Spiagge: quando il patrimonio pubblico diventa privato
Autore : Redazione
Articolo pubblicato su “il Mulino” il 19 ottobre 2021
di Edoardo Zanchini
La decisione che il Consiglio di Stato in udienza plenaria prenderà mercoledì non riguarda solo la proroga delle concessioni balneari e l’applicazione della Bolkestein, ma il diritto di ogni cittadino a frequentare quei particolari spazi pubblici che sono le spiagge. Lo scontro va avanti da quindici anni, ossia da quando la «famigerata» Direttiva ha fissato un principio di trasparenza e concorrenza nella gestione dei beni pubblici. Il fronte a favore della non applicazione del diritto europeo è fortissimo e trasversale, a supporto dei 12 mila proprietari di concessioni balneari sono infatti tutti i principali partiti che difendono la proroga al 2033 senza gare approvata dal governo Conte I e confermata dal governo Conte II. La ragione per cui questa decisione è un tema di interesse pubblico la racconta un rapporto di Legambiente presentato a luglio. I dati sono impressionanti: in nessun altro Paese in Europa, ma forse al mondo, troviamo una situazione paragonabile a quella italiana di cessione delle spiagge alla gestione privata. Mediamente metà delle spiagge è dato in concessione ma con situazioni incredibili. Per farsi un’idea, nel Comune di Gatteo, in Romagna, non esistono più spiagge libere, ma situazioni simili le troviamo da Rimini a Forte dei Marmi, da Pietrasanta a Laigueglia. La ragione è molto semplice, i guadagni sono rilevanti a fronte di canoni estremamente bassi, per cui si è scatenata una corsa ad aprire nuovi stabilimenti: 1300 quelli nati negli ultimi due anni con un record in Sicilia e un aumento del 42%. Dovrebbero far riflettere i numeri che si trovano in Liguria, Emilia-Romagna e Campania, perché quasi il 70% dei lidi è occupato da stabilimenti balneari e le poche aree senza ombrelloni a pagamento sono quelle intorno a fossi e scarichi in mare, spesso non balneabili. In alcune regioni si è provato a porre dei limiti all’estensione delle concessioni ma continua a mancare, a differenza degli altri Paesi europei, una norma nazionale che fissi regole per garantire il diritto di accedere e fruire liberamente della costa, insieme a criteri per la progettazione e gestione delle strutture, per evitare che si continui a distruggere dune ed ecosistemi attraverso strutture in cemento armato e pavimentazioni.
Il Consiglio di Stato non potrà risolvere tutti questi problemi, ma almeno fare chiarezza rispetto alla legittimità della proroga al 2033 in vigore nel nostro Paese. Uno dei temi su cui la Corte dovrà fare chiarezza riguarderà l’applicazione del principio di concorrenza nei casi di gestione di «risorse pubbliche limitate», che è la questione affrontata dalla direttiva, per spazi pubblici che in molti Comuni sono stati affidati praticamente tutti a privati. Se si è arrivati ad affidare ai tribunali la decisione finale è perché la politica non è stata capace di affrontare questi problemi, preferendo mettersi dalla parte dei balneari. Nelle ultime settimane le cronache politiche hanno raccontato manovre e scontri violentissimi nel disegno di Legge sulla concorrenza, dove Draghi aveva provato a modificare la proroga ma si è trovato di fronte tutto il governo schierato a difesa di una situazione che non deve in alcun modo essere messa in discussione, con la minaccia di bocciare la norma in Parlamento. A confermare la scarsa attenzione nei confronti di questa realtà è il modo con cui il ministero delle Infrastrutture raccoglie le informazioni sulle concessioni o il ministero dell’Economia si occupa di far pagare i canoni a imprese che in alcuni casi hanno fatturati di milioni di euro. Gli elenchi di chi ha in gestione queste aree sono incompleti e aggiornati saltuariamente, i canoni non solo sono bassi, ma risultano 235 milioni di euro non pagati. A stupire è come i partiti cosiddetti liberali e di sinistra non si intestino una battaglia per garantire almeno la trasparenza e per superare una situazione che impedisce a chi è povero di andare al mare, fare un bagno e godere gratuitamente e liberamente di spiagge che sono pubbliche e inalienabili. Eppure, invece di continuare a fuggire dalle responsabilità si potrebbe almeno studiare le esperienze degli altri Paesi europei, dove le procedure adottate di evidenza pubblica per l’assegnazione delle concessioni permettono di valorizzare le offerte migliori e di tutelare le imprese locali. Basta vedere come si gestiscono le assegnazioni in Croazia o a Valencia, a Nizza o a Formentera. È evidente che l’allarme per l’arrivo delle multinazionali è uno spauracchio, sventolato per evitare di occuparsi di fissare procedure che porterebbero a scoprire le condizioni di business con canoni bassissimi e pochi controlli su chi lavora.
Chi tifa per una soluzione europea ovviamente non potrà accontentarsi delle gare, perché sono tanti i problemi delle aree costiere che non si possono continuare a ignorare. Ad esempio, le spiagge in Italia si stanno riducendo per via dell’erosione che oramai riguarda quasi metà della costa e questi processi diventeranno sempre più rilevanti in una prospettiva di cambiamenti climatici, di eventi estremi sempre più intensi e frequenti con innalzamento del livello del mare. Non esistono ricette semplici per affrontare uno scenario così complesso ma di sicuro si dovrà passare da barriere e massi a difesa dei litorali – costosi e inutili, che spostano l’erosione verso le spiagge limitrofe – a interventi che puntano a tutelare le aree rimaste libere dal cemento, a ripristinare le dune e a realizzare ripascimenti con tecniche che si adattano a un clima che sta già cambiando. E poi non esistono solo spiagge in concessione e spiagge libere. In molti territori è impossibile arrivare al mare, perché cancelli e muri impediscono il passaggio. In alcuni casi ci troviamo di fronte a veri e propri casi di illegalità come per gli stabilimenti di Ostia, Pozzuoli o del Gargano. In altri la proprietà privata delle aree prossime al mare diventa una barriera invalicabile, anche se per Legge il passaggio dovrebbe essere sempre garantito.
In queste settimane si è aperta una polemica su una delle più belle spiagge italiane ancora integra, quella di Cala di Forno nel Parco della Maremma. La cessione della villa, per 20 milioni di euro, all’amministratore delegato di Prada rischia infatti di rendere inaccessibile un tratto di costa unico tra boschi, torri antiche e la spiaggia. In Francia come in diverse regioni spagnole si sta puntando a salvaguardare e allargare il patrimonio di aree naturali pubbliche – consigliamo un’occhiata al sito del «Conservatoire du Littoral» – di particolare pregio lungo la costa per garantirne la sopravvivenza e la fruizione per tutti. L’alternativa, se si sceglie di non investire, è stabilire regole per le quali quelle aree non possono essere in alcun modo trasformate e sono garantiti percorsi di accesso alla costa. Tertium non datur se vogliamo essere un Paese civile e salvaguardare il patrimonio paesaggistico sopravvissuto all’aggressione del cemento. Sarebbe una novità che un partito o uno schieramento si candidasse a dare risposta a queste sfide, che ne parlasse apertamente in campagna elettorale. Potrebbe essere un modo per far tornare tanti cittadini a votare rispetto a idee, magari contrapposte, del Paese e del suo patrimonio, di come si vuole rilanciare il turismo e garantire l’accessibilità alle coste per tutti o solo per alcuni gruppi.
Edoardo Zanchini vicepresidente nazionale di Legambiente, e responsabile delle politiche climatiche, internazionali e urbane
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