«Nel 1948 l’Architectural Association – sino a quel momento nota soprattutto per essere la fonte di qualunque fantasticheria megalomane di stampo corbusieriano in Gran Bretagna – fece qualcosa di davvero inatteso: invitò per una conferenza l’architetto anarchico italiano Giancarlo De Carlo. De Carlo era rimasto molto colpito dalla situazione abitativa dei poveri nel suo paese, una situazione, spiegava “non molto diversa da quella degli schiavi del terzo secolo avanti Cristo, o dei plebei nella Roma Imperiale”. Le abitazioni di iniziativa comunale non si erano rivelate una soluzione adeguata, dato che si trattava di “squallide baracche come quelle che oggi si allineano monotone ai margini delle nostre città”. E dunque, sosteneva, “Il problema delle abitazioni non si può risolvere dall’alto: si tratta di un problema delle persone, che non può trovare soluzione, e nemmeno provare ad essere avvicinato in alcun modo efficace, salvo attraverso la concreta volontà e azione delle persone stesse. La pianificazione urbanistica poteva contribuire, nella misura in cui era concepita in quanto “manifestazione di collaborazione comune” e se diventava “impegno a liberare davvero l’esistenza umana, il tentativo di stabilire un armonioso contatto fra natura, economia, ed ogni altro genere di attività umana”».
Su questo breve passaggio, o se volete lunga ragionata citazione, Peter Hall nel suo classico Cities of Tomorrow (p. 271) innesta la nascita moderna del movimento partecipativo di base nella costruzione della città. Dobbiamo subito aggiungerci che, trattandosi del 1948, solo un paio d’anni scarsi dopo l’approvazione del New Towns Act, è la stessa lettura dell’intuizione di De Carlo (perché di intuizione si tratta) a meritare qualche inquadramento storico in più, che ne illumina meglio il senso, probabilmente ben oltre le intenzioni originali. È infatti proprio nel dipanarsi del gigantesco programma attuativo delle nuove città, che si ripropone l’equivoco mai risolto sin dai tempi di Ebenezer Howard e del suo braccio secolare Raymond Unwin: chi decide le forme dei contenitori sociali, e neppure troppo implicitamente il modello di relazioni che finiranno per plasmare? Ma soprattutto, in base a quali principi, forme di comunicazione e interazione, avviene la decisione del modo in cui «stabilire un armonioso contatto fra natura, economia, ed ogni altro genere di attività umana»? Secondo la coppia fondatrice del modello spaziale città giardino, la lettura della tradizione identitaria nazionale (il villaggio ancestrale), filtrata dalla cultura critica dell’architetto-urbanista, era già anni luce più avanti di quella sterile «risposta del mercato» che aveva prodotto sino a quel momento i tuguri speculativi in affitto. De Carlo a ben vedere pare ancora fermo a quella dicotomia, salvo appunto individuare la risposta nella partecipazione attiva degli abitanti, per evitare che qualche architetto pur benintenzionato finisca per riprodurre alveari di alloggi «come quelli che oggi si allineano monotoni ai margini delle nostre città». Già: ma quali bisogni e quali progettualità vanno lette? E interpretate da chi?
Unwin e De Carlo, lontanissimi su ogni fronte, condividono però l’approccio caratteristicamente architettonico del piano-progetto, che ne inquina loro malgrado in vari passaggi, la lucidità dell’analisi e della proposta. Un tema non vagamente intuito, ma assai trattato, sistematicamente, proprio nel citato successivo svolgersi del programma New Town, le cui «polemiche urbanistiche» più interessanti, dal nostro punto di vista, non sono certo quelle tra i fautori del modello razionalista-modernista-corbusieriano e i sostenitori del vernacolo popolare (tema presente anche nelle nostre coeve discussioni interne al Fanfani-Case), ma tra progettisti e sociologi-operatori sociali. Riassunto in poche battute, tutto si riduce a: come leggiamo i bisogni e le aspirazioni di quelle persone? In cosa esattamente coinvolgiamo la loro partecipazione? Per gli architetti risulta quasi automatico, immaginare quelle sessioni di co-progettazione, in cui i futuri residenti esprimono gusti e preferenze sulle qualità spaziali più desiderate. Ma per il sociologo, giustamente, si tratterebbe di guardare un po’ più in là della disposizione dei locali, degli edifici nel verde, della dislocazione dei servizi. E chiedere invece: che modello sociale, familiare, economico quotidiano, volete? Da quelle risposte, adeguatamente filtrate e interpretate, e non dall’improvvisarsi progettista dilettante allo sbaraglio, dovrebbe discendere poi tutto il resto, inclusa magari anche la sessione coi foglietti appesi in bacheca così di moda, o la campagna stampa, o i corsi divulgativi nello stile dell’antico Wacker’s Manual concepito a Chicago nel lontano 1913.
Il Naviglio Pavese in periferia. Foto F. Bottini |
S.T.R.A.M.I.L.A.N.O. la notissima canzoncina sul testo di Luciano Ramo musicato da Vittorio Mascheroni, esce nel 1928, ovvero quasi contemporaneamente alla tombatura della fossa dei Navigli, e nel quadro delle grandi trasformazioni prospettate dalle prospettive di Piero Portaluppi e sviluppate nel piano di Cesare Albertini per la «Manhattan tascabile» dal Duomo alle lontane periferie dei Comuni appena aggregati, e idealmente alla regione metropolitana (per la prima volta introdotta ufficialmente dall’assessore Cesare Chiodi come requisito per il concorso di piano regolatore nel 1925-27). «Ogni vicolo Fu. Strade non ce n’è più. Con lo sfondar, son tutti boulevard. Ti smollan qua, ti sgonfian là. StraMilano, S.T.R.A.M.I.L.A.N.O. Piano piano, Monte Merlo confondi col Pincio, e il Naviglio col Po». Da più di un punto di vista, mai autoironia fu più illuminante di questo breve estratto, una specie di riverniciatura in allegro e ottimista dei quadri periferici di Boccioni, dove anche i simboli cittadini, come l’amata collinetta del passeggio ai Giardini Pubblici (il Monte Merlo, col gazebo per la banda) o gli storici canali, entrano nel turbine della sarabanda. Ovviamente, di come poi debba e possa svilupparsi questa sarabanda, che lascia come ogni mutamento le sue vittime e i suoi vincitori, c’è sempre molto da dire. Ma la vera domanda a cui risponde è di sicuro: volete la «città che sale» o quella sonnacchiosa chiusa nelle sue mura che aspetta i viandanti di passaggio per vendergli vino annacquato nelle osterie?
A suo modo illuminante, un titolo di giornale locale di questi giorni parla del centro di Milano dopo il ripristino dei Navigli e dei quadretti paesaggistici, come di «Una promenade per la movida», illuminandoci a modo suo su quale sia l’idea di città inconsapevolmente (almeno inconsapevolmente per molti) inseguita da operatori e tanti cittadini: una sorta di centro storico posticcio, privo di storia degna di questo nome, file di locali in cui si spilla birra e si esibiscono orchestrine più o meno improvvisate, locale milanese e autentico come certe sagre paesane decise a tavolino da una pro-loco molto attiva, con prodotti made in China spacciati come frutto del territorio. Certo, nulla in contrario a qualche progetto di abbellimento, e ri-arredo, dell’ex Manhattan tascabile e incompiuta malamente improvvisata negli anni ’20, ma sulla base di quale idea di città, localizzazione delle attività economiche, mix sociale di residenti, servizi e immaginario? Forse questo, sarebbe stato un quesito più coerente e trasparente da porre ai cittadini, invece dell’ovvio «volete una città più brutta o più carina?» a cui ci hanno sottoposto, con una logica che continua a permeare un dibattito che non è tale. L’alternativa tra la popolare e amata S.T.R.A.M.I.L.A.N.O. e l’ennesimo dozzinale S.T.R.A.P.U.N.T.I.N.O del turismo alcolico di massa, magari coi medesimi gravissimi problemi delle città d’arte, non pare un tema di secondaria importanza.
Su questioni analoghe, ho già espresso altre perplessità di lungo periodo in Arcipelago Milano, più di recente nel mio blog del lunedì su Today o in generale le riflessioni su Milano