Spazi nella città: Vuoti a prendere di Paolo Cacciari
Autore : Redazione
Primavalle, giardino pubblico (foto ambm)
(da Eddyburg 17 maggio 2018)
Spazi nella città: Vuoti a prendere
di Paolo Cacciari
Analisi di esperienze in atto e percorsi da intraprendere per l’uso socialmente corretto degli spazi abbandonati per trasformare le città in luoghi in cui i valori dell’uguaglianza e della democrazia siano la regola e non l’eccezione.«Vuoti a prendere. Esperienze autogestite e organizzate dal basso per la costruzione di pratiche comuni. Giornata di autoformazione promossa da 20 pietre, ESA e Fuorimercato».
Le città sono implose, fatte a brandelli. In parte gentrificate sotto l’assalto dei fondi speculativi, in parte degradate, abbandonate a sé stesse. Non potrebbe essere altrimenti: le città sono le fedeli concretazioni delle crescenti disuguaglianze sociali e dell’abdicazione dei poteri pubblici. Sull’utilizzo degli spazi urbani si gioca una partita fondamentale dell’assetto dei poteri economici e politici. Protagonisti sono i movimenti urbani di riappropriazione dei luoghi della socialità, a partire dalla residenza e di resistenza alla “messa a reddito” delle aree di pregio (turistiche, residenziali di lusso, commerciali, direzionali di rappresentanza… dove maggiore é la possibilità di estrarre rendite).
I nodi pulsanti di questi movimenti urbani sono i centri autogestiti dalle comunità degli abitanti. “Arche di autonomia”, le definirebbe Raul Zibechi. Aree verdi e immobili liberati e riattivati per dare vita a servizi interculturali, welfare mutualistico, piccole attività economiche cooperatistiche ed ecosolidali, coworking…, insomma, autentica “rigenerazione urbana”. Ogni città è punteggiata da lotte per la conquista di questi spazi pubblici, uniche alternative alla individualizzazione solipsistica delle relazioni umane nell’età dell’iperliberismo. Nelle crepe del lacerato tessuto urbano sono nate esperienze di tutti i tipi: dai centri sociali occupati alle case del popolo, dalle banche del tempo ai comitati di quartiere, fino ai “beni comuni” riconosciuti tramite percorsi partecipativi.
A Bologna è stato creato un Comitato per la promozione e la tutela delle esperienze sociali autogestite (ESA) che nei giorni scorsi ha organizzato assieme alla rete dei produttori Fuorimercato un incontro di “autoformazione” presso la casa del popolo “Venti pietre allo scopo di consolidare i legami di solidarietà tra le varie realtà autogestite cittadine, aumentare il loro peso contrattuale con le varie controparti proprietarie e studiare gli strumenti giuridici-normativi più idonei per poter resistere e gemmare. Anche a Bologna ogni esperienza di autogestione ha storie e contesti diversi. Alcune tengono tenacemente il punto della occupazione: CSOA, come Crash ed XM24. Altre sono riuscite a strappare convenzioni con gli enti pubblici proprietari (è il caso del centro sociale Làbas dopo le imponenti manifestazioni popolari del settembre scorso a seguito dello sgombro forzato dall’ex caserma Masini) o comodati d’uso gratuiti temporanei con i proprietari privati di immobili dismessi (è il caso del “Venti pietre” nell’ex concessionaria automobilistica di via Marzabotto e dell’associazione Pianificazioni urbane). Altri usano il regolamento dell’Amministrazione condivisa, che prevede la stipula di “patti di collaborazione e sussidiarietà” (art 118 riformato della Costituzione) tra i cittadini e le pubbliche amministrazioni, promosso da Labsus in molte città italiane. Per tutti, i modelli culturali generali di riferimento sono le Giunte del buon governo zapatiste in Chiapas e le esperienze di autogoverno federaliste, ecologiste e femministe nella regione curda del Rojava (vedi il volume di Guido Candela e Antonio Senta, La pratica dell’autogestione, elèuthera, 2017, presentato all’incontro). Ma esistono molte altre esperienze più vicine a noi come quelle intraprese a Barcellona, che sono state raccontate da Lucas Ferro Solè di Podemos Catalugna.
Non esistono modelli unici – è stato detto -, ma il punto sicuramente più avanzato conquistato dai movimenti urbani in Italia è quello di Napoli [Je so’ pazzo – n.d.r]. Descritti da Maria Francesca Di Tulio e Giuseppe Micciarelli dell’ex Asilo Filangieri, sono oramai una decina gli immobili di proprietà del Comune partenopeo cui è stato conferito lo status di “bene comune” in uso collettivo, autonormato dalle assemblee di gestione e riconosciuti da una serie di delibere comunali.
Da qualche tempo – su proposta del giurista Ugo Mattei, intervenuto in videoconferenza – è stata proposta la stesura di una Carta d’uso civico dei beni comuni urbani e una proposta di legge popolare nazionale che possa favorire le forme di riuso degli immobili abbandonati o mal utilizzati. Anche il Diritto deve diventare un campo di battaglia sociale per la conquista di nuovi strumenti giuridici (per produrre nuova legalità dal basso) per il “diritto alla città”, all’abitare e al vivere degnamente. I temi cruciali in discussione sono l’accesso e la gestione. É necessario liberare le amministrazioni pubbliche dal cappio del “pareggio di bilancio”.
La scelta sugli usi del patrimonio immobiliare – ad iniziare da quello pubblico, ma non solo – deve tornare ad essere una decisione discrezionale politica, cioè urbanisticamente, socialmente ed eticamente orientata, non condizionata dai “benefici economici” immediati realizzabili. Al “danno erariale” e ai “mancati introiti”, che la Corte dei Conti, ultimo anello della catena tesa dalla Troika, puntualmente contesta alle amministrazioni pubbliche che si rifiutano di “fare cassa” con la svendita dei beni pubblici, va contrapposto il concetto di “redditività sociale” dei beni comuni. Vanno, cioè, calcolati e misurati gli “impatti positivi” non monetari, extra-finanziari, quali la crescita del “capitale” umano e sociale, la reputazione e la bellezza dei luoghi. Concetti che vanno presi sul serio e fatti uscire dalla retorica corrente. Non serve scomodare premi Nobel (come la economista Elinor Ostrom) per capire che una comunità locale ricca di relazioni sociali solidali e di sistemi di auto-mutuo-aiuto crea più benessere duraturo per la popolazione che non una città privatizzata, attraversata da conflitti classisti, ostile nei confronti delle donne e degli stranieri, produttrice di disagi sociali e psicologici, inaffettività e violenza.
Certo, la condizione preliminare per consolidare e allargare le esperienze di autogestione è la mobilitazione popolare che denuncia lo scandalo dello spreco anche economico degli immobili in disuso (8 milioni di edifici abbandonati in Italia, hanno riportato Isabella Inti e Verther Albertazzi di Temporiuso e Planimetrie culturali). Va poi dimostrato attraverso azioni concrete (creazione di centri polivalenti, sportelli legali e servizi di welfare di prossimità, empori e mercati contadini, sistemi di scambio non monetari e piattaforme tecnologiche collaborative…) quali possono essere i benefici realizzabili se a gestirli sono le comunità locali. “Domini collettivi” (come recita la nuova legge che finalmente riconosce gli usi civici consuetudinari delle antiche comunaze), “Comunità patrimoniali “ (come recita la Convenzione di Faro sui beni colturali, mai ratificata dall’Italia) che adottano, curano e fanno propri luoghi e immobili percepiti come beni utili alla collettività, necessari a rendere effettivi i diritti fondamentali individuali all’abitare dignitosamente. I beni comuni sono quindi una forma di possesso che tutela i beni e socializza i benefici.
Non si tratta di sgravare gli enti proprietari (pubblici o privati) dalle loro responsabilità anche costituzionali (l’Articolo 41 sull’utilità sociale dell’iniziativa economica, privata e pubblica, è l’emblema della “Costituzione inattuata e tradita”), ma al contrario di farli uscire da uno stato di colpevole passività. In concreto: manutenzioni straordinarie, allacciamenti, guardiania e altri servizi onerosi vanno mantenuti in capo all’ente proprietario. Le autogestioni non devono nemmeno essere cavalli di Troia per l’esternalizzazione di servizi al “terzo settore”. Le assegnazioni tramite bandi, gare e concessioni (procedure apparentemente trasparenti e neutrali, che piacciono tanto ai tutori della legalità astratta e dell’equilibrio contabile del bilancio dello stato) in realtà sono trappole ideologiche che mettono in competizione i gruppi socialmente attivi, li obbligano ad aziendalizzarsi e li assoggettano alla logica del clientelismo. Per fare comunità capaci di autogoverno (dotate di capatibilities, direbbe Martha Nussbaum ) è necessario – al contrario – facilitare forme di gestione aperte, dirette, libere, responsabilizzanti. Il modello è quello delle assemblee di gestione ben organizzate in tavoli tematici e gruppi operativi, aperte a tutte e a tutti coloro che hanno qualche progetto da realizzare, la volontà di relazionarsi con l’altro da sé e il desiderio di non smettere di imparare dagli altri.
Casa del popolo Venti Pietre, Bologna, 12 maggio 2018
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