Un pulviscolo di norme: così è ridotta, da anni, la legislazione urbanistica. Norme improvvisate che ripiegano su se stesse ma accomunate, con rare eccezioni, da una precisa finalità: ridurre i controlli, introdurre deroghe, rispondere a interessi particolari. Nel disegno di legge approvato alla Camera il 21 novembre (1) delle intenzioni dei proponenti nessuno può dubitare: invalidare le indagini della magistratura che a Milano ha posto sotto sequestro numerose costruzioni, avviate con una semplice segnalazione di inizio attività, ravvisando contrasti con la normativa nazionale e comportamenti amministrativi omissivi da parte degli uffici comunali.
Questa la materia del contendere. Una norma scritta alla fine degli Anni Sessanta nella legge 765 del 1967 (la legge Ponte emanata dal ministro Mancini a seguito della frana di Agrigento dell’anno precedente) esclude la possibilità di realizzare costruzioni di altezza superiore a 25 metri o con densità fondiaria superiore a 3 mc/mq senza la preventiva approvazione di uno strumento urbanistico di dettaglio (piano particolareggiato o piano di lottizzazione), divieti ribaditi un anno dopo dal decreto ministeriale 1444 (conosciuto come il decreto sugli standard) che prescrive analoga misura se nella città consolidata si intende costruire con altezze superiori a quelle degli edifici circostanti. La ratio delle due disposizioni è presto spiegata: qualora si voglia introdurre in un contesto urbano una costruzione che ne altera la configurazione occorre preventivamente studiare in che modo l’impatto di una volumetria superiore a quella degli edifici preesistenti sia compatibile con lo stato dei luoghi e con le dotazioni territoriali relativi a parcheggi, verde e servizi. Deflagrato il caso, come si è detto, a seguito delle iniziative della magistratura, la politica è corsa ai ripari. Salvare i cantieri sequestrati e legittimare nuovi interventi in corso di realizzazione con caratteristiche analoghe è diventato un imperativo largamente condiviso dalle forze politiche.
Dapprima i partiti del centrodestra hanno improvvisato un testo che, a tutti gli effetti, aveva i contenuti di una sanatoria (2): disponeva che gli interventi realizzati o assentiti in mancanza dell’approvazione di uno strumento esecutivo “sono considerati conformi alla disciplina urbanistica”. Da sottolineare, come è prerogativa di tutti i condoni, l’efficacia retroattiva.
L’iter della proposta di legge, ad audizioni già acquisite, si è poi interrotto: una nuova sanatoria, per di più inequivocabilmente indirizzata a favorire casi specifici, potrebbe (forse) aver provocato qualche imbarazzo negli stessi proponenti. Nel frattempo il Partito Democratico presenta un proprio disegno di legge con la medesima finalità, la legittimazione delle costruzioni nel comune lombardo, ma con una impostazione del tutto diversa.Propone, eliminando qualsiasi riferimento ad un condono, l’interpretazione autentica delle due norme che prevedono l’obbligo all’approvazione preventiva del piano particolareggiato o del piano di lottizzazione. Come viene rimosso l’ostacolo? Semplicemente affermando che negli ambiti edificati e urbanizzati gli interventi di nuova costruzione o di demolizione e ricostruzione non sono subordinati allo strumento esecutivo.
Sull’impostazione del disegno di legge targato Pd converge il centrodestra e viene presentato un nuovo testo – votato con l’adesione di tutti i partiti tranne M5S e AVS –che ne ricalca i principali contenuti aggiungendo una ulteriore modifica alla delimitazione di ristrutturazione edilizia definita nel Testo unico dell’edilizia (si è perso il conto di quante manomissioni la definizione originaria del 2001 è stata oggetto). Nell’ultima riscrittura del giugno 2013 (D.L n. 69) (3) sono compresi nella categoria della ristrutturazione edilizia gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversa sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planovolumetriche e tipologiche anche integralmente differenti da quelli originali ed a questa casistica già assai ampia si associa ora la possibilità di mutare anche la funzione (con retroattività dal giugno 2013). La modifica potrebbe sembrare non particolarmente rilevante ma solo apparentemente: attribuisce una discrezionalità ulteriore al proponente con conseguenze imprevedibili sulla coerenza tra le destinazioni d’uso che rispondono alle convenienze dell’operatore e la pianificazione che dovrebbe garantirne l’ammissibilità (un garage di un piano all’interno di un cortile potrà trasformarsi in un edificio multipiano con destinazione residenziale). Viene in proposito da chiedersi: se si rende possibile modificare integralmente una costruzione preesistente non sarebbe più logico far rientrare un intervento con queste caratteristiche tra le nuove costruzioni? Tesi di recente condivisa dal Tar del Lazio (17 aprile 2024) (4) che ha evidenziato la necessità di un nesso di continuità tra preesistenza e completamento che non comporti uno “stravolgimento degli elementi essenziali della preesistenza ritenendo in mancanza che si è in presenza di una nuova costruzione”. Difficile smentire che il continuo ampliamento della definizione di ristrutturazione edilizia non sia dovuto, come è avvenuto a Milano nel solco del rito ambrosiano, solo al fine di ridurre gli oneri concessori, significativamente inferiori rispetto alle nuove costruzioni.
Alcune considerazioni sulla vicenda sin qui riassunta.
La prima è condensabile in un interrogativo: come è stato possibile che i promotori di iniziative immobiliari di indubbia rilevanza anche economica potessero ritenere che attraverso una semplice segnalazione di inizio attività avrebbero potuto realizzare imponenti strutture edilizie violando le disposizioni di legge? Certamente non per incompetenza o superficialità dei progettisti e neppure per i comportamenti tolleranti degli uffici tecnici. C’è qualcosa di più dovuto al contesto generale in cui viene esercitata da qualche tempo l’attività edilizia. L’urbanistica contrattata divenuta modalità ordinaria, la legislazione che introduce deroghe su deroghe, le giunte comunali che reclamizzano il proprio territorio per sollecitare investimenti, lo smantellamento del sistema dei controlli ricondotti a pastoie burocratiche che rallentano lo sviluppo, hanno fatto ritenere ammissibile ciò che ammissibile non è. Se nei presupposti della pianificazione urbanistica viene a mancare il perseguimento dell’interesse pubblico e la visione di un assetto urbanistico ordinato e rispondente ad un disegno complessivo allora tutto è possibile e i promotori hanno ritenuto che investire sul mattone sia attività benemerita rispetto alla quale le regole fissate dalla legislazione costituiscono fastidiosi laccioli di cui si può non tener conto.
Una seconda considerazione attiene al sistema di pianificazione. Pur condividendo l’opportunità di attuare i piani in modalità diretta nella città consolidata come criterio generale, codificare che per le nuove costruzioni nei lotti interclusi in zone urbanizzate e per ogni forma di interventi di ristrutturazione si possa procedere sempre e comunque senza che l’amministrazione comunale possa subordinare la richiesta del titolo abilitativo a strumenti di dettaglio significa impoverire i contenuti dei piani. A discapito in particolare dei processi di rigenerazione urbana in cui lanecessità di calibrare eventuali incentivi e rimodellare strutture edilizie disgregate anche con interventi di ristrutturazione urbanistica deve poter prevedere preliminarmente un’attenta analisi dei luoghi da cui far derivare un assetto innovato sia per la componente edilizia che per le destinazioni d’uso ritenute ammissibili e soprattutto deve consentire di poter individuare le aree da destinare a verde e servizi senza le quali verrebbero a mancare i requisiti minimi di vivibilità.
Da ultimo le ricadute del disegno di legge, una volta approvato, sul territorio nazionale. Solo una lettura superficiale del testo potrebbe far ritenere che il superamento dei limiti di altezza e di volumetria oggi vincolanti non sarà possibile se non previsti dal piano regolatore generale. Una visione riduttiva che potrà facilmente essere elusa. In che modo? Attraverso le premialità che sono ormai diffuse ovunque, con diverse modalità, per effetto della legislazione regionale conseguenti al Piano casa sottoscritto tra Stato e regioni il 1° aprile 2009 (Governo Berlusconi) ma anche da molti piani urbanistici che proprio ai premi di cubatura affidano la realizzazione di interventi di rigenerazione urbana. Un caso pratico: se in aree centrali si concede un premio di cubatura (per la legge 7 del 2017 della Regione Lazio sono sempre consentiti interventi di demolizione e ricostruzione con incremento del 20 per cento) (5), allo stato attuale non è possibile utilizzarlo se in contrasto con i richiamati limiti. Le nuove norme renderanno dunque possibile aumentare il numero dei piani senza tener conto delle altezze degli edifici adiacenti.
Giancarlo Storto
E’ in preparazione un webinar di Carteinregola sul tema
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