Perchè NOAlfabeto dell’autonomia differenziata:Giancarlo Storto, urbanista, vice presidente di Carteinregola, autonomia differenziata e governo del territorio 2024
Anna Maria Bianchi Questa sera parliamo di autonomia regionale differenziata e governo del territorio, una materia di cui Carteinregola si è occupata spesso soprattutto per quanto riguarda la Regione Lazio. In più occasioni abbiamo criticato – e anche contestato – dei provvedimenti regionali che riguardavano il governo del territorio e adesso scopriremo che cosa potrebbe succedere nel caso che da materia oggi concorrente passasse all’esclusiva potestà delle Regioni che ne faranno richiesta. Ne parliamo con il nostro vicepresidente di Cartainregola Giancarlo Storto, urbanista, a cui lascio la parola.
Giancarlo Storto Il tema che affronteremo in questo incontro riguarda la materia “governo del territorio”, anche se in premessa occorre evidenziare che gli effetti della disastrosa proposta del ministro Calderoli avranno sul territorio molteplici ricadute. Basti pensare che, allo stato attuale tra le materie a legislazione concorrente Stato/Regioni ci sono i porti, gli aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e navigazione, ed è immediato constatare che le singole Regioni non potrebbero mai ragionare in termini di infrastrutture che hanno un’importanza a livello nazionale e quindi si arriverebbe alla negazione delle condizioni per pianificare localizzazioni e tracciati di opere di rilevanza nazionale.
Con questa considerazione preliminare concentriamo la nostra attenzione sul “governo del territorio”, una delle venti materie attualmente a legislazione concorrente. Con una avvertenza: il “governo del territorio” come locuzione appare per la prima volta proprio nella Costituzione come modificata nel 2001, senza che in precedenza una simile formulazione abbia trovato spazio nella legislazione nazionale. L’espressione governo del territorio era apparsa in alcune leggi regionali, ma mai nella legislazione nazionale. E allora che cosa deve intendersi per governo del territorio? Non avendo mai definito nella legislazione ordinaria il relativo contenuto, a differenza dell’urbanistica, è stata la stessa Corte Costituzionale, con una sentenza importante, la 307 del 2003, a chiarire che all’interno del governo del territorio rientra a pieno titolo l’urbanistica: il governo del territorio senza l’urbanistica, afferma la Corte, sarebbe una sorta di “guscio vuoto” e quindi di fatto tra urbanistica e governo del territorio viene confermata una sovrapposizione di contenuti.
Ripercorriamo ora sinteticamente come si è andato evolvendo il rapporto Stato/Regioni per quello che riguarda l’urbanistica. Si tratta di una materia che è stata oggetto di trasferimento già nella prima fase del decentramento a favore delle Regioni: con una legge, la numero 8 del 1972, vengono trasferite alle Regioni, già all’epoca, le funzioni amministrative legate all’urbanistica in precedenza affidate allo Stato: tutti i Piani regolatori dei comuni italiani, di qualsiasi dimensione demografica, venivano approvati dal Ministero dei Lavori pubblici, attraverso il Consiglio Superiore che li valutava e la direzione dell’Urbanistica che poi emanava i decreti approvativi. E anche la pianificazione attuativa, cioè i Piani particolareggiati e i Piani di lottizzazione erano approvati centralmente attraverso i Provveditorati alle opere pubbliche, organi decentrati dello stesso Ministero dei lavori pubblici.
Dopo la legge del ‘72 questa materia passa in gran parte alle Regioni, le quali approvano gli strumenti urbanistici dei comuni all’interno del proprio territorio, e in più assumono la competenza di emanare proprie leggi nel rispetto delle norme di principio fissate dal legislatore nazionale. Allo Stato rimaneva un compito importante, quello di indicare le linee e gli indirizzi per l’assetto del territorio a livello nazionale.
Competenza che colpevolmente è stata esercitata solo parzialmente e limitatamente ad alcuni settori e che invece avrebbe avuto una sua importanza, anche in relazione ai rapporti con l’Unione Europea, dove da diversi anni si ragiona giustamente anche di assetto territoriale europeo, all’interno del quale ogni nazione avrebbe dovuto dare il proprio contributo, in maniera tale, soprattutto per quanto riguarda le infrastrutture, da configurare una base documentata a cui ancorare le scelte future con l’obiettivo di favorire un maggiore equilibrio territoriale tra aree fortemente attrattive e aree marginali, condizioni presenti in Italia ma, con diverse modalità, anche a livello europeo.
In ogni caso, allo Stato rimane soprattutto il potere di stabilire i princìpi unitari e inderogabili a cui devono attenersi le legislazioni regionali, princìpi che mai sono stati enunciati chiaramente ma che sono desumibili dalla legislazione nazionale vigente.
Quali sono questi princìpi? Derivano soprattutto da una legge approvata in anni decisamente lontani, la legge 1150 del 1942, soltanto parzialmente emendata, modificata e integrata dalla “legge ponte” del 1967 (una legge che così venne comunemente indicata proprio perché doveva essere un tramite, un primo passo, per una nuova legge che il Parlamento, nonostante diversi tentativi operati in alcune legislature, non è mai riuscito a portare a definitiva approvazione). I princìpi generali a cui devono attenersi le legislazioni regionali sono quindi non esplicitati ma restano comunque importanti.
La legge del 1942, nonostante fosse stata approvata in un periodo certamente nefasto per l’Italia, conteneva alcuni elementi positivi, anche se – questo è bene sottolinearlo – tutta la legge era improntata all’espansione delle città, cioè ragionava in termini di sviluppo urbano. Come ormai da tutti largamente condiviso, oggi non è più il problema preminente: la pianificazione urbanistica si è andata concentrando verso la riqualificazione e il recupero della città consolidata, essendo la fase espansiva di fatto molto ridotta, se non addirittura in alcuni casi pressoché azzerata.
In questo contesto, la legislazione regionale ha avuto nel tempo un’evoluzione particolarmente rilevante, che ha di fatto accentuato anche le differenze tra Regione e Regione (soltanto il Molise non ha mai legiferato in questa materia). La prima legge è stata quella della Regione Lombardia, già nel 1975, a cui hanno fatto seguito molte altre legislazioni regionali, che di fatto ampliavano e dettagliavano i contenuti della legge nazionale, ma rimanendo nel solco della legge nazionale stessa. Più recentemente si sono avuti ulteriori elementi di innovazione rispetto ai testi nazionali e sono stati introdotti vari istituti non presenti nella legislazione nazionale, che, come dicevo, non è mai stata in grado di aggiornarsi.
Qui apro una parentesi: in molte legislature l’aggiornamento è stato tentato, sono stati elaborati testi legislativi, alcuni dei quali arrivati anche alla discussione parlamentare, ma mai hanno trovato un esito definitivo attraverso l’approvazione di una nuova legge che subentrasse appunto a quella del 1942.
Il legislatore regionale ha individuato altri istituti, quale ad esempio la “perequazione” che, distribuendo ai proprietari di aree inclusi in predefiniti ambiti territoriali opportunità e oneri, ha espresso un modo di operare in risposta a una sentenza della Corte Costituzionale che prevedeva un risarcimento ai terreni espropriati commisurato ai valori venali (mettendo quindi in gravi difficoltà i comuni). Un altro istituto di cui spesso si parla, soprattutto in riferimento al piano regolatore di Roma, è quello della “compensazione”, un istituto che lascia spazi di ambiguità nell’applicazione a favore di decisioni che passano dalla sfera pubblica a quella privata. Senza volere entrare nel merito dei meccanismi di tecnica urbanistica, mi interessa sottolineare una inequivocabile evoluzione desumibile dalla legislazione regionale, peraltro non estranea anche alla volontà del legislatore nazionale, che si può sintetizzare nell’assumere da parte delle istituzioni nei processi di pianificazione l’operatore immobiliare quale interlocutore privilegiato.
Questa è una caratterizzazione molto evidente che, a mio avviso, contrasta con lo stesso spirito del “fare urbanistica”: un Piano regolatore dovrebbe, deve, tener conto della pluralità degli interessi attraverso delle mediazioni in cui si riconoscono le esigenze dei vari segmenti della popolazione. Anzi, dirò di più: il Piano regolatore deve difendere soprattutto gli interessi dei più deboli. L’esempio che più di altri esprime questo concetto rimane quello degli standard urbanistici. Gli standard urbanistici nascono nel 1968 e sono tutt’ora vigenti (anche se alcune Regioni hanno eroso in qualche misura questo principio): attraverso gli standard viene riconosciuto che a ciascun abitante spetta in una dimensione inderogabile una quota di aree destinate a servizi, a verde, a scuola, a parcheggi e quindi c’è una concezione “egualitaria” del territorio, un principio che dovrebbe essere alla base del senso della pianificazione urbanistica.
Un principio osservato fino agli Anni Ottanta ma in seguito questo modo di concepire l’urbanistica si è spostato a favore degli operatori immobiliari e delle imprese. Quella che viene definita “urbanistica contrattata” è l’esempio in negativo più eclatante: sono i privati che propongono dove investire e quindi prospettano soluzioni che riguardano le scelte localizzative, che vengono in qualche misura contrattate ma di fatto recepite dalle amministrazioni comunali. È una deriva molto preoccupante da cui, come ricordavo, non è esente lo stesso Stato, che ha emanato in più fasi esso stesso legislazioni in deroga ai propri princìpi.
Il caso più esemplificativo in questo senso, che abbiamo avuto modo come Carteinregola di trattare in più occasioni, può ritenersi la “legge degli stadi”. La legge prevede che la società che ha interesse a proporre se stessa come investitrice, ha addirittura la facoltà di indicare l’area su cui su cui realizzare l’impianto sportivo, e che rispetto a questa proposta il Comune non abbia possibilità di avanzare un’alternativa, ma possa esprimersi soltanto in senso positivo o negativo, e qualora la proposta venga considerata positivamente, ne consegue il conferimento dell’interesse pubblico alla realizzazione dell’impianto.
Quindi un modo di operare che vede ridurre il ruolo dell’istituzione pubblica sul territorio e lo subordina invece alla volontà dell’operatore privato. Di fatto la materia del governo del territorio si sta sempre più smembrando, e sempre più quest’idea del territorio come bene comune è affievolita anche dalla legislazione regionale.
Se va avanti il processo di autonomia differenziata, rispetto al governo del territorio, due questioni voglio sottolineare. Da un lato si arriverà a un ulteriore smembramento dei capisaldi dell’urbanistica: si è già in fase avanzata, sarà ancora più evidente in futuro, con questa ulteriore indicazione negativa: lo Stato, non potendo più intervenire, non avrà possibilità di dare indirizzi unitari. Faccio alcuni esempi che ritengo importanti. Si parla tanto di consumo di suolo: nella scorsa legislatura ci sono stati più tentativi per emanare una legge per disciplinare la materia – Carteinregola ne ha più volte sottolineato l’importanza – ma nessun provvedimento è stato emanato dal Parlamento nella scorsa legislatura. Però, rimanendo il governo del territorio materia concorrente, questa possibilità permane; diversamente, con l’autonomia referenziata lo Stato non potrà più intervenire in questo settore.
Un altro esempio: la rigenerazione urbana. Anche su questo terreno ci sarebbe estrema necessità di un indirizzo unitario e anche qui nella scorsa legislatura ci sono stati tentativi; con l’autonomia differenziata questa possibilità verrà a cadere, così come ad esempio per emanare un provvvedimento riguardante l’edilizia sociale, un settore importante a cui si affida la possibilità di ridurre almeno in parte le esigenze abitative di chi ha difficoltà di accedere nel mercato; oggi questa legislazione manca e in futuro non ci sarà più possibilità di restituire questa materia in maniera unitaria.
Ma ci sono anche problemi a mio avviso più rilevanti. Ad esempio la possibilità che le Regioni promuovano autonomamente ulteriori condoni edilizi. Tentativi finora impediti, la Campania ha provato più volte a proporre leggi regionali ma sono state respinte dalla Presidenza del Consiglio che ha considerato la materia non di esclusiva pertinenza regionale e che invece, se la competenza dello Stato verrà esclusa, potranno essere emanati.
Dell’assenza di principi validi a livello nazionale ne risentirebbe anche una legislazione più minuta. Cito in proposito il recente dibattito che si è avuto nella Regione Lazio su una proposta di legge regionale che promuove i seminterrati come abitazioni. Tra le tante criticità da noi evidenziate, questa legge non rispetta il rapporto tra superficie dell’abitazione e superficie finestrata, derogando a una legge del 1975: oggi questa norma è a mio avviso assolutamente illegittima, ma con l’autonomia differenziata sarà invece possibile alla Regione stabilire diversi parametri.
Ma più in generale esistono altre questioni che a me sembra importante sottolineare: con l’autonomia differenziata si avrà un ulteriore alibi perché ad esempio lo Stato non intervenga più in materia di edilizia residenziale pubblica. Già con un decreto legislativo del 1998, n.112, lo Stato aveva perso molte competenze in questa materia e non a caso in questi ultimi vent’anni ha fatto poco o nulla per incrementare gli alloggi pubblici nonostante una domanda ancora elevata. Ebbene, con l’autonomia vi saranno le condizioni per legittimare il mancato intervento dello Stato ad assumere responsabilità e quindi stanziare risorse finanziarie in questo settore.
Mi sembra importante sottolineare il fatto che con l’autonomia differenziata si viene a instaurare una sorta di lingua babelica, perché ogni Regione avrà un suo linguaggio. Un esempio: il Testo Unico dell’edilizia prevede in alcuni casi la necessità di chiedere il permesso di costruire per un intervento edilizio di nuova costruzione, in alcuni casi prevede la SCIA e in altri la CILA, con il corredo di una serie di procedure e di contenuti che riguardano la presentazione delle istanze. Con l’autonomia differenziata ogni Regione potrà decidere come meglio crede, cambiare il nome ai titoli abilitativi e chiamarli in modo diverso agganciandoli a procedure una diversa dall’altra. Il testo unico non a caso ha negli articoli le lettere “L” ed “R”, la lettera “L” indica i principi a cui le Regioni devono sottostare, la lettera “R” individua la parte regolamentare. Ne consegue che tutta la parte di legislazione che oggi rientra nei princìpi non costituirebbe più alcun rifermento per il legislatore regionale.
Quindi una situazione assolutamente disordinata, che produrrebbe ulteriore confusione se poi non tutte le Regioni ritenessero di avvalersi in egual modo di questa scellerata possibilità, cioè di acquisire totalmente la competenza del governo del territorio, perché si arriverebbe ad una condizione in cui alcune Regioni continuerebbero a seguire i princìpi nazionali e altre che invece potrebbero agire in assoluta autonomia.
Ho dato brevemente alcuni elementi tecnici per non rimanere troppo nel generico. Concludo riproponendo due interrogativi riportati in un breve capitolo sulla legislazione urbanistica regionale ospitato in un libro, Territorio senza governo, scritto un paio d’anni fa insieme ad altri studiosi tutti di grande qualità e competenza: “La lingua babelica che rende complicato persino stendere un quadro sinottico sulle normative regionali, è motivata dalla peculiarità fisica e dalle identità culturali dei territori o risponde solo a logiche politiche, peraltro non esenti da mutazione in relazione al governo regionale in carica?” E l’altro: “E soprattutto è utile ai cittadini e alle imprese convivere in un paese in cui varcando un confine regionale è necessario adattarsi ad una nuova nomenclatura, a nuove regole e a diversi comportamenti amministrativi?”
Anna Maria Bianchi Ne vengono fuori molti spunti di riflessione, anche in relazione alle altre materie, perché chiaramente viene da chiedersi se poi ci sarà una legislazione statale che continuerà a valere per quelle Regioni che non faranno richiesta di autonomia rendendo ancora più difficile dare senso al governo del territorio. E comunque anche noi in questi anni con Carteinregola abbiamo assistito a un continuo tentativo di erosione di quei princìpi determinati da leggi nazionali che sono state comunque a protezione di molti diritti dei cittadini, come l’esempio che facevi degli standard o dei seminterrati.
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