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RomaRicercaRoma: PNRR, rigenerazione e questione abitativa: pubblico, privato o sociale?

di Daniela Festa e Filippo Celata

(Da RomaRicercaRoma 11 marzo 2022)

C’è spazio nel PNRR per affrontare quello che è probabilmente il principale problema a Roma (e non solo): la questione abitativa? Molto poco. Soprattutto perché pochissimo è lo spazio che il PNRR dedica alla questione (1, 2).
Dalla misura M5C2.2-2.1 relativa a “rigenerazione urbana e housing sociale”, Roma ha ottenuto solo una manciata di piccoli progetti e, come si vede nella figura, i pochi relativi all’abitare consistono in mere riqualificazioni di edilizia residenziale pubblica (ERP). A conferma del paradosso del più grande piano straordinario di spesa pubblica che la storia ricordi il quale, in una situazione come quella di Roma, finisce per finanziare l’amministrazione ordinaria.
Anche dalla misura M5C2.2-2.3, il Programma innovativo nazionale per la qualità dell’abitare (PINQuA) – che è stato fatto confluire nel PNRR – Roma ha ottenuto relativamente poco: tre progetti ‘ordinari’, e nessun progetto ‘pilota’, più ricchi. I progetti sono i seguenti:
1) la demolizione e ricostruzione dell’ex scuola Don Calabria in via Cardinal Capranica, a Primavalle. Vi si costruiranno 70 nuovi alloggi tra ERP, ‘social housing’ e ‘co-housing’, con l’obiettivo di puntare all’innovazione tipologica e all’integrazione funzionale tra spazi comuni e spazi privati (14 mln di Euro).
2) la riarticolazione della parte centrale del comparto R5 a Tor Bella Monaca, in via dell’Archeologia, anche per il miglioramento delle sue prestazioni energetiche ed ambientali. Qui non è possibile realizzare nuovi alloggi, la zona è già satura: si riqualificheranno 436 ERP esistenti, e si amplierà di più del doppio la superficie destinata a servizi (15 mln).
3) l’Ex Direzione Magazzini del Commissariato di via del Porto Fluviale, a Ostiense (11 mln), di cui si dirà più avanti.

Su questi due bandi il Comune ottiene complessivamente circa 50 milioni di Euro. Sono stati poi assegnati a Roma 330 milioni di Euro nell’ambito della misura M5C2.2-2.2 relativa ai “Progetti urbani integrati”, e sono state individuate nelle aree di Tor Bella Monaca-Tor Sapienza, Santa Maria della Pietà e Corviale, le tre proposte che l’assessorato comunale all’urbanistica candiderà su questo bando.
Per comprendere il ‘cosa’ di questi interventi è indispensabile partire dal ‘chi’ – dai soggetti che ruotano intorno alla progettazione e realizzazione degli interventi – perché le due dimensioni sono strettamente intrecciate.

Pubblico o privato?

In che modo, innanzitutto, il PNRR affronta la questione abitativa? Con un significativo scivolamento semantico. Si parla infatti di housing sociale, espressione in teoria onnicomprensiva di forme pubbliche o pubblico-private, ma che in realtà allude soprattutto a quest’ultime. Si conferma un trend inauguratosi con il Piano casa varato nel 2008 dal IV governo Berlusconi, da cui qualsiasi riferimento all’ERP era bandito a favore appunto del social housing o dell’edilizia residenziale sociale (ERS). Il ‘sociale’, in breve, sostituiva il ‘pubblico’, segnando un progressivo cambiamento nel modo di intendere l’intervento nel settore. Sempre di investimento pubblico si tratta, ma muta la sua destinazione: la produzione di “alloggi sociali”, tanto in locazione che in proprietà, purché a condizione di vantaggio rispetto al mercato, si apre sempre più all’impresa privata (profit et non), con l’esplicito obiettivo di produrre, oltre ai benefici sociali, un rendimento finanziario per gli investitori.
Nella misura sui PINQuA, in verità, torna il riferimento all’ERP, ma sempre congiuntamente all’housing sociale, senza ulteriori indicazioni rispetto a queste due forme di concezione, produzione e distribuzione dell’abitare molto diverse. L’housing sociale, precisa il PNRR, è destinato al “sostegno alle politiche per l’abitazione a prezzi più bassi (sostenibili) di quelli di mercato (affordable housing)”: il target sono quindi famiglie in difficoltà ma che non rientrano nei parametri per l’assegnazione di ERP (la cosiddetta zona grigia). Su questo, si propone “un meccanismo a leva con l’investimento in fondi target che propongono il progetto di social housing”. La frase, sibillina per i non specialisti, si riferisce alla volontà di attirare finanziamenti da parte di fondi e soggetti immobiliari privati sulla base della promessa di futuri profitti, ed è perfettamente in linea con il cambio di paradigma realizzatosi con il Piano casa. Non è esclusa la partecipazione di soggetti non-profit quali, ad esempio, le cooperative, ma il timore è che gli attori profit siano in grado di mobilitare maggiori risorse finanziarie e organizzative. Gli interventi relativi all’ERP, inoltre, devono essere “ad alto impatto strategico sul territorio nazionale”: non risulterebbero cioè di per sé strategici contrastare il disagio abitativo e l’esclusione sociale, dovendosi dimostrare per tali interventi un plus strategico-territoriale non richiesto invece per i progetti di social housing.
Per inciso, rientrano nella nozione di social housing anche le residenze per studenti universitari: la misura del PNRR in questo ambito adotta lo stesso approccio, e sembra riferirsi chiaramente al finanziamento pubblico di student-hotel privati, i cui alloggi, molto costosi, possono anche essere affittati in forma temporanea a non studenti, che certo non provengono da “famiglie in difficoltà”, e perfino a turisti.
Se e come tale tentativo di mobilitare risorse private verrà declinato in sede di realizzazione degli interventi non è ad ora dato sapere.

Partecipazione o co-progettazione?

Gli interventi del PNRR su inclusione e coesione potranno inoltre avvalersi, si legge nel preambolo, del contributo del Terzo settore. Tale opzione, per quel che riguarda rigenerazione e abitare, è però prevista in maniere esplicita solo per i Piani integrati. Lo strumento è quello della “co-progettazione”, la cui finalità è “una lettura più penetrante dei disagi e dei bisogni al fine di venire incontro alle nuove marginalità e fornire servizi più innovativi, in un reciproco scambio di competenze ed esperienze”. Il presidente della commissione comunale sul PNRR Giovanni Caudo ha più volte dichiarato di voler utilizzare tale strumento, e l’assessore all’urbanistica Veloccia ha confermato che associazioni e attori sociali dovranno essere coinvolti. I tre Piani integrati sono stati scelti d’altronde anche perché già caratterizzati da processi di progettazione partecipata (per lo meno nel caso di Corviale e Tor Bella Monaca), oltre che dal coinvolgimento di tutti i livelli istituzionali rilevanti – dal Comune alla Regione.
Terzo settore è però espressione formale, da un lato troppo ampia e dall’altro troppo ristretta per indicare la straordinaria vitalità del vasto e variegato mondo dell’attivismo sociale a Roma e in questi quartieri. In tema di partecipazione e cooperazione sociale, il movimento dei beni comuni, che a Roma ha uno dei suoi foyer più attivi, ha mostrato negli ultimi anni un desiderio di protagonismo e una competenza progettuale, relazionale e comunicativa incredibilmente mature e ambiziose, e generalmente attente a non iscriversi entro la tendenza alla deresponsabilizzazione del ‘pubblico’. Non si tratta più di invocare la partecipazione di un “cittadino attivo” portatore di un semplice “sapere d’uso”, affinché collabori a progetti urbani con contributi puntuali posti, di solito, a valle di piani in larga parte già decisi, né di sollecitare una partecipazione individualizzata e individualizzante di cittadini isolati, scissi da percorsi di partecipazione già attivi a livello locale, guardati spesso più con sospetto che come valore aggiunto (1).
Mentre il discorso sulla città e sulle politiche urbane continua quindi a inseguire logiche privatistiche e mercatistiche, l’azione pubblica locale, le stesse politiche municipali e regionali, sembrano invece cercare sempre più spesso ispirazione in quell’archivio di conoscenze e pratiche multiformi diffuse localmente al fine di sviluppare progettualità effettivamente innovative. Sembra cioè infine, prodursi, talvolta per maturata convinzione politica talvolta per mancanza di immaginazione da parte delle istituzioni, quell’inversione nella logica della pianificazione già da tempo preconizzata da molte voci critiche: dalla città viva al piano, piuttosto che dal piano alla città.

 Dalla città al piano: il caso del Porto Fluviale

Tra i progetti PINQuA, quelli più promettenti sono tali perché caratterizzati da progettualità alle quali hanno partecipato attivamente coalizioni e reti di attori – abitanti, gruppi locali, associazionismo, università – già vive e operanti secondo logiche integrate tra dimensione urbana e dimensione sociale, e già avanzate nell’immaginazione e nella produzione di modi alternativi di fare città. Solo in questo modo, d’altronde, è possibile perseguire gli obiettivi altisonanti e talvolta retorici, quando non incerti e ambigui, del piano – una città inclusiva, coesa, sostenibile, ‘intelligente’ – evitando in altre parole che il tutto si riduca a mere operazioni di ristrutturazione o peggio di valorizzazione immobiliare.
Ulteriore elemento di interesse è che in tutti e tre i casi le proposte sono state redatte grazie alla collaborazione delle università romane, il che ha facilitato un approccio ai progetti più integrato e attento ai processi urbani emergenti, permettendo di valorizzare saperi e approcci territoriali sedimentati e maturati grazie a un lungo lavoro sul campo.
Indicativo che due dei tre siti siano stati interessati da esperienze di occupazioni residenziali, ma anche il contrasto tra l’intervento a Primavalle, il quale consegue allo sgombero dello stabile, nel 2019, precedentemente occupato da circa 260 persone, tra cui un’ottantina di bambini, e quello sul Porto Fluviale, laddove il progetto consentirà di assegnare regolarmente un alloggio alle 53 famiglie attualmente occupanti. Anche gli ex magazzini del Porto Fluviale nel 2010, avevano rischiato, assieme ad altri immobili ex-militari dismessi, di essere svenduti per fare cassa. Solo una diffusa mobilitazione ha evitato tale esito. Nel caso dell’ex scuola in via Cardinal Capranica, il sospetto che lo sgombero del 2019 sia avvenuto proprio in vista di un progetto di riqualificazione orientato principalmente al social housing è molto forte. In entrambi i casi le occupazioni – come è accaduto altre volte – hanno acceso i riflettori su immobili pubblici di rilievo, abbandonati, oltre che su una situazione drammatica di disagio abitativo e di carenza di case popolari, incontrando così anche una qualche sorta di legittimazione ex-post.
Il punto non è ovviamente, di per sé, l’occupazione, ma la possibilità che la progettazione di interventi urbani prenda le mosse da un sistema di attori territoriali e progettualità già esistenti, vive, territorializzanti – che rafforzano cioè il senso del luogo e il radicamento degli attori – e sostenibili – poiché in grado di riprodursi a partire dal quel sistema di attori in modo generativo, e non esclusivo né dissipativo o peggio estrattivo.
Un caso esemplare è appunto il Porto Fluviale, la cui occupazione ha condotto nel tempo alla creazione di un luogo polifunzionale ove, accanto alle abitazioni auto-recuperate dagli occupanti, sono nate una molteplicità di attività e servizi a carattere sociale e culturale aperte al quartiere e alla città.
Il progetto riguarda il recupero e la trasformazione dell’edificio, vincolato nel 2012 come bene di interesse storico-artistico per i suoi caratteri di archeologia industriale. L’obiettivo non è solo costruire nuovi ERP da assegnare alle famiglie occupanti che presentino i requisiti previsti, ma realizzare, attraverso un percorso partecipato, funzioni residenziali e sociali, adottando un modello di gestione innovativo per l’accesso e l’uso degli spazi comuni, della nuova corte pubblica e dei nuovi servizi e spazi socio-culturali che animeranno il piano terra.
Il progetto consentirà di evitare che alla riqualificazione consegua – come spesso avviene – l’espulsione delle famiglie a basso reddito alla quale essa in teoria si rivolge. La sostituzione delle famiglie occupanti con altre condurrebbe invece a un triplice spossessamento. Gli abitanti sarebbero estromessi dagli spazi che hanno faticosamente auto-recuperato con il proprio lavoro di cura, manutenzione e cooperazione. Sarebbero inoltre obbligati a lasciare il quartiere nel quale si sono via via integrati attraverso percorsi di scolarità, lavoro, socialità, e che hanno contribuito a valorizzare – si pensi, tra i molti valori urbani prodotti, alla collaborazione con lo street artist BLU che ha conferito al Porto Fluviale e all’area un carattere iconico.
La questione residenziale è inoltre strettamente integrata a quella degli spazi destinati ad attività sociali e culturali. Il progetto prevede un “giardino fotovoltaico finalizzato all’attivazione di una comunità energetica”, una “piazza pubblica aperta al quartiere” dove, in accordo con il Municipio VIII, verranno insediati “un mercato a Km0; uno sportello antiviolenza; usi civici e collettivi intergenerazionali e tecnologico-digitali per la didattica a distanza”. Saranno realizzati inoltre “spazi per l’artigianato, per l’allenamento circense e la danza, la sala da tè e un centro di mobilità sostenibile collegato alla pista ciclabile”. La proposta punta inoltre a delinearsi in chiave sperimentale ed innovativa prefigurando future traduzioni del modello in altre aree interessate da simili approcci integrati di rigenerazione urbana e sociale, a cominciare dai tre Progetti urbani integrati.

Le sfide

Molteplici sono, tuttavia, le sfide e le insidie che si profilano nelle fasi esecutive.
In primo luogo il ‘come’ realizzare l’integrazione tra funzioni residenziali e di altro tipo, coordinandole con le altre attività strategiche nell’ottica di una vera e propria co-progettazione. Sebbene si tratti di un processo che nel caso del Porto Fluviale è già avviato – anche grazie all’impegno di ricercatori e studenti del Dipartimento di Architettura dell’Università Roma 3, da lungo tempo attivi sul sito – ci si avvia ora alla fase più delicata di co-decisione rispetto agli sviluppi più concreti del progetto, alla sua costruzione e composizione multi-attoriale. Un aspetto problematico è, tra l’altro, la prospettiva di sostenibilità e continuità per i servizi alla persona e alla comunità proposti. Anche alla luce della breve durata dei fondi, possiamo rilevare come in sede di PNRR non sia stata elaborata una visone in grado di sostenere realmente i progetti selezionati i quali, in fase esecutiva, rischieranno di finire col focalizzarsi sulla sola riqualificazione fisica o di promuovere servizi senza poterne garantire la continuità. Inoltre, si pone il problema dell’individuazione di un modello di governo all’altezza dell’ambizione di un progetto che ruota attorno alla dimensione ‘comunitaria’ e che ambisce a individuare forme innovative non solo sul piano formale e morfologico, ma anche in relazione ai regimi di proprietà, di gestione e di governo.
La relazione tra pubblico e ‘comune’ che sembra caratterizzare il progetto, apre prospettive realmente innovative nello scenario italiano. Come immaginare allora un processo partecipato istituente che prenda le mosse dalla rete degli attori e delle attività già attive al Porto, e che sappia consolidare ulteriormente le relazioni con il quartiere? Il modello dei regolamenti per i beni comuni, approvato dalla Regione Lazio e applicato in sporadici casi nella Capitale (per es. nel caso del laboratorio Puzzle al Tufello), risulterebbe angusto e troppo precario per le caratteristiche del progetto e per le sue ambizioni. Esistono altre forme con caratteri di maggiore stabilità e innovatività, sperimentate in Italia e nel mondo. Si pensi agli usi civici reinventati in chiave urbana in diverse città italiane a partire dall’esperienza napoletana; o ancora ai Community Land Trust statunitensi – forme comunitarie e fiduciarie di gestione di housing e di altre funzioni urbane, caratterizzate da clausole anti-speculative, che prendono rapidamente piede in Europa ma restano sorprendentemente estranei alle politiche abitative italiane. Si pensi, infine, alla Fiducie d’Utilité Sociale canadese che si diffonde come modello innovativo di destinazione comune di proprietà pubbliche o private al fine di preservarne i caratteri sociali o ecosistemici nel tempo.
Una proposta di questo tenore consentirebbe di sperimentare modelli inclusivi, generativi e alternativi di proprietà e di uso collettivo all’interno delle politiche capitoline, in passato drammaticamente miopi sul tema, pur disponendo sul territorio di un patrimonio di sperimentazioni ricche e all’avanguardia. In tal senso segnaliamo che, all’insaputa dei più, le forme collettive di uso e governo di beni comuni, in ambiente urbano e rurale, sono oggetto di ben quattro proposte di legge attualmente depositate in Parlamento, e che sperimentazioni avanzate alla scala municipale potrebbero contribuire a conferire materia e forza a quell’elaborazione legislativa da tempo attesa.
Per quanto riguarda, infine, la sfida dell’integrazione degli attori del c.d. privato sociale, essa, già promossa da precedenti politiche, è stata spesso sostenuta da una particolare enfasi posta sul loro ruolo strategico e sulle loro conoscenze territoriali oltre che sulla vocazione non-profit. Tuttavia, tale integrazione non si è sempre realizzata in un quadro organizzativo tale da creare collaborazioni solide, durature e qualificanti, ma si è sviluppata spesso – anche nel contesto romano – attraverso accordi fragili e a singhiozzo, gestiti con bandi intermittenti che hanno aumentato la precarietà tra i lavoratori del settore, in larga parte donne, giovani, studenti e migranti, spesso inquadrati in rapporti di lavoro discontinui quando non informali.
La co-progettazione con il Terzo Settore, pertanto, non dovrebbe incoraggiare meccanismi né di accreditamento strumentale né di ‘screditamento’ sostanziale di tali attori. Essa dovrebbe, per un verso, mirare a sollecitare chi, nella costellazione del privato sociale, sia già attivo e portatore di conoscenze in riferimento agli specifici progetti da realizzare, valorizzandone ruolo e professionalità, evitando procedure standardizzate avulse dalla logica, dal contesto e dalla scala dell’intervento proposto. Inoltre essa dovrebbe associarsi, in modo coordinato e mai competitivo, al coinvolgimento effettivo degli abitanti, come singoli e come gruppi, nella fase di progettazione: il solo approccio che possa orientare i processi di rigenerazione urbana verso l’aderenza a bisogni e visioni emergenti dal territorio, verso obiettivi condivisi e redistributivi e verso un controllo democratico diffuso e continuo.
Aspettando di apprendere i prossimi sviluppi del progetto del Porto Fluviale, auspichiamo che l’approccio che si propone ispiri e contamini anche altri interventi – PNRR o di altro tipo – che appaiono al momento più convenzionali e certamente meno avanzati sul piano progettuale. Il rischio è che l’imperativo di spendere prima possibile le risorse disponibili prevalga e comprometta quello che dovrebbe essere il vero obiettivo: segnare la stagione delle politiche abitative e urbane capitoline in una chiave di discontinuità e originalità.
Il PNRR farà di per sé molto poco per risolvere l’emergenza abitativa a Roma: può essere allora l’occasione per cambiare il modo con il quale il tema è pensato e affrontato.

Per osservazioni e precisazioni: laboratoriocarteinregola@gmail.com

(1) In tema di pianificazione urbana partecipata, nell’esperienza romana e laziale in genere, sono stata ben messe in evidenza le insidie presenti nell’uso retorico di termini quali co-progettazione e progettazione partecipata, che possono trasformarsi in dispositivi discorsivi disincarnati e de-territorializzanti, persino strumentalizzabili in chiave clientelare, o il rischio di un notevole impegno partecipativo dal quale poi scaturisce poco o nulla. Si pensi, solo per citare alcuni esempi, all’esperienza dei contratti di quartiere, avviati con risultati interessanti ma poi non rifinanziati; o alla controversa stagione dei bilanci partecipativi a Roma e nel Lazio che ha portato a risultati esigui quando non fallimentari, a fronte di un grande investimento da parte di cittadini, comitati, associazioni e università; o infine al Piano Regolatore Sociale romano, intrapreso con grandi ambizioni ma rimasto in larga parte opaco e incompiuto.

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