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L’altro filone delle indagini in Basilicata che coinvolge l’ENI

da informazionesenzafiltro.blogspot

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C’è un elemento sconcertante nel clamore mediatico che attornia da giorni l’inchiesta sul petrolio lucano. Il coinvolgimento dell’ex ministro Federica Guidi nel filone di indagine che riguarda i fenomeni corruttivi e il traffico di influenze illecite per il progetto Tempa Rossa è riuscito in una missione impossibile: quella di far sparire o comunque ridurre sullo sfondo l’altro filone di inchiesta, che riguarda la presunta condotta criminosa di alcuni funzionari dell’Eni e che potrebbe aprire la strada – se gli approfondimenti epidemiologici lo confermeranno – all’evoluzione dell’ipotesi di reato in disastro ambientale. Pubblichiamo il documentato articolo di Marica Di Pierri su Huffington Post 

Cosa ci insegna l’affaire Eni in Basilicata

di Marica Di Pierri

(Huffington Post 11/04/2016)

Le responsabilità politiche dietro lo scandalo che sta travolgendo il Texas lucano
C’è un elemento sconcertante nel clamore mediatico che attornia da giorni l’inchiesta sul petrolio lucano. Il coinvolgimento dell’ex ministro Federica Guidi nel filone di indagine che riguarda i fenomeni corruttivi e il traffico di influenze illecite per il progetto Tempa Rossa è riuscito in una missione impossibile: quella di far sparire o comunque ridurre sullo sfondo l’altro filone di inchiesta, che riguarda la presunta condotta criminosa di alcuni funzionari dell’Eni e che potrebbe aprire la strada – se gli approfondimenti epidemiologici lo confermeranno – all’evoluzione dell’ipotesi di reato in disastro ambientale.

L’oggetto dell’indagine
Come è noto l’indagine, avviata dalla Procura di Potenza e svolta dai carabinieri del Noe in collaborazione con la Direzione Nazionale Antimafia, ha coinvolto l’operato della multinazionale di casa nostra, l’Eni, rispetto a due diverse condotte penalmente rilevanti. Da un lato vi è la presunta omissione/manomissione dei dati forniti agli enti di controllo, riguardanti le emissioni atmosferiche del Centro Olio, compresi i frequenti episodi di sforamento che sarebbero stati deliberatamente omessi per evitare ulteriori controlli. Dall’altro lato, si contesta la manipolazione dei codici CER su cui si fonda l’ipotesi di reato di traffico e smaltimento illecito dei rifiuti (ovvero dei reflui petroliferi dell’attività estrattiva), reato che coinvolgerebbe anche le imprese preposte al trattamento dei rifiuti.

In sostanza, si sarebbero classificati rifiuti pericolosi come non pericolosi, permettendone lo smaltimento senza il rispetto delle prescrizioni di legge, con pesanti ricadute ambientali e con un risparmio per l’impresa stimato tra i 44 e i 110 milioni di euro. In tal modo sarebbero state sversate illecitamente circa 850.000 tonnellate di sostanze altamente inquinanti. Secondo l’ordinanza, i rifiuti speciali pericolosi prodotti nel COVA venivano “qualificati dal management Eni in maniera del tutto arbitraria e illecita”. I reflui venivano poi trasportati con le autobotti all’impianto di smaltimento Tecnoparco, sito a Pisticci, in Valbasento e smaltiti con procedure non consone a rifiuti tossici. La parte rimanente veniva invece re iniettata nel pozzo Costa Molina 2, a Montemurro (PZ), messo sotto sequestro dalla magistratura.

Tradotto in altri termini: l’Eni (che estrae quotidianamente dal polo petrolifero in Val D’agri 75.000 barili di greggio – pari a circa 3 milioni di euro di utili) avrebbe deliberatamente, per risparmiare qualche milione di euro, avvelenato aria, terreni e acque della Basilicata. Quali siano le conseguenze della contaminazione in tal modo prodotta sulla salute della popolazione è in via di accertamento: da martedì 5 aprile è in corso il sequestro di migliaia di cartelle cliniche negli ospedali lucani da parte del Noe.

Riassunto delle puntate precedenti: un osservatorio ambientale con 13 anni di ritardo
Prima di arrivare al cuore della questione, è doveroso tracciare un quadro generale di riferimento, che sottolinei con quanta colpevole superficialità sia stata affrontata la questione dei monitoraggi ambientali ed epidemiologici, a partire dalle istituzioni pubbliche e dagli stessi enti preposti a controllo del territorio. Sin dalla firma del Protocollo di Intenti tra Eni e Regione Basilicata del 1998 si prevedeva “quale misura di compensazione ambientale in relazione al progetto di sviluppo petrolifero” l’istituzione di un Osservatorio Ambientale in Val D’Agri, che monitorasse le conseguenze ambientali delle attività estrattive su base territoriale. L’Osservatorio è stato fattivamente istituito soltanto nel 2011, con ben 13 anni di ritardo, (D.G.R. 272 del 1.03.2011). Nel 2014 l’Osservatorio è stato poi trasformato in Fondazione per volere dell’attuale Giunta Regionale guidata da Marcello Pittella. Numerose sono le denunce della cittadinanza e delle associazioni territoriali rispetto alla sostanziale inattività dell’ente: ancora oggi visitando il sito dell’osservatorio la pagina dedicata al “Chi Siamo” risulta in fase di aggiornamento e non vi sono i nominativi del componenti l’organigramma.

Più in generale, la pubblicazione dei dati di rilevazione sul sito dell’ARPAB e dell’Osservatorio è da sempre stata caratterizzata da lacune temporali e parzialità dei dati forniti. La prima centralina di monitoraggio atmosferico è stata installata a Viggiano solo nel 2006, ben 10 anni dopo l’apertura del COVA: prima di allora le uniche rilevazioni erano fornite dalla stessa ENI. Passano ulteriori 6 anni per arrivare all’installazione di altre 4 centraline, posizionate nel 2012 (peraltro “donate dall’Eni all’ARPAB e considerate già obsolete dal Prof. Gianluigi De Gennaro dell’Università di Bari, consulente tecnico del comune di Viggiano” come denunciato nel 2015 dal Comitato Onda Rosa di Viggiano). Un piccolo episodio – dotato di particolare valore paradigmatico – riguarda l’incomprensibile ritardo nell’aggiudicazione del servizio di manutenzione delle centraline (essenziale per i monitoraggi). L’affidamento, scaduto nel marzo 2014, è stato nuovamente aggiudicato solo nel novembre 2014, con ben 7 mesi di ritardo rispetto alla scadenza del precedente contratto.

Due decenni di petrolizzazione senza indagini epidemiologiche
Nonostante la Val D’Agri sia interessata da oltre 20 anni da un’intensa attività estrattiva, non sono mai state svolte approfondite indagine epidemiologiche. Un primo studio realizzato dal Consorzio Mario Negri Sud nel 2000 in collaborazione con l’Osservatorio Epidemiologico Regionale dal titolo Epidemiologia occupazionale ed ambientale, aveva evidenziato a soli 3 anni dall’apertura del COVA nell’area interessata dall’impianto, (comprendente 4 comuni) “tassi di ospedalizzazione per eventi sentinella cardio-respiratori mediamente più elevati rispetto ai livelli medi regionali. In particolare, – continuava lo studio – l’area nella quale ricade il centro oli mostra tassi più elevati (dal 50% a 2,5 volte) per asma, altre condizioni respiratorie acute, ischemie cardiache e scompenso”. Nel 2008 il Comune di Viggiano aveva avviato una interlocuzione con lo stesso Istituto chiedendo di istruire il progetto per la realizzazione della VIS, Valutazione di Impatto sulla Salute. Dopo due anni di lavoro per preparare il progetto e diversi incontri intercorsi tra i ricercatori e l’amministrazione comunale, con a capo l’allora sindacoGiuseppe Alberti, si finì con un nulla di fatto. Lo stesso istituto Mario Negri affermò più volte pubblicamente, per bocca del dott. Tommaso Pagliani, responsabile del progetto, che sarebbe stato opportuno che “l’Osservatorio Epidemiologico Regionale della Basilicata realizzasse approfondimenti non solo sulle patologie sentinella citate nello studio del 2000, ma anche sulle patologie croniche eventualmente manifestatesi nel frattempo”.

Nel 2010 viene effettuata dal Dipartimento Salute della Regione un’indagine statistica retrospettiva “La descrizione del profilo di salute della Val D’Agri attraverso lo studio dei dati sanitari correnti”. Il documento, realizzato in collaborazione tra Regione Basilicata e Istituto Superiore di Sanità, afferma nelle conclusioni che non si registrano problematiche sanitarie di rilievo pur osservando contestualmente, in riferimento a specifiche patologie, eccessi di mortalità per ambedue i sessi per malattie respiratorie croniche e acute e dell’apparato digerente e cardiocircolatorio, tumori maligni e leucemia linfoide. Dopo alcuni anni di silenzio, nel 2014 sembrano avviarsi di nuovo i lavori per una Valutazione di Impatto Sanitario in Val D’Agri, partendo dall’identificazione di un centro di riferimento per lo studio. Il processo, tuttavia, ha subito diverse battute d’arresto per rimettersi in moto soltanto pochi mesi fa, alla fine del 2015. Per quanto concerne l’istituzione di strumenti di indagine importanti quali il Registro Tumori, in Basilicata (nonostante quanto disposto dal  DL n. 179/2012, poi convertito in legge il 13.12.2012) il registro è ancora in attesa di accreditamento da parte dell’AIRTUM, Associazione Italiana Registri Tumori ovvero l’ente preposto a livello nazionale. Di fronte a questa sfilza di ritardi e inadempienze è legittimo osservare che gli stessi enti locali, a partire dalle istituzioni regionali e dai Comuni della Val D’Agri colpiti dagli effetti del COVA avrebbero di certo potuto (e dovuto) agire con più risolutezza, arrivando a sollevare la questione della contaminazione e dei suoi effetti sanitari ben prima che ciò emergesse dall’attuale inchiesta della magistratura di Potenza.

Il depotenziamento dei presidi sanitari in Val D’Agri
Elemento di responsabilità politica imputabile invece del tutto alla Regione Basilicata è il processo di depotenziamento, che porta la firma dell’attuale giunta Pittella, a danno dall’ospedale di Villa D’Agri. L’ospedale è l’unico presidio sanitario presente in Val D’Agri, ed è la struttura di riferimento per la gestione delle conseguenze sanitarie di eventuali incidenti rilevanti (il COVA è un impianto sottoposto alla Direttiva SEVESO, che dispone procedure di sicurezza per gli impianti industriali a rischio di incidente rilevante). L’ospedale di Villa D’Agri ha subìto, dall’entrata in carica dell’attuale governo regionale, la soppressione del reparto di Pneumologia che è stato accorpato al reparto di Medicina Generale, perdendo di specificità (decisione inspiegabile, visto che le malattie respiratorie sono tra le patologie attenzionate in presenza di fattori di rischio ambientale) e il declassamento di Unità Operative Complesse ad Unità Operative Semplici di Cardiologia, Pediatria, Anestesia e Rianimazione, Ginecologia. Da due anni è stato chiuso il Punto Nascite, con rischi per le gestanti di partorire per strada: se escludiamo Villa D’Agri, l’ospedale più vicino si trova nel capoluogo di Regione, a Potenza, a distanza di 70 km per percorrere i quali, a causa della mancanza di infrastrutture stradali idonee, occorre ben più di un’ora di macchina. In generale, l’ospedale versa da anni in una situazione di grave carenza di organico e l’azione di depotenziamento sta investendo anche le strutture che operano sul territorio (la cosiddetta Primary Care dei Distretti e la Lungodegenza/Riabilitazione). Di contro, l’amministrazione regionale intende rafforzare il polo ospedaliero di Lagonegro, ove devono iniziare i lavori per una nuova struttura ospedaliera che nella migliore delle ipotesi sarà funzionante tra 10 anni. Inoltre, nell’ambito del potenziamento della struttura di Lagonegro, oltre alla creazione di nuove Unità Operative Complesse, si è assistito alla collocazione di molto del personale amministrativo dell’ex ASL del Lagonegrese nei posti chiave della sanità regionale (direzioni amministrative dei Vari Ospedali, Crob, direzioni del Personale e vari centri di potere e di controllo nell’ambito della Sanità lucana).

Un sistema di controlli tutto a favor d’impresa
Allargando l’orizzonte più in la del caso lucano, si potrebbe trarre dalla vicenda una considerazione di carattere generale rispetto al funzionamento degli enti di controllo. La normativa italiana, richiamandosi ad una logica di autocontrollo delle attività produttive, prevede che le stesse imprese forniscano costantemente agli enti di controllo (tra cui Arpa, Asl, ISPRA) le rilevazioni dei parametri ambientali relativi alle attività. Questo principio di per sé avrebbe senso solo se accompagnato da continui monitoraggi indipendenti portati avanti dagli organismi di controllo, che spesso sono discontinui e lacunosi e si sostanziano, come avvenuto in Val D’Agri, nella delega in bianco delle funzioni di misurazione e monitoraggio al soggetto controllato. Che il controllore sistematizzi dati forniti esclusivamente dal controllato è elemento di debolezza e di scarsa trasparenza, che facilita episodi come quello lucano.

Ulteriore elemento di perplessità riguarda un’annosa questione: i vertici delle Agenzie regionali di protezione ambientale, come delle Asl e degli altri organi di controllo preposti alla tutela dell’ambiente e della salute pubblica continuano ad essere di nomina politica e non, come sarebbe naturale, selezionati sulla base di titoli e merito. Questo elemento, in situazioni in cui la logica clientelare è culturalmente radicata, crea corti circuiti frequenti e dinamiche che non garantiscono alcuna trasparenza. Laddove, a esempio, si registrano episodi corruttivi messi in atto dalle imprese verso rappresentanti istituzionali, come si può pensare che i vertici nominati dagli stessi rappresentanti istituzionali possano garantire la necessaria indipendenza e terzietà fondamentale per le attività di controllo?

Poteva l’Eni non sapere?
Ma ritorniamo all’attualità. Secondo l’ipotesi della magistratura i vertici Eni sarebbero stati consapevoli dell’aggiramento delle normative in materia ambientale. In tutto sono stati spiccati 6 mandati d’arresto, 60 persone risultano indagate mentre l’ordinanza ha disposto il sequestro delle vasche del Cova e del pozzo di reiniezione Costa Molina, sito a Montemurro. Misure che hanno comportato la sospensione della produzione di petrolio in Val D’Agri. Il fatto stesso che la responsabilità delle condotte criminose sia riconducibile all’Eni rileva un elemento di gravità ulteriore. La quota di controllo del 30% di Eni è ancora in mano allo Stato italiano, che partecipa alla divisione degli utili agli azionisti (nello specifico, la quota di partecipazione diretta del Ministero dell’economia e delle finanze è pari al 4,34% e quella della Cassa depositi e prestiti S.p.A.è pari al 25,76%). Le ultime vicende giudiziarie configurerebbero, se confermate, una logica aziendale del tutto privatistica, tesa esclusivamente all’accumulazione di profitti e alla minimizzazione dei costi, pur a costo di eludere illecitamente le normative ambientali. Una logica che purtroppo emerge anche nell’operato di altre multinazionali del petrolio che operano in Italia: si vedano a mo’ di esempio le inchieste che hanno coinvolto la Piattaforma Offshore Vega A a Pozzallo di Edison (sotto processo per smaltimento illecito di rifiuti in corso presso la procura di Ragusa, a rischio prescrizione) o l’inchiesta contro la Kuwait Petroleum Italia accusata di smaltimento illecito di rifiuti in riferimento alle attività delle raffinerie della zona Est di Napoli.

Royalties senza visione
Se da un lato le condotte delle imprese operanti sul territorio dimostrerebbero comportamenti irresponsabili e una logica da colonialismo economico del peggior stampo, dall’altro agli enti locali della Basilicata va imputata la colpa di essersi lasciati sedurre dalle sirene delle royalties senza però utilizzare le risorse e opportunità economiche disponibili per imprimere una direzione allo sviluppo della regione. Le ultime campagne elettorali regionali sono state tutte centrate sull’eldorado delle Royalties e sulle promesse di benessere ad esse connesse. Con il gettito delle royalties (bassissimo in termini di percentuali sulla ricchezza estratta, appena il 7%, ma considerevoli in termini assoluti per il bilancio regionale e dei comuni della Valle) si sarebbero potute realizzare politiche di sviluppo capaci di immaginare un futuro per la Regione al di là del petrolio. La verità però è un’altra: centinaia di milioni di euro non hanno prodotto (in due decenni) né strumenti di controllo a tutela delle comunità locali, né piani di sviluppo su settori economici alternativi. È scontato che presto o tardi il giacimento finirà e le imprese andranno via. Ciononostante il terreno che ad oggi le istituzioni hanno preparato per il post-petrolio è tutt’altro che fertile: un terzo delle famiglie lucane vicine alla soglia di povertà, tassi di disoccupazione giovanile a livelli record, spopolamento regionale tra i più alti d’Italia (con picchi proprio nelle zone interessate dall’estrazione petrolifera); chiusura di migliaia di aziende agricole con perdita di migliaia di ettari di terreno coltivato.

Cosa ci insegna questa storia?
La frequenza degli eventi anomali (fiammate e fuoriuscite di fumi) e le avvisaglie della contaminazione ambientale nelle acque e nei terreni della Val D’Agri erano state più volte denunciate da parte della società civile. Nel 2010 il tenente della polizia provinciale Giuseppe Di Bello aveva effettuato (per suo conto e con sue proprie risorse, assieme a Maurizio Bolognetti dei radicali lucani) analisi indipendenti sull’invaso del Pertusillo, che fornisce acqua potabile a Puglia e Basilicata, situato in piena Val D’agri e a pochissima distanza dal pozzo di reiniezione di Costa Molina 2, ora sottoposto a sequestro. Le analisi, dei cui risultati furono informate la Procura di Potenza e gli organi di stampa, rilevarono la presenza di alti livelli di agenti inquinanti riconducibili all’attività petrolifera. La conseguenza fu l’apertura di un indagine contro Di Bello (per il reato di rivelazione di segreto d’ufficio) e Bolognetti, poi assolti dopo lungo calvario giudiziario. Di Bello fu prima sospeso dal servizio e poi ricollocato come guardiano del Museo Provinciale di Potenza. Anche la geologa dell’Università di Basilicata Albina Colella realizzò nel 2012 uno studio sulla diga del Pertusillo in seguito ad una anomala moria della fauna ittica, rilevando presenza di idrocarburi nelle acque e nei sedimenti dell’invaso. Neppure questo studio stimolò analisi di verifica né azioni di tutela.
Di contro, le ultime analisi “ufficiali” sui metalli pesanti e gli idrocarburi nel Petrusillo risalgono a 4 anni fa. Da allora i controlli Arpab sono fermi. Sui livelli di contaminazione e le ricadute sanitarie si sono levate negli anni le voci di preoccupazione e di denuncia delle organizzazioni ambientaliste e dei comitati locali, a partire dalla OLA – Organizzazione lucana ambientalista che ha raccolto ed analizzato migliaia di documenti, studi e atti amministrativi a riguardo portando avanti campagne di informazione, di denuncia e di pressione istituzionale.

Viene da obiettare che se si fosse dato ascolto e seguito per tempo a tali denunce, non sarebbe stato necessario attendere una ordinanza della magistratura per avviare azioni di tutela. Il disconoscimento continuo del ruolo della cittadinanza attiva e il restringimento degli spazi di partecipazione e controllo sociale, a partire dalla dimensione territoriale, finisce per far gioco, come dimostra il caso lucano, agli interessi delle imprese. Al contrario, allargare tali spazi e rifondare su base territoriale gli istituti di partecipazione democratica fungerebbe da argine alle mani (troppo) libere delle imprese, cui è permesso di operare senza limiti e controlli. Prima tramite lo Sblocca Italia e poi attraverso la riforma del titolo V della Costituzione il governo intende però agire in senso opposto: privando comunità e enti locali di sovranità sul territorio che sono chiamati ad amministrare. Ragione in più per farsi carico, come cittadini, della battaglia per la partecipazione e la tutela dell’ambiente, della salute e della democrazia.

Marica Di Pierri

Giornalista, attivista di A Sud e presidente del CDCA – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali

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