[da “Quel che resta dell’agro” da “Roma il tramonto della città pubblica” di Francesco Erbani – Laterza Editore 2013]
(…) La compensazione urbanistica è quel meccanismo che consente all’amministrazione pubblica di “compensare”, appunto, il proprietario di un’area che il vecchio Piano regolatore del 1962 dichiarava edificabile, ma che non è mai stata edificata e di cui ora l’amministrazione stessa vuole che si sancisca l’inedificabilità. Questa inedificabilità, dovuta a criteri urbanistici e non al fatto che, per esempio, su quell’area la Soprintendenza ha posto un vincolo che impedisce di costruirvi, il Comune ritiene di doverla “compensare”. Come? Concedendo l’edificabilità di un’altra area. Ma non solo.
Per scendere al concreto, si può ricordare una vicenda importante, studiata da due giovani ricercatrici della Facoltà di Architettura della Sapienza, Barbara Pizzo e Giacomina Di Salvo, la vicenda che forse segnò l’avvio delle compensazioni, anche se, a ben vedere, con una vistosa anomalia: Tor Marancia. Comprensorio favoloso, per qualità del paesaggio, per il rilievo archeologico e soprattutto perché parte del sistema di verde e di antichità dell’Appia Antica. Il Piano regolatore del 1962 prevedeva a Tor Marancia 4 milioni di metri cubi di cemento su 120 ettari. Poi ridotti con la Variante di salvaguardia a 1 milione 900 mila. Negli anni fu elaborato anche un progetto, curato dallo studio di Vittorio Gregotti. Ma intorno a Tor Marancia fu ingaggiata una memorabile campagna, protagoniste le associazioni ambientaliste, Antonio Cederna, comitati di cittadini, esponenti del mondo della cultura e della politica. Fu sollecitato l’intervento della Soprintendenza archeologica, e Adriano La Regina, che la guidava, diede incarico a Vezio De Lucia e Italo Insolera, urbanisti, e a Carlo Blasi, professore di Botanica, di stilare una relazione. Il documento venne presentato a fine dicembre del 2001. E le conclusioni dei tre specialisti furono nette: Tor Marancia esprimeva valori tali da imporne la tutela integrale. La Regina pose su tutta l’area un vincolo archeologico, che di per sé, a differenza di altri vincoli che indicano prescrizioni a chi costruisce, impone l’inedificabilità assoluta.
Il vincolo del Ministero dei Beni culturali (di cui la Soprintendenza è organo periferico) bastava a stabilire che a Tor Marancia non si sarebbe più potuto costruire, e senza alcun indennizzo per i proprietari. Ma il Comune decise di compiere un passo ulteriore: l’acquisizione dell’area, che invece prevedeva un indennizzo, al posto del quale scattarono le compensazioni. I proprietari ottennero l’edificabilità in altre aree. Ma, dato che queste aree erano molto più lontane dal centro e molto meno attraenti di Tor Marancia, il risarcimento non poteva limitarsi a una superficie uguale, doveva spingersi fino a un importo uguale a quello che il proprietario avrebbe incassato a Tor Marancia. Fatti i conti, il milione 900 mila metri cubi diventarono 4 milioni 100 mila. Tutti spalmati su terreni agricoli, su 16 aree, hanno calcolato Barbara Pizzo e Giacomina Di Salvo, localizzate nella campagna romana: dall’Olgiata al Pescaccio, dall’Aurelia alla Magliana, dal Divino Amore a Fontana Candida. In alcuni casi le compensazioni sono atterrate su suoli agricoli vincolati, che non possono essere edificate e che dunque generano altre compensazioni in un vortice che potrebbe proseguire ad libitum.
La compensazione è un istituto da molti considerato utile. Un Comune individua un’area, di solito dentro la città, che ritiene indispensabile mantenere libera per attrezzarla a parco oppure per allestirvi servizi. Non può espropriarla perché i costi sono insostenibili e allora avvia una trattativa con il proprietario per localizzare altrove i suoi benefici. Ma benefici di che tipo? Se si trattasse semplicemente di offrire in cambio un’altra area fuori della città, magari più grande di quella ceduta, i problemi sarebbero limitati. L’affare si complica se il proprietario può vantare sull’area che il Comune acquisisce dei diritti d’altro genere. Diritti edificatori, in particolare. La questione è spinosa, giuridicamente e culturalmente persino lacerante: quand’è che il proprietario di un’area può sostenere di avere giuridicamente acquisito il diritto a costruire? Basta che l’edificabilità sia sancita da un Piano regolatore, sulla base di previsioni urbanistiche che riguardano il territorio comunale nel suo insieme, oppure è necessario avere la concessione edilizia, un atto amministrativo ulteriore, ottenuto su richiesta specifica e dunque ad personam? Su questo punto la disciplina urbanistica si è divisa. E la divisione non è di poco conto, è diventata una faglia politica, perché sulla prima tesi, vale a dire che la previsione edificatoria contenuta in un Piano regolatore dia da sola un diritto a costruire il quale, se non esercitato, va compensato, si è fondato non solo il meccanismo della compensazione, ma l’intero Piano regolatore del 2008. L’amministrazione comunale di Roma, gli uffici tecnici e i consulenti hanno infatti ritenuto che le edificabilità previste nel Piano regolatore del 1962 fossero, nel 2008, ancora perfettamente vigenti. Molte di quelle previsioni (che ammontavano a circa 120 milioni di metri cubi) il Campidoglio sostiene di averle tagliate, riducendole a poco più della metà. Molte altre no. Il principio è stato comunque ribadito: chi aveva un terreno dichiarato edificabile nel 1962 aveva un diritto e se questo diritto gli veniva successivamente negato, andava compensato.
Una tesi opposta è stata sostenuta dagli urbanisti Edoardo Salzano, Vezio De Lucia e altri ancora e dal giurista Vincenzo Cerulli Irelli: l’edificabilità è sancita da un Piano sulla base di condizioni demografiche, economiche, produttive che, se mutate, la fanno venir meno. Un Piano deve fissare una serie di regole per l’uso di un territorio che ha validità finché il Piano è in vigore e dunque per un periodo di tempo definito. Quando di Piano se ne fa un altro si verifica se quelle regole e quelle destinazioni sono ancora valide e solo in questo caso si confermano, altrimenti si annullano. Inoltre le amministrazioni infondono nel Piano indirizzi politici: perché la giunta X, subentrata alla giunta Y, non può ritenere indispensabile che il territorio comunale preservi più suolo agricolo della precedente? Il Piano di Roma del 1962, come molti di quella stagione, era un Piano sovradimensionato. Si immaginava un’espansione a ritmi costanti, incrementi di popolazione ed economici che procedevano esattamente come fra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, gli anni del boom. Il Piano di Roma prevedeva che la capitale superasse i 5 milioni di abitanti e sulla base di quest’analisi stabilì una certa quantità del costruito (i 120 milioni di metri cubi, appunto). Un nuovo Piano regolatore, sulla base di analisi aggiornate e di figurazioni più concrete del futuro, non può che stabilire un diverso, più ridotto, dimensionamento. E dunque, avendo il Piano valore di legge, il nuovo Piano annulla il precedente e dunque le edificabilità precedenti: l’importante è che lo faccia motivando le decisioni, facendole discendere da studi e da analisi e non da volontà vessatorie contro questo o quell’altro. La sola edificabilità, dunque, sostengono Salzano, De Lucia e Cerulli Irelli sulla base anche di sentenze del Consiglio di Stato, non dà diritti e non va compensata se eliminata.
Di fronte a tesi così diverse una soluzione percorribile poteva essere quella di attendere il parere di un giudice amministrativo. Ma il Comune di Roma, già gravato da molti contenziosi, non se l’è sentita neanche di tentare la via della giustizia amministrativa, dando per scontato che i tribunali avrebbero avallato le tesi sul diritto edificatorio che, è inutile sottolinearlo, erano fatte proprie dal Campidoglio, ma erano un baluardo concettuale della proprietà fondiaria. Su questo punto le discussioni fra il fronte ambientalista da una parte e la giunta Veltroni dall’altra sono state aspre e hanno aperto una ferita nello schieramento progressista che non si è mai rimarginata. Tutti tenevano conto che sulla proprietà dei suoli a Roma la partita era di lunga data. E che la storia secolare della città era stata in larga parte dominata dalla presenza di un ceto che sul possesso delle aree aveva fondato un potere fuori dell’ordinario, capace di dettare comportamenti e regole alla politica. Chi pianifica il futuro di Roma non può disinvoltamente ignorare questa realtà. Ma le questioni che dividevano il fronte ambientalista dal centrosinistra che governava in Campidoglio erano molte in quegli anni in cui la marcia del cemento nelle città sembrava inarrestabile e tutti, centrodestra e centrosinistra, condividevano la convinzione che i mattoni portassero solo sviluppo. Nessuno a Roma dubitava che occorresse trattare con la proprietà fondiaria. Ma come? C’era possibilità di distinguere, come aveva fatto Luigi Petroselli, sindaco fra il 1979 e il 1981, fra un’attività imprenditoriale legata all’edilizia, fatta di profitto e di rischio, e un’attività prevalentemente di rendita che lucra sui cambi di destinazione urbanistica di un suolo, sul passaggio di questo da agricolo a edificabile? E dunque, se non si davano per scontati i diritti edificatori, era possibile o no che l’amministrazione pubblica negoziasse da posizioni di maggior forza, considerando una propria prerogativa assoluta quella di fissare indirizzi urbanistici che poi si concretizzano grazie a un’attività imprenditoriale essenzialmente svolta da operatori privati? Le posizioni sono rimaste distanti, le spaccature non si sono composte, ma intanto è accaduto che il formidabile consenso che sosteneva l’amministrazione Veltroni e che veniva sintetizzato nella formula di “modello Roma”, fatto di indicatori economici positivi e di smalto culturale, si è sotterraneamente eroso, fino a infrangersi al momento del voto nell’aprile del 2008.
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