Il primo manifesto, anche se invoca “stop abusivismo e illegalità“, chiarisce negli altri punti – chiusura campi Rom, Taser per i vigili urbani – che non si riferisce a corruzione e mafie, e nemmeno agli abusi edilizi, ma alla microcriminalità, che desta più allarme sociale anche se fa assai meno danni delle tangenti e della criminalità organizzata. Inquietante la scelta, per questo tema, dello sfondo di San Pietro, un malizioso contraltare ai messaggi di tolleranza e accoglienza del Santo Padre.
Lo sfondo del Campidoglio accompagna invece la promessa di una “Roma più efficiente” con due punti dedicati a tasti dolenti alla mobilità: la Metro C, un’opera avviata in vista del Giubileo del 2000 che probabilmente non arriverà a dama neanche per quello del 2025, e un sibillino “piano manutentivo straordinario delle grandi e piccole vie di comunicazione“, che sembra rivolgersi ai tanti pendolari – da fuori Roma o dalle periferie – che sprecano ogni giorno varie ore di vita negli spostamenti (ma forse anche agli imprenditori dei lavori pubblici).
Il terzo punto è la “rigenerazione urbana”, piatto ormai irrinunciabile di tutti i menu elettorali, di destra e di sinistra, che può voler dire tante cose. In questo caso è forte il sospetto che sia da intendere come la auspicano molti imprenditori e categorie professionali – e ultimamente anche alcuni ambientalisti- cioè come “sostituzione edilizia” nei quartieri centrali e semicentrali, dove le cubature offrono più profitti, anziché come progetti da avviare soprattutto nei quartieri periferici e semiperiferici dove ce ne sarebbe davvero bisogno.
“Roma più pulita” affonda il dito in un’altra piaga capitolina, sfruculiando i tanti cittadini che giustamente si lamentano della situazione dei rifiuti e del verde urbano, promettendo di risolvere il problema della monnezza con impianti di termovalorizzazione e una “riorganizzazione” – non un “aumento” o un “ampliamento” – della raccolta differenziata, e quello del verde con la “gestione integrata pubblico/privato delle aree verdi“, “privato” che, temo, non si riferisca a quello dei cittadini attivi e del “non profit”.
“Roma Città dello sport”, con sfondo Colosseo, più che allo sport rimanda sempre all’edilizia: che si tratti del nuovo Stadio della Roma, un progetto privato – seppure dichiarato di interesse pubblico da due diverse Amministrazioni capitoline – assai controverso per le cubature commerciali e direzionali annesse, o di altri impianti sportivi pubblici, come lo Stadio Flaminio, un gioiello architettonico in un quadrante strategico della città, in attesa da anni di restauro e di un nuovo gestore, e le “grandi opere incompiute”. Tra queste, il pensiero corre immediato a quella che si chiama proprio “Città dello sport”, le cosiddette “vele” di Calatrava, un’operazione costosissima e fallimentare nei terreni dell’Università di Tor Vergata, eredità dell’operazione “Mondiali di nuoto”.
E se il sottotesto “sport & affari” può sembrare un po’ tirato, basta vedere l’ultimo emendamento al DL semplificazioni avanzato e sostenuto da un fronte bipartisan Lega, IV, PD, FI e FdI (contrario il M5S), sbandierato come “sblocca stadi”, che in realtà smantella i vincoli storico-artistici sugli impianti sportivi italiani e apre la strada a speculazioni private, permettendo di abbattere e ricostruire gli impianti storici – come lo Stadio Flaminio – e di trasformarli, in nome della sostenibilità economico – finanziaria, in mega centri commerciali. Sullo sfondo, si aggira ancora il fantasma delle Olimpiadi Roma 2024 e del coraggioso rifiuto di Virginia Raggi, che ancora tormenta tanti sostenitori delle città “rigenerate” a colpi di grandi eventi, grandi opere, poteri e fondi speciali, che per l’appunto, soprattutto nella Capitale, hanno lasciato una scia di cemento, rovine, incompiute e debiti.
Ma purtroppo i romani hanno spesso la memoria corta…
Anna Maria Bianchi Missaglia