più evidente in una Regione, il Lazio, in cui, come ricordano entrambe le parti del presente giudizio, più del 70 per cento del territorio è sottoposto a vincoli paesaggistici.
In definitiva, seppure l’obbligo di pianificazione congiunta investa i beni paesaggistici di cui all’art. 143, comma 1, lettere b), c) e d), del d.lgs. n. 42 del 2004, «non è ammissibile la “generale esclusione o la previsione di una mera partecipazione degli organi ministeriali” in procedimenti che richiedono la cooperazione congiunta: in tali ipotesi la tutela paesaggistica verrebbe degradata, “da valore unitario prevalente e a concertazione rigorosamente necessaria, in mera esigenza urbanistica” (sentenza n. 64 del 2015)» (sentenza n. 66 del 2018; già, negli stessi termini, sentenza n. 197 del 2014).
L’unitarietà del valore della tutela paesaggistica comporta, dunque, l’impossibilità di scindere il procedimento di pianificazione paesaggistica in subprocedimenti che vedano del tutto assente la componente statale.
Nella direzione anzidetta si è mossa la giurisprudenza di questa Corte, la quale, ancora di recente, ha affermato che «“[l]a disciplina statale volta a proteggere l’ambiente e il paesaggio viene […] ‘a funzionare come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza’” (sentenza n. 66 del 2018). Essa “richiede una strategia istituzionale ad ampio raggio, che si esplica in un’attività pianificatoria estesa sull’intero territorio nazionale […] affidata congiuntamente allo Stato e alle Regioni” (sentenza n. 66 del 2018). È in questa prospettiva che il codice dei beni culturali e del paesaggio pone, all’art. 135, un obbligo di elaborazione congiunta del piano paesaggistico, con riferimento agli immobili e alle aree dichiarati di notevole interesse pubblico ai sensi dell’art. 136 (le cosiddette “bellezze naturali”), alle aree tutelate direttamente dalla legge ai sensi dell’art. 142 (le cosiddette “zone Galasso”, come territori costieri, fiumi, torrenti, parchi) e, infine, agli ulteriori immobili ed aree di notevole interesse pubblico (art. 143, lettera d). Tale obbligo costituisce un principio inderogabile della legislazione statale, che è, a sua volta, un riflesso della necessaria “impronta unitaria della pianificazione paesaggistica” (sentenza n. 64 del 2015), e mira a “garantire, attraverso la partecipazione degli organi ministeriali ai procedimenti in materia, l’effettiva ed uniforme tutela dell’ambiente” (sentenza n. 210 del 2016)» (sentenza n. 86 del 2019, ma già nello stesso senso, ex plurimis, sentenze n. 178, 68 e n. 66 del 2018, n. 210 del 2016, n. 64 del 2015, n. 197 del 2014, n. 211 del 2013).
Pertanto, l’intervento della Regione, volto a modificare unilateralmente la disciplina di un’area protetta, costituisce violazione, non solo degli impegni in ipotesi assunti con il Ministero in sede procedimentale, «ma soprattutto di quanto prescritto dal codice dei beni culturali e del paesaggio che, attraverso la partecipazione degli organi ministeriali ai procedimenti in materia, mira a garantire “l’effettiva ed uniforme tutela dell’ambiente” (sentenza n. 210 del 2016), affidata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato» (sentenza n. 86 del 2019).
E ancora, «la circostanza che la Regione sia intervenuta a dettare una deroga ai limiti per la realizzazione di interventi di ampliamento del patrimonio edilizio esistente, sia pure con riguardo alle pertinenze, in deroga agli strumenti urbanistici, senza seguire l’indicata modalità procedurale collaborativa e senza attendere l’adozione congiunta del piano paesaggistico regionale, delinea una lesione della sfera di competenza statale in materia di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, che si impone al legislatore regionale, sia nelle Regioni a statuto speciale (sentenza n. 189 del 2016) che a quelle a statuto ordinario come limite all’esercizio di competenze primarie e concorrenti» (sempre sentenza n. 86 del 2019).
Quanto detto non vanifica le competenze delle regioni e degli enti locali, «ma è l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica che è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale: il paesaggio va, cioè, rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali» (sentenza n. 182 del 2006; la medesima affermazione è presente anche nelle successive sentenze n. 86 del 2019, n. 68 e n. 66 del 2018, n. 64 del 2015 e n. 197 del 2014).
6.3.– Ribadito il principio della pianificazione congiunta, risulta priva di fondamento la tesi della Regione Lazio che, da un lato, afferma che il coinvolgimento degli organi statali e del MiBACT sarebbe avvenuto, ma, dall’altro, approva unilateralmente il piano, rinviando a una successiva determinazione l’approvazione di quanto nel frattempo effettivamente concordato.
Anche su questo punto è dirimente la lettura della deliberazione impugnata.
Sia nella sua premessa che nel deliberato sono presenti chiari riferimenti alla necessità che il piano sia oggetto di intesa con il Ministero. In particolare, nella premessa si legge che, «a seguito del completamento della fase pubblicistica dei sopracitati beni paesaggistici, il PTPR approvato dovrà essere aggiornato ed integrato, di intesa con il Ministero competente nel rispetto degli articoli 135 e 143 del Codice». Inoltre, nel punto 8 della deliberazione, il Consiglio delibera «di dare mandato alla Giunta regionale, per il tramite della struttura regionale competente in materia di pianificazione paesistica, di porre in essere gli atti necessari al raggiungimento della stipula dell’Accordo di cui all’articolo 143, comma 2, del Codice successivamente al completamento della fase pubblicistica dei sopracitati beni paesaggistici».
Tali affermazioni rendono manifesta la consapevolezza del Consiglio regionale della necessità di addivenire a un accordo con gli organi ministeriali, che avrebbe dovuto precedere e non certo seguire la definitiva approvazione e la conseguente pubblicazione del piano nel BUR. Né, all’evidenza, può vanificare questo vincolo la circostanza che l’approvazione spetti al Consiglio regionale, con la conseguenza, come erroneamente sostenuto dalla difesa regionale, che lo Stato avrebbe dovuto ricercare con esso l’intesa, in sede di trattazione consiliare della proposta della Giunta. Se è vero, infatti, che il Consiglio regionale non può essere chiamato semplicemente a ratificare una decisione assunta dalla Giunta regionale, è altrettanto vero che spettano a quest’ultima l’attività di negoziazione con lo Stato per conto della Regione e l’impegno ad attivarsi per assicurare che gli indirizzi e le indicazioni del Consiglio siano esaminati ed eventualmente recepiti in sede di trattativa con gli organi ministeriali. Il potere del Consiglio regionale di non approvare la proposta formulata dalla Giunta resta naturalmente fermo, così come quello di chiedere l’avvio di una nuova interlocuzione con il MiBACT, ma tale circostanza non può legittimare lo stesso Consiglio ad approvare unilateralmente ciò che deve essere invece oggetto di decisione condivisa.
In conclusione, anche in questa vicenda viene in rilievo lo spirito che deve informare il procedimento di adozione e di approvazione dei piani paesaggistici, improntato al principio di leale collaborazione, che, come questa Corte ha ripetutamente affermato, si caratterizza per «la sua elasticità e la sua adattabilità», che se, da un lato, «lo rendono particolarmente idoneo a regolare in modo dinamico i rapporti in questione, attenuando i dualismi ed evitando eccessivi irrigidimenti», dall’altro lato, richiedono «continue precisazioni e concretizzazioni» (sentenza n. 31 del 2006).
Lo schema delle reiterate trattative, più volte richiamato nella giurisprudenza di questa Corte per alludere al corretto funzionamento dei meccanismi di leale collaborazione, esprime al meglio la necessità di un confronto costante, paritario e leale tra le parti, che deve caratterizzare ogni fase del procedimento e non seguire la sua conclusione.
Nel caso di specie, la Regione Lazio, dopo aver assicurato il coinvolgimento del MiBACT fino alla proposta di delibera consiliare 10 marzo 2016, n. 60, adottata dalla Giunta regionale con decisione 8 marzo 2016, n. 6, ha posto in essere una condotta che viola i canoni della leale collaborazione. Da questo punto di vista l’approvazione e poi la pubblicazione della deliberazione del Consiglio regionale n. 5 del 2019 hanno determinato una soluzione di continuità nell’iter collaborativo avviato tra Stato e Regione, hanno prodotto l’affermazione unilaterale della volontà di una parte e si sono tradotte in un comportamento non leale, nella misura in cui – a conclusione del (e nonostante il) percorso di collaborazione – la Regione ha approvato un piano non concordato, destinato a produrre i suoi effetti nelle more dell’approvazione di quello oggetto di accordo con il MiBACT.
Il ricorso deve pertanto essere accolto in riferimento alla violazione del principio di leale collaborazione, in quanto non spettava al Consiglio regionale approvare la deliberazione n. 5 del 2019 senza il previo coinvolgimento del MiBACT. Conseguentemente la deliberazione impugnata deve essere annullata.
7.– Dall’accoglimento del ricorso per conflitto deriva l’annullamento non solo della citata deliberazione n. 5 del 2019 ma anche degli atti attuativi e conseguenziali, fra i quali, senz’altro, la nota della Direzione regionale per le politiche abitative e la pianificazione territoriale, paesistica e urbanistica della Regione Lazio, del 20 febbraio 2020, prot. 0153503, attuativa della delibera impugnata in quanto relativa ai procedimenti in corso per l’ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica.
8.– L’accoglimento del ricorso con riferimento al principio di leale collaborazione comporta l’assorbimento delle censure promosse con riferimento agli artt. 9, 117, secondo comma, lettera s), e 118 Cost. e quindi anche della domanda di istruttoria, formulata dalla difesa regionale in udienza, volta ad accertare il livello di tutela paesaggistica assicurato dalle singole norme del PTPR.
Parimenti assorbita è l’istanza di sospensione dell’atto impugnato.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara che non spettava alla Regione Lazio e, per essa, al Consiglio regionale approvare la deliberazione 2 agosto 2019, n. 5 (Piano territoriale paesistico regionale – PTPR), e annulla, per l’effetto, la suddetta deliberazione e la nota della Direzione regionale per le politiche abitative e la pianificazione territoriale, paesistica e urbanistica della Regione Lazio del 20 febbraio 2020, prot. 0153503.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2020.