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Un intreccio fatale: crisi climatica, consumo di suolo, incendi

Un articolo di Enzo Scandurra su TerzoGiornale del 3 settembre 20245

In una recente trasmissione radiofonica (cui ho partecipato in qualità di esperto in urbanistica) si discuteva degli incendi che, anche quest’anno, hanno colpito la capitale: in particolare di quello di Monte Mario e del Pratone di Torre Spaccata. Oltre a ciò, il dibattito si allargava al tema del “verde” in città, considerando che Roma è la città più verde d’Europa. Non si è invece discusso (forse per non turbare gli animi dei cittadini in attesa di partire per le vacanze) dell’intreccio tra le tre questioni: la minaccia ambientale, il consumo di suolo e gli incendi. Quasi fossero eventi separati e attribuibili alla semplice fatalità.

Partiamo innanzi tutto dal tema del verde urbano, per scoprire come crisi climatica, incendi e continuo consumo di suolo (con la progressiva riduzione delle aree verdi) costituiscano ciascuno un evento singolare, ma che fa sì che ognuno retroagisca sull’altro, amplificandone la portata distruttrice, così da mettere a rischio la tenuta della capitale, nonostante il sindaco si affanni a programmare nuove opere in vista del Giubileo 2025 e a rassicurare la popolazione che “Roma si trasforma” (formula che però può essere letta anche nel suo rovescio peggiore!).

La città di Roma ha il territorio comunale più esteso d’Europa, con una superficie di 1287,36 kmq; essa è inoltre il comune europeo con la maggiore superficie di aree verdi disseminate in varie zone del suo vasto territorio. Eppure, se si chiedesse a un qualsiasi romano qual è la città europea che ha la maggiore estensione di verde, difficilmente risponderebbe che è Roma: perché il verde è di fatto difficilmente accessibile, concentrato nelle grandi ville (Borghese, Torlonia, Ada, Doria Pamphilj, Caffarella, Appia Antica, ecc.), non posto nei luoghi abituali del camminare quotidiano; in altre parole, per vederlo bisogna recarcisi appositamente, e non è così semplice.

Un’altra quantità di verde è sparsa nelle periferie, in particolare negli insediamenti di edilizia pubblica (Centocelle, Tor Bella Monaca, Laurentino 38, ecc.); ma anche questo è in genere abbandonato e incolto, poco frequentato e incustodito, spesso luogo preferito per lo spaccio. Cosicché, passeggiando per Roma centro e nei quartieri consolidati, l’impressione è di tutt’altro genere: e cioè che il verde scarseggi. Per non dire che tutte le grandi estensioni di verde sono continuamente minacciate dall’edificazione di nuovi centri commerciali, nuove opere, nuove costruzioni di abitazioni, stadi sportivi, parcheggi sopra e sotto il suolo. Questo nonostante la retorica capitolina invochi il consumo di suolo zero e la transizione ecologica. C’è inoltre un attacco sistematico agli ecosistemi attraverso il taglio di alberi, il riempimento con cemento di zone privilegiate sotto il profilo paesaggistico e spesso archeologico, la pulitura delle sponde del Tevere; attività in parte a cura dello storico e famoso Servizio Giardini, praticamente quasi smantellato nel corso delle precedenti amministrazioni.

Facciamo il caso, discusso dalla grande stampa, del Pratone di Torre Spaccata che rappresenterebbe un continuum ecologico e paesaggistico con il vicino parco di Centocelle. Sono poco meno di sessanta ettari per il quale il Piano regolatore generale prevede un’edificazione di 600.000 mc per 180.000 mq; se si realizzasse tale edificazione, la legittima lotta dei suoi abitanti per destinare il Pratone a verde pubblico sarebbe vanificata. Il Pratone è un’area selvatica ricca di biodiversità, al cui interno vivono e migrano mammiferi e uccelli. È un importantissimo territorio, non ancora edificato, in un quadrante quasi del tutto costruito, dove mancano spazi verdi e dove è sempre più difficile respirare. È un’area dalla grande rilevanza storica e archeologica (si veda Comitato Pratone di Torre Spaccata, Un pratone di cenere e rabbia, in “Comune-info”, 22 agosto 2024).

Ebbene, il 21 agosto scorso un grande incendio ne ha devastato molta parte; un altro, nella medesima area, era già avvenuto nel luglio del 2022: l’ultimo lo si sarebbe potuto quindi prevenire, conoscendo la fragilità di questo territorio. E invece, durante la citata trasmissione radiofonica, l’attenzione era tutta posta sul fatto se tale incendio fosse o no doloso e come siano difficili i controlli per individuare gli eventuali colpevoli. Ma la risposta sarebbe stata semplice: destinare il Pratone a parco urbano e consegnarlo alla custodia della popolazione locale, perché già un anno e mezzo fa undicimila persone hanno firmato una delibera di iniziativa popolare, consegnata al Comune di Roma, per cancellarne l’eventuale edificazione; richiesta, questa, che non ha ottenuto risposta alcuna. Il sindaco Gualtieri lo ha visitato nei giorni di fine agosto dichiarando di essere contrario a una massiccia edificazione. Ma non è una premessa confortante: gli abitanti non vogliono alcuna edificazione, e per realizzare le loro legittime aspettative basterebbe fare una variante di Piano regolatore. Perché le varianti, quando servono per altri scopi, si fanno eccome. La risposta tuttavia è nota: non ci sono i soldi per l’esproprio. Eppure Rutelli acquisì, nel 1997, 120 ettari del parco della Caffarella, e anche allora i soldi non c’erano. Stessa cosa fece Veltroni, nel 2005, acquisendo ulteriori dieci ettari del Parco. Poi entrambi i sindaci abbandonarono queste confortanti premesse urbanistiche con la redazione del Piano regolatore generale dimostratosi, nel tempo, un vero disastro, a causa soprattutto di due operazioni nefaste: la costruzione di nuove centralità nelle periferie e le famigerate compensazioni urbanistiche che disseminarono (e ancora continuano a farlo) grandi quantità di cemento nelle periferie romane oltre il Grande raccordo anulare. Proprietaria del Pratone è la Cassa depositi e prestiti; basterebbero una variante e un semplice accordo tra amministrazioni; in fondo l’amministrazione pubblica è chiamata in causa a difesa delle legittime esigenze dei cittadini e a difesa dalle invasioni speculative private.

Ora è in atto la revisione delle norme tecniche del Piano regolatore generale, e sarebbe l’occasione adatta per rimediare ai danni prodotti dalle precedenti amministrazioni. Sarebbe anche l’occasione per affrontare una crisi climatica sempre più minacciosa. Ma le cose sembrano procedere in direzione opposta.

Aldo Pirone, in un suo articolo (Il Piano regolatore di Roma non è intoccabile, in “Abitare a Roma” del 20 aprile 2022), sostiene che, alla luce delle nuove esigenze ambientali derivanti soprattutto dai cambiamenti climatici e della transizione ecologica, bisognerebbe rivedere il Piano nell’ottica del consumo di suolo zero. A differenza della “variante delle certezze” del 1997 (sindaco Rutelli), le “nuove certezze” dovrebbero essere per l’ambiente e il paesaggio, non per la rendita speculativa. Analoghe considerazioni andrebbero fatte per situazioni simili, come il laghetto naturale della Snia Viscosa nel quartiere Prenestino, il porto crocieristico a Fiumicino (vero scempio paesaggistico, su cui questo giornale è a più riprese intervenuto: vedi qui), lo stadio della Roma a Pietralata (una delle aree più congestionate di Roma), i molti parcheggi disseminati nel centro della città (come quello nei pressi del Vaticano), le nuove disposizioni urbanistiche regionali che consentono di trasformare le sale cinematografiche in centri commerciali e i “bassi” (cantine e simili) in abitazioni.

A questo punto passiamo ad affrontare il tema degli incendi, che puntualmente colpiscono la capitale, come anche molte aree di altri Paesi (la Grecia, per esempio). Afferma Guido Viale che, anche quando la crisi climatica e ambientale planetaria colpisce nel vivo, e sempre più spesso, un territorio che abitiamo o una regione lontana su cui ci informano i telegiornali – con un uragano, un’alluvione, la siccità, l’erosione della costa, lo scioglimento di un ghiacciaio, un’ondata di calore, un incendio incontrollabile, la scomparsa di una o di tante specie –, nessuno fa lo sforzo di collegare questi fenomeni a una tendenza generale, per capire come cambierà la nostra vita mano a mano che questi eventi si faranno più frequenti e gravi (G. Viale, Prendersi cura dei territori, in “Comune.info”, 8 luglio 2024).

Sembra appunto questo il caso della politica urbanistica romana (con qualche eccezione, come il progetto Fori affidato a Walter Tocci), ovvero, da una parte le dichiarazioni retoriche sulla crisi ambientale e la necessità di farle fronte, e, dall’altra, il proseguimento nell’opera di cementificazione del suolo disponibile attraverso nuove e fantasmagoriche opere, come nuovi grandi porti, altri parcheggi che incrementeranno il traffico urbano e l’iperturismo, fantastici progetti (la nuova “foresta” romana) in contraddizione con le dichiarazioni che quotidianamente vengono rilasciate alla stampa dal sindaco. Il quale farebbe bene a pensare una politica urbana più coerente con i principi annunciati e a dedicare meno attenzione alla pura amministrazione del presente.

Roma, insomma, è la capitale delle contraddizioni: non sa scegliere tra l’impegno di tutte le risorse disponibili per arginare il corso della crisi climatica e ambientale e la vecchia politica “del mattone” consistente nell’assecondare le grandi imprese e i gruppi privati, che chiedono di colmare le aree verdi con costruzioni destinate al commercio o alle abitazioni di lusso, o, ancora, alla celebrazioni di eventi, come il Giubileo del 2025, che lasciano un cumulo di macerie erodendo altre aree di verde e aumentando le diseguaglianze.

Purtroppo la tesi del “falso allarme ambientale” ha molti sostenitori – anche a sinistra. Costoro non negano il riscaldamento globale, e neppure che esso sia dovuto all’azione antropica; sostengono tuttavia che la tecnologia può risolvere il problema che, se fosse invece affrontato secondo i metodi proposti dagli ambientalisti (denominati ormai “ecoterroristi”), costerebbe lacrime e sangue dal punto di vista della crescita economica. È un mantra che si ripete, e, anche coloro che si dichiarano convinti a intervenire, lo fanno continuando a consumare suolo, privatizzando aree verdi, costruendo nuove opere, mai proponendo nuovi modelli di sviluppo, un’altra economia e la cura del territorio. Il caso di Roma, come quello di altre grandi città – Milano, Firenze, Napoli –, dimostra come il problema del collasso climatico sia stato rimosso dalla testa degli amministratori, nonostante già presenti il suo nefasto conto, come dimostra il lungo caldo di questa torrida estate.

Enzo Scandurra

Per osservazioni e precisazioni: laboratoriocarteinregola@gmail.com

12 settembre 2024

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